Le Lamentazioni sono tradizionalmente ricollegate al nome del profeta Geremia, ma esse appartengano tutt’altro genere letterario che non quello del profetismo.

   Il libro noto nelle nostre Bibbie come Lamentazioni si chiama in ebraico אֵיכָה (echàh) – “Ah, come” -, dalla prima parola con cui inizia il libro, secondo l’uso ebraico di chiamare i libri che compongono la Bibbia con la prima parola (la Chiesa Cattolica ha adottato lo stesso sistema per il Padrenostro, l’Avemaria, il Salve Regina e così via). Più tardi le Lamentazioni ebbero un nome che ne designava meglio il contenuto: Qinòth, che in ebraico significa appunto “lamentazioni” (così nel Talmud, Baba Bathra 15a; così presso Girolamo nel prologo preposto alla Bibbia). I greci chiamarono il libro Thrènoi (“canti funebri”, “lamenti”). La Vulgata latina lo chiamò Threni (“Lamentaiones”).

   Questo piccolo libro (che consta di soli 5 capitoli) si trova dopo quello di Geremia, quale sua appendice, nella versione greca della LXX, nella versione Siriana, nella Peshitta e nella Vulgata. In ebraico si pone invece nella terza serie dei libri biblici detta Ketuvìm (“rimanenti”). È uno dei cinque rotoli che si leggeva nella liturgia del mese di av (luglio/agosto) in occasione della festività del digiuno (9 di av).

   Anche nel genere letterario che si riscontra in Lamentazioni – come in quasi tutti gli altri generi letterari della Bibbia – gli ebrei non hanno inventato nulla, ma si sono accontentati di imitare forme letterarie già preesistenti presso i popoli orientali. Occorre quindi risalire alle elegie antiche. L’elegia è un componimento lirico mesto e doloroso, una lamentazione.

Elegie individuali

   Egizi. Gli egizi credevano che le ombre dei morti conservassero un’esistenza analoga a quella dei rispettivi cadaveri e che potessero quindi subire la corruzione e svanire nel nulla se le spoglie mortali subivano lo sfacelo. È per questo che cercavano di rendere incorruttibili i corpi dei loro cari, imbalsamandoli. Tolte dal cadavere, con riti sacri, le parti interne, immergevano il cadavere per settanta giorni in un bagno di carbonato di soda. Lo avvolgevano poi accuratamente in lunghissime fasce di tela per difenderlo dagli attacchi degli animali, dei vermi e dell’aria. Quindi lo deponevano in variopinte arche di legno, rappresentanti nel coperchio superiore l’immagine del morto. Infine lo collocavano in vasti ipogei (sotterranei) sepolcrali.

   Gli antichi egizi esprimevano i sentimenti del loro dolore con alte grida scomposte, con gemiti disperati e con lamenti ritmici che di solito erano molto brevi. Le vere elegie funebri – solenne tributo di onore e d’affetto verso l’estinto – erano riservate particolarmente al mattino in cui si trasportava la mummia alla valle funerea, cioè agli ipogei delle tombe.

   Un lunghissimo corteo di parenti, di amici, di sacerdoti, di musici e di donne lamentatici dalle vesti squarciate sul seno scendeva con grande strepitio e con grida forsennate nelle acque del Nilo su navicelle, dirigendosi verso la collina degli ipogei ad occidente. Deposta la cassa mortuaria sulla navicella occupata da un gran letto funebre, questa veniva rimorchiata dalle navicelle delle lamentatici. L’ombra del morto iniziava così – nella loro concezione – il suo lungo viaggio verso il mare d’occidente, sospinta dalle onde del fiume sacro. Intanto gli amici le inviavano il saluto estremo:

“All’occidente! Sia felice l’ottima persona, amica di verità, menzognera mai!”.

   Mentre il sacerdote, severo e tranquillo, adempiva i riti funebri con incenso e libagioni, la moglie desolata gemeva, abbracciando la mummia dipinta:

“Fèrmati, dimora qui, non allontanarti dal luogo dove sei! Ti dirigi dunque verso la nave della riviera? Marinai, non vi affrettate, lasciatelo! Tornate pure alle vostre case, ma lui deve andare nel paese dell’eternità. O nave di Osiride, hai compiuto la traversata, sei venuta a togliermi colui che mi lascia”.

   Arrivato in prossimità della necropoli, il corteo funebre si avviava con frastuono e stranissimi lamenti su per il colle, portando ogni sorta di viveri e di doni preziosi per il morto. La cassa funeraria, coronata di ghirlande, era deposta sulla lettiga funebre sormontata da un pesante baldacchino e trainata da paia di buoi per la via cosparsa di fiori fino alla spianata all’apertura dell’ipogeo, casa dell’eternità. Là iniziavano i canti, lamentosi e disperati, mentre il sacerdote incensava il morto e lo aspergeva con l’acqua sacra del Nilo. I parenti e le donne gemevano nei canti funebri, inginocchiati e abbracciando la mummia ritta davanti all’ipogeo. Le ragazze rispondevano:

“Gemiti, gemiti! Fate, fate, fate lamenti incessanti, alti più che potete!”.

   L’ultima funzione, molto solenne, era il convito funebre celebrato in onore del defunto con grande apparato. L’ombra del defunto aveva il primo posto e gustava le ombre dei cibi che gli erano presentati.

   Intorno a questo lugubre banchetto, molte ragazze cinte di ricche vesti in mussolina, con i capelli lunghi sciolti sulle spalle e sul seno, danzavano aritmicamente gemendo al suono di melodiosi strumenti.

   Il canto elegiaco s’innalzava alle vette liriche dei grandi inni epici nazionali. Agli auguri di un felice avvenire si univano profonde considerazioni sulla vita nell’aldilà e severi consigli di filosofia pratica ai viventi presenti.

“Vivi in salute eccellente,

segui il tuo cuore finché vivi.

Profuma di mirra il tuo capo,

ungiti con i più preziosi aromi di dio!

Renditi più bello di quello che eri fin qui.

Segui il tuo diletto, la tua felicità.

Per quanto vivrai sulla terra

non consumarti il cuore nel duolo.

I lamenti non allietano l’uomo sepolto.

Nessuno porta via con sé i propri beni.

Nessuno andò, che poi ne sia tornato”.

 

   Babilonesi. Erodoto afferma che gli assiri e i babilonesi imbalsamavano i cadaveri onorandoli con ritmiche lamentazioni in modo simile agli egizi. A noi non sono giunti esempi di questi canti e neppure resti di tombe. Sembra che gli assiri e i babilonesi portassero i loro morti sulle acropoli caldee. Frammenti di poesie si trovano nel poema di Ghilgamesh, il quale si lamenta per la morte di Enkidu:

“La tua mano non brandisce la clava,

la preda ti sfugge nell’assalto.

Sandali ai piedi più non porti

e il nemico più non abbatti.

La moglie diletta più non baci,

la moglie aborrita non colpisci;

il figlio diletto più non baci,

il figlio aborrito non colpisci.

Il potere della terra ti inghiottì!”

Epopea di Ghilgamesh Tavola XII.

 

   Siri. Nella regione dell’Hauran e nel circondario di Damasco i lamenti erano eseguiti da un gruppo di donne pagate, le lattemàt (“schiaffeggianti”): in segno di duolo si battevano il viso con le mani.

   Capo del coro era la qawala o poetessa, la quale possedeva un’ampia raccolta di canti usati per il lamento nei sette giorni consecutivi di lutto (due ore al giorno). I canti, generalmente composti da lei, sono brevissimi, in genere da due a quattro versi. La poetessa evitava di ripeterli. Durante la nenia le donne si raccoglievano intorno al feretro con grandi frastuoni, strani gesti e alte grida. I gemiti cessavano mentre la poetessa declamava i suoi lamenti, ma ricominciavano subito e ancor più veementi con il ritornello: “Welì, welì!” (“Ohimè, ohimè!”) che il coro delle neddabàt (“lamentatici”) ripeteva al termine di ogni strofa.

   Ebrei. Anche gli ebrei avevano usi simili. Facevano strani gesti e lamenti: “Faranno cordoglio come si fa cordoglio per un figlio unico, e lo piangeranno amaramente come si piange amaramente un primogenito. […] Ci sarà un gran lutto  […]  farà cordoglio, ogni famiglia per proprio conto […]; la famiglia […] da una parte, e le loro mogli da un’altra parte” (Zc 12:10-12). Si strappavano le vesti: “Prese le sue vesti e le stracciò, lo stesso fecero tutti gli uomini che erano con lui” (2Sam 1:11). Si rivestivano di sacchi: “Invece di ampio mantello, un sacco stretto” (Is 3:24). Si aspergevano di polvere i capelli: “Con le vesti stracciate e con il capo cosparso di polvere” (2Sam 1:2). Ci si toglieva i sandali (Ez 24:17). Si coprivano anche il capo: “Saliva piangendo e camminava con il capo coperto, a piedi scalzi; e tutta la gente che era con lui aveva il capo coperto e, salendo, piangeva” (2Sam 15:30); “Si coprono il capo” (Ger 14:4); sembra per esprimere il sacro terrore che incuteva la morte.

   Tuttavia, erano proibiti gli usi con significato idolatrico, come lo sfregiarsi il corpo con oggetti taglienti o il radersi capelli e barba. “Non vi fate incisioni addosso e non vi radete tra gli occhi per un morto, poiché tu sei un popolo consacrato al Signore tuo Dio” (Dt 14:1,2). “Non vi taglierete in tondo i capelli ai lati del capo, e non ti raderai i lati della barba. Non vi farete incisioni nella carne per un morto, né vi farete tatuaggi addosso” (Lv 19:27,28). Quando Geremia annunciò il castigo per gli ebrei apostati, menziona gli usi pagani che essi ormai praticavano: “Grandi e piccoli moriranno in questo paese; non avranno sepoltura, non si farà lutto per loro, nessuno si farà incisioni addosso o si raderà per loro”. – Ger 16:6.

   Dopo la morte, il corpo generalmente veniva lavato (At 9:37) e unto con oli e unguenti aromatici (Mr 14:3-8; Gv 12:3,7). Non si trattava d’imbalsamazione. I corpi non venivano imbalsamati. Il corpo veniva poi avvolto in un telo, generalmente di lino: “Prese il corpo, lo avvolse in un lenzuolo” (Mt 27:59). La testa poteva essere coperta da un panno separato (Gv 20:7). Spezie come mirra e aloe venivano di solito mischiate alle bende (Gv 19:39,40). La salma poteva anche essere deposta in un letto impregnato di olio e unguento, come avvenne per la salma del re Asa. – 2Cron 16:14.

   La salma probabilmente veniva portata al luogo di sepoltura su una bara o lettiga funebre. Veniva accompagnata da una notevole processione che poteva includere musicisti che suonavano musica triste (Lc 7:12-14; Mt 9:23). Quando si portava il morto alla tomba, venivano fatti dei lamenti:

“Ahimè, signore!..”

“Ahimè, fratello mio, ahimè sorella!”

“Ahimè, signore, ahimè, maestà!”

Ger 34:5;22:18.

   I canti funebri generalmente erano molto brevi. Si rammenti quello composto in ritmo libero da Davide per la morte del generale Abner. “Davide disse a Ioab e a tutto il popolo che era con lui: ‘Stracciatevi le vesti, cingetevi di sacco e fate cordoglio per la morte di Abner!’ Il re andò dietro alla bara” (2Sam 3:31). “Il re fece un canto funebre su Abner e disse:” (v. 33):

“’Doveva Abner morire come muore un criminale?

Le tue mani non erano legate, né i tuoi piedi erano stretti nei ceppi.

Sei caduto come si cade per mano di scellerati’.

Tutto il popolo ricominciò a piangere Abner”. – Vv. 33-35.

   Talora le elegie erano più lunghe. Sembra anzi che esistessero in Israele delle collezioni di canti funebri. Si rammentino le elegie di Geremia per la morte di Giosia (2Cron 35:25) e di Davide per la morte di Gionata. – 2Sam 1:17-27.

Elegie nazionali

   Oltre alle elegie personali si riscontrano anche delle elegie storiche, e queste hanno una singolare somiglianza con i Salmi e le Lamentazioni della Bibbia.

   Sumere. Quando l’armata di Ummar assalì improvvisamente Lagas, bruciandone i santuari, uno scriba o sacerdote presente scrisse una lamentazione che è tuttora conservata.

“Gli uomini di Ummar han messo a fuoco l’Episala,

han rapito argento e pietre preziose.

Han versato sangue nel palazzo di Tirasi,

ha versato sangue nell’Apsu-banda.

Han versato sangue nel santuario d’Enlil

e nel santuario dei dio sole”.

   Lunghissima è la lamentazione sumera sopra la distruzione di Ur. Il grande archivio reale di Assurbanipal in Ninive ci ha conservato alcuni canti di preghiera rivolti alla divinità. Il quinto canto è un’elegia storica sulla distruzione della sacra e fiorente città di Uruk.

“Fino a quanto, mia Signora, il nemico violento

opprimerà la tua regione?

In Uruk, tua illustre città,

regna desolazione!

In E-Ulbar, tempio del tuo oracolo,

si versa sangue come acqua.

Fuoco e incendio su tutti i tuoi fratelli

s’è sparso come grandine.

O mia Signora, con affanno,

son legato a sventura!

O mia padrona, tu m’afferrasti

e m’hai gettato nel lutto.

Il nemico prepotente mi abbatté,

sì, come una canna.

Ah!, più non domino la mente mia,

io più consiglio non ho.

Come canneto in palude, notte e dì,

io vo gemendo.

Io son tuo servo,

m’inchino davanti a te.

Il tuo cuore si calmi,

sia mite il tuo animo”.

 

Le lamentazioni in Israele

   Simili alle precedenti sono le lamentazioni cantate per la distruzione di Gerusalemme (587 a. E. V.) e che si trovano nella Bibbia.

   Queste lamentazioni constano di cinque carmi che corrispondono all’odierna divisione del libro biblico di Lamentazioni in cinque capitoli.

   I primi quattro cono carmi acrostici, perché le singole strofe iniziano con parole le cui prime lettere riproducono l’intera serie dell’alfabeto ebraico.

Lam

Alfabeto

Versetto

 (prime tre parole)

1:1

Àlef

א

אֵיכָה ׀ יָשְׁבָה בָדָד

1:2

Bet

ב

בָּכֹו תִבְכֶּה בַּלַּיְלָה

1:3

Ghìmel

ג

גָּלְתָה יְהוּדָה מֵעֹנִי

1:4

Dàlet

ד

דַּרְכֵי צִיֹּון אֲבֵלֹות

1:5

He

ה

הָיוּ צָרֶיהָ לְרֹאשׁ

1:6

Vav

ו

וַיֵּצֵא מִנ־בַת מִבַּת־צִיֹּון

1:7

Zàin

ז

זָכְרָה יְרוּשָׁלִַם יְמֵי

1:8

Khet

ח

חֵטְא חָטְאָה יְרוּשָׁלִַם

1:9

Tet

ט

טֻמְאָתָהּ בְּשׁוּלֶיהָ לֹא

1:10

Yòd

י

יָדֹו פָּרַשׂ צָר

1:11

Kaf

כ

כָּל־עַמָּהּ נֶאֱנָחִים

1:12

Làmed

ל

לֹוא אֲלֵיכֶם כָּל־עֹבְרֵי

1:13

Mem

מ

מִמָּרֹום שָׁלַח־אֵשׁ

1:14

Nun

נ

נִשְׂקַד עֹל פְּשָׁעַי

1:15

Sàmech

ס

סִלָּה כָל־אַבִּירַי

1:16

Àyn

ע

עַל־אֵלֶּה ׀ אֲנִי

1:17

Pe

פ

פֵּרְשָׂה צִיֹּון בְּיָדֶיהָ

1:18

Tzàde

צ

צַדִּיק הוּא יְהוָה

1:19

Qof

ק

קָרָאתִי לַמְאַהֲבַי הֵמָּה

1:20

Resh

ר

רְאֵה יְהוָה כִּי

1:21

Shin

ש

שָׁמְעוּ כִּי נֶאֱנָחָה

1:22

Tau

ת

תָּבֹא כָל־רָעָתָם

Nel terzo carme (Lam 3) l’acrostico si estende a ciascun verso delle strofe. Riportiamo, come esempio, le prime quattro strofe:

Alfabeto

Lam

Versetto (prime tre parole)

Àlef

א

3:1

אֲנִי הַגֶּבֶר רָאָה

Prima strofa

3:2

אֹותִי נָהַג וַיֹּלַךְ

3:3

אַךְ בִּי יָשֻׁב

Bet

ב

3:4

בִּלָּה בְשָׂרִי וְעֹורִי

Seconda strofa

3:5

בָּנָה עָלַי וַיַּקַּף

3:6

בְּמַחֲשַׁכִּים הֹושִׁיבַנִי כְּמֵתֵי

Ghìmel

ג

3:7

גָּדַר בַּעֲדִי וְלֹא

Terza strofa

3:8

גַּם כִּי אֶזְעַק

3:9

גָּדַר דְּרָכַי בְּגָזִית

Dàlet

ד

3:10

דֹּב אֹרֵב הוּא

Quarta strofa

3:11

דְּרָכַי סֹורֵר וַיְפַשְּׁחֵנִי

3:12

דָּרַךְ קַשְׁתֹּו וַיַּצִּיבֵנִי

   Il quinto carme (Lam 5) non è acrostico, ma è composto da 22 versi, quante cioè sono le lettere dell’alfabeto ebraico.

   L’acrostico non è una particolarità di Lamentazioni. Si trova anche in Proverbi 31, in qualche Salmo e in Naum 1:1-11. L’acrostico è molto impiegato nella letteratura siriaca.

   Lo scopo principale dell’acrostico era quello di rendere facile il controllo per verificare se il testo si fosse conservato accuratamente nella trasmissione orale e scritta. Ma era anche quello di facilitare lo studio a memoria.

   Nei capitoli 2, 3 e 4 di Lam c’è una particolarità riguardo all’acrostico. Mentre nell’alfabeto ebraico viene prima la lettera ע (àyn) e poi la lettera פ (pe), in questi tre capitoli l’ordine è invertito: prima la pe e poi la àyn*:

**

Prime tre parole del versetto

Alfabeto*

Lam 2:16

פָּצוּ עָלַיִךְ פִּיהֶם

פ

Pe

Lam 2:17

עָשָׂה יְהוָה אֲשֶׁר

ע

Àyin

Lam 3:46

פָּצוּ עָלֵינוּ פִּיהֶם

פ

Pe

Lam 3:47

פַּחַד וָפַחַת הָיָה

Lam 3:48

פַּלְגֵי־מַיִם תֵּרַד

Lam 3:49

עֵינִי נִגְּרָה וְלֹא

ע

Àyin

Lam 3:50

עַד־יַשְׁקִיף וְיֵרֶא

Lam 3:51

עֵינִי עֹולְלָה לְנַפְשִׁי

Lam 4:16

פְּנֵי יְהוָה חִלְּקָם

פ

Pe

Lam 4:17

עֹודֵינָה עֹודֵינוּ תִּכְלֶינָה

ע

Àyin

* Nell’alfabeto ebraico la pe (פ) segue la àyin (ע).

** Testo Masoretico.

   Non si può pensare a una confusione di antichi copisti, perché la medesima inversione è usata anche in altri carmi alfabetici. Forse a quel tempo l’ordine dell’alfabeto non era ancora ben definito? Forse neppure il valore numerico delle lettere (ע = 70; פ =80) non era sicuro? Non lo sappiamo. Non abbiamo dati sufficienti per una spiegazione sicura.

   Prima lamentazione (Lam 1). Il libro descrive la desolazione in cui si trovava Gerusalemme. La città – simboleggiata in una donna abbandonata da tutti – è preda di crudeli nemici. Scomparsa l’antica magnificenza, essa è caduta nella miseria e nell’obbrobrio più profondo (1:1-11). È la donna stessa che parla, descrivendo il suo stato e implorando dagli uomini e da Dio pietà e giustizia:

“Osservate, guardate, se c’è dolore simile al dolore che mi tormenta,

e con il quale il Signore mi ha colpita

nel giorno della sua ardente ira.

Egli dall’alto ha scagliato un fuoco,

l’ha fatto discendere nelle mie ossa;

ha teso una rete ai miei piedi,

mi ha rovesciata a terra;

mi ha gettata nella desolazione, in un languore senza fine.

La sua mano ha legato il giogo dei miei peccati,

che s’intrecciano, gravano sul mio collo;

egli ha stroncato la mia forza;

il Signore mi ha dato in mani, alle quali non posso resistere.

Il Signore ha abbattuto dentro le mura tutti i miei prodi;

ha raccolto contro di me una grande moltitudine,

per schiacciare i miei giovani;

il Signore ha calcato, come in un tino, la vergine figlia di Giuda.

Per questo, io piango; i miei occhi, i miei occhi si sciolgono in lacrime,

perché da me è lontano il consolatore,

che può ravvivare la mia vita.

I miei figli sono desolati, perché il nemico ha trionfato”. – 1:12-16.

   Seconda lamentazione (Lam 2). Il Dio di Israele, per punire la malvagità, ne distrugge la capitale senza pietà alcuna. Egli stesso ne ha abbattuto i baluardi e le mura, tanto che il popolo ne resta allibito.

“Come mai il Signore, nella sua ira, ha coperto di una nube oscura la figlia di Sion?

Egli ha gettato dal cielo in terra la gloria d’Israele,

e non si è ricordato dello sgabello dei suoi piedi,

nel giorno della sua ira!

Il Signore ha distrutto senza pietà tutti i territori di Giacobbe;

nella sua ira, ha rovesciato,

ha atterrato le fortezze della figlia di Giuda,

ne ha profanato il regno e i capi.

Nella sua ira ardente, ha infranto tutta la potenza d’Israele;

ha ritirato la propria destra in presenza del nemico;

ha consumato Giacobbe come fuoco fiammeggiante

che divora tutto intorno”. – 2:1-3.

    Di fronte a questo spettacolo, anche il poeta è pieno di sgomento. Tuttavia, egli riconosce la giustizia della punizione divina e rivolge un appello alla clemenza di Dio.

“I miei occhi si consumano in lacrime, le mie viscere si commuovono,

il mio fegato si spande in terra

per il disastro della figlia del mio popolo,

al pensiero dei bambini e dei lattanti che venivano meno per le piazze della città”. – 2:11.

“Alzatevi, gridate di notte, al principio di ogni veglia!

Spandete come acqua il vostro cuore davanti alla faccia del Signore!

Alzate le mani verso di lui per la vita dei vostri bambini,

che vengono meno per la fame agli angoli di tutte le strade!

‘Guarda, Signore, considera! Chi mai hai trattato così?’”. – 2:19,20a.

   Terza lamentazione (Lam 3). Il poeta – che qui simboleggia il popolo – parla in prima persona e descrive il cumulo di miserie e di dolori che si è rovesciato su di loro. Egli si spinge quasi alla disperazione.

“Mi ha circondato di un muro, perché non esca;

mi ha caricato di pesanti catene.

Anche quando grido e chiamo aiuto,

egli chiude l’accesso alla mia preghiera.

Egli mi ha sbarrato la via con blocchi di pietra,

ha sconvolto i miei sentieri.

È stato per me come un orso in agguato,

come un leone in luoghi nascosti.

Mi ha sviato dal mio cammino, e mi ha squarciato,

mi ha reso desolato.

Ha teso il suo arco, mi ha posto

come bersaglio delle sue frecce.

Mi ha fatto penetrare nelle reni

le frecce della sua faretra.

Io sono diventato lo scherno di tutto il mio popolo,

la sua canzone di tutto il giorno.

Egli mi ha saziato d’amarezza,

mi ha abbeverato d’assenzio.

Mi ha spezzato i denti con la ghiaia,

mi ha affondato nella cenere.

Tu mi hai allontanato dalla pace,

io ho dimenticato il benessere.

Io ho detto: ‘È sparita la mia fiducia,

non ho più speranza nel Signore’”. – 3:7-18.

   Ma appena egli pronuncia il nome di Dio si riaccendono la fiducia e la speranza. Dio, terribilmente giusto, sta ora attuando la sua giustizia. Ma essendo misericordioso, a sua volta punirà coloro che ora opprimono la sua Israele:

“Ecco ciò che voglio richiamare alla mente,

ciò che mi fa sperare:

è una grazia del Signore che non siamo stati completamente distrutti;

le sue compassioni infatti non sono esaurite;

si rinnovano ogni mattina.

Grande è la tua fedeltà!

‘Il Signore è la mia parte’, io dico,

‘perciò spererò in lui’.

Il Signore è buono con quelli che sperano in lui,

con chi lo cerca.

È bene aspettare in silenzio

la salvezza del Signore”. – 3:21-26.

“Il Signore infatti

non respinge per sempre;

ma, se affligge,

ha pure compassione, secondo la sua immensa bontà;

poiché non è volentieri che egli umilia

e affligge i figli dell’uomo.

Quando uno schiaccia sotto i piedi

tutti i prigionieri della terra,

quando uno vìola i diritti di un uomo

in presenza dell’Altissimo,

quando si fa torto a qualcuno nella sua causa,

il Signore non lo vede forse?”. – 3:31-36.

“Tu li retribuirai, Signore,

secondo l’opera delle loro mani.

Darai loro indurimento di cuore,

la tua maledizione.

Li inseguirai nella tua ira, e li sterminerai

sotto i cieli del Signore”. – 3:64-66.

   Quarta lamentazione (Lam 4). Nuova descrizione della città devastata e degli orrori che subisce il popolo. Motivo di tanta sventura sono i peccati della nazione, e particolarmente dei profeti e dei sacerdoti:

“Così è avvenuto a causa dei peccati dei suoi profeti,

delle iniquità dei suoi sacerdoti,

che hanno sparso nel mezzo di lei

il sangue dei giusti.

Essi vagavano come ciechi per le strade,

sporchi di sangue,

in modo che non si potevano

toccare le loro vesti.

‘Fatevi in là! Un impuro!’, si gridava al loro apparire;

‘Fatevi in là! Fatevi in là! Non lo toccate!’.

Quando fuggivano, peregrinavano qua e là,

e si diceva fra le nazioni: ‘Non restino più qui!’.

La faccia del Signore li ha dispersi,

egli non volge più verso di loro il suo sguardo”. – 4:13-16.

   L’aiuto sperato dall’Egitto fu vano: “A noi si consumavano ancora gli occhi in cerca di un soccorso, aspettato invano; dai nostri posti di vedetta scrutavamo la venuta d’una nazione che non poteva salvarci” (4:17). Il re stesso cadde in mano ai nemici: “Colui che ci fa respirare, l’unto del Signore è stato preso nelle loro fosse; egli, del quale dicevamo: ‘Alla sua ombra noi vivremo tra le nazioni’” (4:20). Gli edomiti che diedero man forte ai distruttori devono ora bere la coppa della punizione. – 4:21,22.

   Quinta lamentazione (Lam 5). Il popolo, rivolgendosi a Dio in tono di preghiera, enumera i mali passati e presenti (5:1-18), e termina invocando la misericordia divina:

“Ma tu, Signore, regni per sempre;

il tuo trono dura d’età in età.

Perché dovresti dimenticarci per sempre

e abbandonarci per lungo tempo?

Facci tornare a te, o Signore, e noi torneremo!

Ridonaci dei giorni come quelli di un tempo!

Ci hai forse rigettati davvero?

Sei tu adirato fortemente contro di noi?”. – 5:19-22.

 

 

Autore

   L’antica tradizione – sia giudaica che della primitiva congregazione dei discepoli di Yeshùa – attribuisce Lamentazioni a Geremia, ovvero a colui che ricopre la figura centrale nell’epoca in cui avvenne la distruzione di Gerusalemme.

   Nella tradizione giudaica ci sono diversi testimoni. Il Talmud (B. Bathrà): “Geremia scrisse il suo libro profetico, le Lamentazioni e il libro dei Re”. Ciò è confermato anche in Moèd Qatàn 26° Midràsh Rabà. Il Targùm conferma. Così anche i vari commenti rabbinici posteriori. Anche la versione greca dei LXX conferma, ponendo il nome di Geremia nel titolo di Lamentazioni.

   La tradizione della primitiva congregazione dei discepoli di Yeshùa è modesta. Abbiamo però molte testimonianze esplicite dei primissimi secoli. Origène, morto nel 254 E. V. (PG 12, 1084). Girolamo (Prol. Gal.). Ilario. – PL iX, 241.

   Il passo di 2Cron 35:25 è molto discusso: “Geremia compose un lamento su Giosia; e tutti i cantori e tutte le cantanti hanno parlato di Giosia nei loro lamenti fino a oggi, tanto da diventarne un’usanza in Israele. Essi si trovano scritti tra i Lamenti”. Questa dichiarazione viene fatta dopo aver narrato la morte di Giosia nella battaglia di Meghiddo. “Si trovano scritti tra i lamenti”; “Sono scritti fra i canti funebri” (TNM); “Sono scritti nelle Lamentazioni” (Did). L’ebraico ha כְּתוּבִים עַל־הַקִּינֹות (ketuvìm al-haqinòt): “Sono scritti nelle qinòt”. Alcuni hanno pensato che le qinòt (קִּינֹות) fossero appunto la raccolta delle nostre Lamentazioni (così anche il Diodati). In verità hanno creduto così gli antichi interpreti sia giudei sia quelli dei primi secoli della nostra èra.

   Tuttavia, il contenuto di Lamentazioni dimostra che il cronista (lo scrittore di 2Cron) non alludeva a esse.

  • Lamentazioni non ha nulla a che vedere con un carme funebre cantato dinanzi al cadavere di un re.
  • L’innominato re delle Lamentazioni è ancora vivo e prigioniero: “Il suo re e i suoi capi sono fra le nazioni”. –  Lam 2:9.
  • Lo stato di spaventosa devastazione con cui è descritta la città di Gerusalemme non corrisponde alle circostanze della morte di Giosia.
  • Il cronista (esperto in ciò che riguarda il servizio liturgico nel Tempio) non poteva davvero confondere le Lamentazioni  (forse già entrate ai suoi tempi nella liturgia) con l’altra raccolta delle qinòt contenenti l’elegia su Giosia.

   La tradizione in favore della paternità geremiana di Lam dominò incontrastata fino al 18° secolo. Nel 1712 Von Der Hardt la negò, ma con ragioni più fantastiche che scientifiche: attribuì, infatti, i cinque carmi a Daniele, ai suoi tre compagni (Sadrac, Mesac e Abèdnego) e al prigioniero re Ioiachin. Con il secolo 19° s’iniziò ad esaminare scientificamente la tradizione alla luce della critica moderna, confrontando filologicamente le Lamentazioni con le parti indubbiamente autentiche di Geremia. In conseguenza di questo esame, alcuni attribuiscono Lam a qualche fidato discepolo di Geremia (come Baruc), altri negano l’unità dell’autore (attribuendo i vari carmi a poeti di epoche diverse), altri ancora (specialmente esegeti cattolici) rimasero fedeli alla tradizione.

   Le ragioni portate pro e contro sono discutibili, per cui non sono decisive per una conclusione certa.

   In favore della paternità geremiana milita il seguente fatto: innegabili sono i contatti tra il libro di Geremia e il libro delle Lamentazioni. La presunzione astratta della tradizione è quindi resa molto più concreta e probabile. L’uso dell’acrostico era presso i semiti una prova d’abilità e aveva il vantaggio di rendere più facile il ricordo mnemonico delle singole parti. Quindi, anche Geremia, poeta di gran valore, poteva benissimo usarlo. Certo Geremia era prigioniero: “Geremia rimase nel cortile della prigione fino al giorno che Gerusalemme fu presa” (Ger 38:28). Ma non si dica che non poté assistere all’assedio e alla caduta di Gerusalemme, perché fu imprigionato a metà circa dell’assedio: “Geremia andava e veniva in mezzo al popolo, e non era ancora stato messo in prigione. L’esercito del faraone era uscito d’Egitto; e quando i Caldei che assediavano Gerusalemme ne ebbero la notizia, tolsero l’assedio a Gerusalemme” (Ger 37:4,5). Egli fu liberato dai babilonesi appena presa la città. Inoltre, la sua prigionia non era di segregazione, ma di sola detenzione: “Il re Sedechia ordinò che Geremia fosse custodito nel cortile della prigione, e gli fosse dato tutti i giorni un pane dalla via dei fornai, finché tutto il pane della città fosse consumato. Così Geremia rimase nel cortile della prigione” (Ger 37:21; cfr. anche 38:1-3). Egli poteva dunque seguire gli eventi.

   Contro la paternità di Geremia militano le seguenti ragioni:

  1. Lam 2:9: “I suoi profeti [di Gerusalemme] non ricevono più visioni dal Signore”. Un vero profeta come poteva scrivere una cosa simile? Alcuni studiosi dicono che questo si riferirebbe ai falsi profeti, oppure allo scarso numero dei profeti rispetto alle epoche precedenti.
  2. Il principio della responsabilità personale è uno dei capisaldi di Geremia. Però, in Lam 5 le sventure subite sono presentate come castigo per i misfatti dei padri già morti: “I nostri padri hanno peccato, e non sono più; noi portiamo la pena delle loro iniquità” (5:7). Tuttavia, i fautori della paternità adducono Ger 16:11 in cui il castigo appare una punizione anche delle antiche pecche: “’Perché i vostri padri mi hanno abbandonato’, dice il Signore, ‘sono andati dietro ad altri dèi, li hanno serviti e si son prostrati davanti a loro’”. Anche, perché i peccati dei contemporanei sono ben menzionati: “Voi avete fatto anche peggio dei vostri padri” (v. 12). Così, anche il Lam 5:16 si ammettono i peccati dei contemporanei viventi: “Guai a noi, perché abbiamo peccato!”.
  3. I babilonesi, che in Ger sono costantemente presentati come strumenti per far giustizia da parte di Dio, non potevano essere oggetto di imprecazioni (Lam 1:21,22;3:64-66). Ma anche in Ger 50:23;51:20-24 essi ricevono le stesse imprecazioni. Se in Lam 4:17-20 sono espressi in prima persona dei sentimenti che Geremia non condivide, ciò si spiega con il fatto che spesso nei carmi l’autore si accomuna con lo stato miserando del popolo:

Lam 4:17

Lam 1:14;3:42

“A noi si consumavano ancora gli occhi

in cerca di un soccorso, aspettato invano;

dai nostri posti di vedetta scrutavamo

la venuta d’una nazione che non poteva salvarci”.“La sua mano ha legato il giogo dei miei peccati, che s’intrecciano, gravano sul mio collo; egli ha stroncato la mia forza;

il Signore mi ha dato in mani, alle quali non posso resistere”, “Noi abbiamo peccato, siamo stati ribelli, e tu non hai perdonato” La prima persona usata è plurale. Geremia era contrario alla richiesta d’aiuto fatta all’Egitto, ma qui si accomuna ai sentimenti del popolo. La prima persona usata è singolare per identificarsi con Gerusalemme, la prima plurale con il popolo.

 

Ritmo

   I primi quattro carmi hanno il ritmo delle popolari qinòt (elegie generalmente cantate dinanzi ad un cadavere nelle cerimonie funebri). Gli stichi sono divisi in due parti. Il primo emistico ha circa la lunghezza del verso ordinario ebraico, mentre il secondo emistico non di rado è ridotto a sole due o tre parole. La caratteristica è però che tra i due emistichi non compare d’ordinario il classico parallelismo ebraico di pensiero (sinonimico, per indicare lo stesso concetto, o antitetico, per indicare il concetto opposto). Le due parti dello stico (i due emistichi) formano un solo enunciato concettuale o, al più, la seconda parte dà l’impressione di essere una lamentevole eco della prima. Questa suddivisione degli stichi sfugge a TNM che riporta solo le strofe:

Lam 3:1-3 (TNM)

3 Io sono l’uomo robusto che ha visto l’afflizione a causa del bastone del suo furore.

 2 Sono io che egli ha condotto e fa camminare nelle tenebre e non nella luce.

 3 In realtà, contro di me volge ripetutamente la mano tutto il giorno.

È invece messa in evidenza da NR:

 Lam 3

 

Ed ecco il testo ebraico:

Lam 3:1-3 (Testo Masoretico)

אֲנִי הַגֶּבֶר רָאָה עֳנִי

emistico

Primo stico

בְּשֵׁבֶט עֶבְרָתֹו

emistico

אֹותִי נָהַג וַיֹּלַךְ חֹשֶׁךְ

emistico

Secondo stico

וְלֹא־אֹור

emistico

אַךְ בִּי יָשֻׁב יַהֲפֹךְ יָדֹו

emistico

Terzo stico

כָּל־הַיֹּום

emistico