I primi tre scritti evangelici (Mt, Mr e Lc) furono chiamati “sinottici” nel 1776 perché i loro racconti in gran parte simili possono essere riuniti in colonne parallele visibili in un solo colpo d’occhio (la parola greca sΰnopsis significa “vista complessiva” e deriva dal verbo sünòpsomai  che vuol dire “espongo sotto un solo sguardo”). Per illustrare, ecco uno scorcio della tabella sinottica:

 

Matteo

Marco

Luca

9:9

Gesù, partito di là, passando, vide un uomo chiamato Matteo, che sedeva al banco delle imposte e gli disse: «Seguimi». Ed egli, alzatosi, lo seguì.

2:14

Passando, vide Levi, figlio d’Alfeo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: «Seguimi». Ed egli, alzatosi, lo seguì.

5:27,

28

Egli uscì e notò un pubblicano, di nome Levi, che sedeva al banco delle imposte, e gli disse: «Seguimi».

Ed egli, lasciata ogni cosa, si alzò e si mise a seguirlo.

   Per avere una buona idea generale della situazione ecco uno schema relativo ai parallelismi e alle differenze tra i tre scritti sinottici:

Vangelo

Peculiarità

Parallelismi

Marco

7

93

Matteo

42

58

Luca

59

41

Giovanni

92

8

Westcott, An Introduction to the Study of the Gospels, 5ª edizione, pag. 191.

(Gv – escluso dai sinottici – è nella tabella per il solo raffronto).

   I sinottici si assomigliano dunque nel piano generale: dopo aver descritto la missione di Yeshùa in Galilea, ne narrano la passione, la morte e la resurrezione a Gerusalemme. Giovanni insiste invece di più sull’attività di Yeshùa nella Giudea. Nelle parti comuni l’accordo dei tre sinottici si spinge fino all’uso delle parole identiche con varianti minime.

   Alcune differenze tra i tre si spiegano con l’intento dell’autore o con il suo proprio modo di esprimersi. Così, ad esempio, abbiamo in Mt 13:55: “Non è questi il figlio del falegname?”; che diviene: “Non è questi il falegname?” in Mr 6:3. La differenza si spiega con il fatto che Marco, rivolgendosi ai greci, evita l’espressione ebraica “figlio di” che nel linguaggio semitico indica il mestiere ovvero l’appartenenza alla corporazione dei falegnami (meglio sarebbe tradurre “carpentiere”, dato che allora – essendo le case costruite di legno – il falegname era un carpentiere).

Il problema dei sinottici

   Gli studiosi si sono molto adoperati per spiegare il fenomeno dei sinottici. Il problema da risolvere è: quale dei tre sorse per primo?, chi ha copiato da chi?, c’erano forse una o più fonti comuni da cui i tre hanno tratto il loro materiale? Le soluzioni proposte sono state diverse. Vediamole.

   Tradizione orale. Secondo questa scuola di pensiero gli accordi tra i tre sinottici si spiegano con il ricorso dei tre alla medesima tradizione orale, mentre le differenze si spiegherebbero con il particolare intento di ciascuno dei tre. Questa soluzione lascia però dei dubbi: l’accordo è talora così fisso ed esteso alle parole da non potersi spiegare sufficientemente con una tradizione orale precedente. Contro tale ipotesi ci sono anche le parole di Luca: “Poiché molti hanno intrapreso a ordinare una narrazione dei fatti che hanno avuto compimento in mezzo a noi, come ce li hanno tramandati quelli che da principio ne furono testimoni oculari e che divennero ministri della Parola, è parso bene anche a me, dopo essermi accuratamente informato di ogni cosa dall’origine, di scrivertene per ordine” (Lc 1:1-3). Da qui è chiaro che “molti” avevano già fatto “una narrazione”; si attesta anche una tradizione orale precedente (“ce li hanno tramandati quelli che”); e si attesta la presenza di scritti evangelici già esistenti, tanto che Luca dice: “anche a me”, cioè anche a lui è parso bene di ‘scriverne’; questo suo scritto (il suo “vangelo”) lo scrive dopo essersi “accuratamente informato”. Luca, quindi, attinse il suo materiale da scritti precedenti.

   Mutua dipendenza dei sinottici tra di loro. Anche questa scuola di pensiero non può essere accettata. Questa supposta reciproca dipendenza diventa infatti assai problematica se si pensa alle differenze che pur esistono tra i tre. E, in ogni caso, chi dipenderebbe da chi?

   Precedenza del vangelo ebraico di Matteo. Questa scuola di pensiero sostiene che Matteo abbia scritto dapprima il suo “vangelo” in ebraico che sarebbe poi stato utilizzato dagli altri due sinottici. Per i cattolici questa ipotesi è diventata quasi un dogma di fede. Tra i non cattolici non ha invece trovato molti seguaci, eccezion fatta per i Testimoni di Geova cha l’hanno adottata ufficialmente. Si legge infatti in un loro testo: “Il primo a mettere per iscritto la buona notizia intorno al Cristo fu Matteo” (Tutta la Scrittura è ispirata da Dio e utile”, Watchtower Bible and Tract Society of New York, Brooklyn N. Y., 1991, Libro biblico numero 40: Matteo, § 4). Poi, al § 7 continua: “All’inizio del III secolo Origene, commentando i Vangeli, scrisse, secondo una citazione che ne fa Eusebio di Cesarea: ‘Per primo fu scritto quello Secondo Matteo, il quale . . . lo pubblicò per i fedeli provenienti dal Giudaismo, dopo averlo composto nella lingua degli Ebrei’”. Qui viene avvalorata la tradizione dei cosiddetti “padri della Chiesa” (sono stati così chiamati, in senso onorifico, i più eminenti teologi della chiesa antica) che ritenevano che Matteo fosse il più antico “vangelo”.

   Questa tradizione è però molto discutibile. Si noti infatti la catena: Eusebio cita Origène. Eusebio muore nel 340 E. V. (egli era nato nel 265) e cita Origène morto nel 253, quando Eusebio non era ancora nato. Abbiamo quindi uno scrittore del 4° secolo che ne cita uno del 2° che non ha conosciuto personalmente. Quando Origène aveva circa 30 anni (nel 215, essendo nato nel 185) era già passato molto più di un secolo da che i libri delle Scritture Greche erano stati completati. Era affidabile Origène? Già la testimonianza di Eusebio (4° secolo) non è diretta, ma neppure quella di Origène (3° secolo) non è diretta. A maggior ragione non possiamo poggiare sulla testimonianza di Girolamo (nato nel 347 e morto nel 420) come fa invece l’opera citata: “Nella sua opera De viris inlustribus (Sugli uomini illustri), capitolo III, Girolamo afferma: ‘Matteo, detto anche Levi, da pubblicano fattosi Apostolo, fu il primo in Giudea che scrisse il Vangelo di Cristo, nella lingua degli Ebrei, per quelli che s’erano convertiti dal giudaismo’. Girolamo aggiunge che il testo ebraico di questo Vangelo era conservato ai suoi giorni (IV e V secolo E.V.) nella biblioteca che Panfilo aveva creato a Cesarea” (Ibidem,§ 6). L’idea di un’originaria versione ebraica di Matteo poggia sul fatto che Matteo avrebbe citato direttamente dalla Bibbia ebraica e non dalla traduzione greca dei LXX. Ma forse qualche dubbio al riguardo è sorto agli stessi Testimoni di Geova che nella prima edizione del 1991 della loro opera citata viene omesso il seguente passaggio accolto invece venti anni prima: “L’attento esame delle citazioni di Matteo dalle Scritture Ebraiche rivela che egli citò direttamente dall’ebraico. Gerolamo conferma questo nel suddetto Catalogo, dicendo: ‘Si deve osservare che, ovunque l’Evangelista fa uso dell’antica Scrittura, non segue l’autorità dei settanta traduttori, ma dell’ebraico”. – Ibidem, edizione del 1971, pag. 175, §7.

   Questa teoria di Matteo quale primo scritto evangelico, del resto, era già stata adombrata da Agostino (nato nel 354 e morto nel 430) che scrisse che Marco sembra aver seguito lo schema Matteo “come suo abbreviatore, per così dire” (Agostino, De consensu evangelistarum, 1,4). Tuttavia, se si studia bene una sinossi greca si vede che in realtà non fu Marco ad abbreviare Matteo, ma Matteo ad abbreviare Marco. Infatti, anche se Marco (16 capitoli) omette circa metà del materiale di Matteo (28 capitoli) e di Luca (24 capitoli), nella parte che ha in comune è sempre più completo di Matteo.

   I due documenti. Altra ipotesi: alla base dei tre sinottici ci sarebbe Mr per le narrazioni e una non ben determinata Fonte Q (dal tedesco Quelle, “fonte”) per i discorsi di Yeshùa, i cosiddetti lòghia (“discorsi”, appunto, in greco).

   Questa idea di Marco quale “vangelo” scritto prima degli altri due sinottici e cui gli altri due si sarebbero riferiti poggia sull’evidente semplicità e arcaicità di Marco. Per fare un’illustrazione: l’acqua di un fiume è, in quanto ai suoi elementi, più “semplice” alla sorgente o alla foce? È ovvio che alla foce, avendo l’acqua raccolto molti altri elementi lungo il suo cammino, sia più “complessa”. Così si spiega bene il fatto che la base di Matteo e Luca è Marco, e che essi si discostano da Marco solo di tanto in tanto per tornarvi nuovamente ad attingere il loro materiale. Ad esempio, ogni volta che Marco accenna al fatto che Yeshùa tenne discorsi, Matteo ve li introduce; quando Marco dice che Yeshùa salì sul monte (Mr 3:12), Matteo vi aggiunge il sermone della montagna (Mt 5-7). Altro esempio: in Mr 1:1-3 abbiamo: “Secondo quanto è scritto nel profeta Isaia: ‘Ecco, io mando davanti a te il mio messaggero a prepararti la via… Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri’”, ma in Mt 3:3 abbiamo: “Di lui parlò infatti il profeta Isaia quando disse:’Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri’”, in cui manca la prima citazione fatta da Marco; questo si spiega con il fatto che Matteo, scrivendo dopo Marco, nota che quella prima citazione è tratta da Malachia (3:1) e non da Isaia (40:3) come il secondo passo citato, per cui – dato che Marco aveva scritto: “Secondo quanto scritto nel profeta Isaia” – Matteo elimina la prima citazione non conforme a Isaia e lascia la seconda. Così anche per Mr 12:1: “Poi [Yeshùa] cominciò a parlare loro in parabole” in cui quel “parabole” al plurale sta ad indicare che Yeshùa iniziò a usare un metodo di insegnamento nuovo: quello parabolico, e Marco vi inserisce una sola parabola (vv. 1-9); Matteo, invece, cogliendo l’occasione (e quindi basandosi su Marco) ve ne aggiunge altre oltre a quella di Marco. – Mt 21:28-22:14.

   Va poi notato che buona parte del materiale comune ai tre sinottici è conservata con le parole di Marco (infatti, in caso di divergenza critica, gli studiosi tendono ad ammettere la priorità del racconto marciano su quelli mattaico e lucano).

Soluzione del problema sinottico

   Alla base dei tre sinottici sta la tradizione orale: Yeshùa non ha mai scritto nulla e gli apostoli all’inizio erano impegnati a predicare, per cui la prima forma della “buona notizia” (vangelo) è stata necessariamente quella orale. Già i primi scrittori ecclesiastici posero in risalto il fatto che Marco aveva messo per iscritto la predicazione di Pietro. – Cfr. Ireneo, Papia.

   Che la tradizione orale avesse grande valore nell’antichità appare dal fatto che il Corano fu tramandato per lungo tempo a memoria prima di essere messo per iscritto, così com’era avvenuto per Omero (Iliade, Odissea). La tradizione orale aveva grande importanza presso i rabbini stessi: i bravi discepoli – dicevano i rabbini – sono quelli che non lasciano sfuggire neppure una goccia dell’insegnamento ricevuto.

   La tradizione orale aveva un duplice scopo: 1. convertire le persone, 2. istruire i nuovi convertiti. A questo scopo servivano due documenti: per la conversione si ebbe lo scritto evangelico di Marco, per l’insegnamento la fonte scritta dei lòghia o discorsi di Yeshùa (Q).

   Marco, non essendo testimone oculare, dovette attingere alla predicazione di altri testimoni. È più che probabile, come sostengono gli antichi scrittori, che Marco si sia riferito all’insegnamento di Pietro. Questo trova d’accordo anche i Testimoni di Geova: “Secondo la tradizione più antica, quella di Papia, Origene e Tertulliano, la fonte fu Pietro, col quale Marco fu in stretto contatto. Pietro non lo chiamò forse ‘mio figlio’? (1 Piet. 5:13) Pietro era stato testimone oculare praticamente di tutto ciò che Marco narrò, per cui questi può aver appreso da Pietro molti dettagli descrittivi che mancano negli altri Vangeli” (Ibidem, Libro biblico numero 41: Marco, § 4). Il contenuto di Mr, destinato alla conversione, presenta Yeshùa come un potente taumaturgo (operatore di miracoli) e specialmente come colui che morì e risorse per la salvezza dell’umanità. I discorsi polemici e le parabole sono ridotti al minimo. Marco insiste molto di più su quello che Yeshùa fece (materiale adatto a convincere e convertire) che su quello che insegnò. Non fa meraviglia che Marco sia stato preso come base da Matteo e Luca, se si pensa che esso riproduceva la vivida predicazione di un Pietro testimone oculare della più grande risonanza presso i primi discepoli.

   Ma, una volta convertire le persone, bisognava pur istruirle. Ecco allora il ricorso all’insegnamento di Yeshùa. Questo fu attinto da materiale non marciano e che riproduceva la dottrina di Yeshùa, già esistente verso il 50 E. V.. Va infatti notato che quasi tutto il materiale di Matteo e Luca che è indipendente da Marco presenta una raccolta di “detti” (lòghia) di Yeshùa (fonte Q): si tratta di quel materiale che, vedendo l’accordo MatteoLuca, ne impedisce la derivazione da Marco in cui non è presente.

   Questa fonte (detta Q) sembra sia stata di origine ebraica. Sarebbe quella fonte che Papia erroneamente aveva attribuito a Matteo: “Matteo compilò i lòghia in ebraico e ciascuno li tradusse come potè” (Papia in Eusebio, Hist. Eccl., 3,39), dando così origine a quella catena del “lui-dice-che-l’altro-ha-detto-che-quell’altro-aveva-detto” che ha portato alla tradizione non attendibile che fa dire ai Testimoni di Geova che “il primo a mettere per iscritto la buona notizia intorno al Cristo fu Matteo”. – Tutta la Scrittura è ispirata da Dio e utile”, Watchtower Bible and Tract Society of New York, Brooklyn N. Y., 1991, Libro biblico numero 40: Matteo, § 4.

   Questi lòghia o detti di Yeshùa presentano una formazione caratteristica: spesso hanno una espressione poetica con ritmi, parallelismi, parole-chiave e inclusioni che ne favorivano la conservazione; come presso i rabbini, vi si trovano dei blocchi di parabole. Questo materiale didattico e dottrinale utilizzato da Matteo e Luca per i loro due scritti, Matteo (più giudaico) lo raggruppò in cinque grandi discorsi (come il pentateuco o cinque libri di Mosè), mentre Luca li disseminò in varie parti del suo scritto. Che ci sia stata una fonte comune ebraica è dimostrato anche dal fatto che le divergenze espressive tra i due si esplicano con traduzioni in greco diverse della stessa parola ebraica originale. Tanto Matteo quanto Luca, poi, aggiunsero alcuni elementi propri: Matteo probabilmente utilizzò i suoi stessi ricordi, Luca riferì altri testimoni.

   Tuttavia, gli evangelisti nell’utilizzare le loro fonti, non hanno copiato alla lettera, ma si sono riservati il diritto di introdurvi modifiche secondo il loro scopo e il loro stile. Anziché, quindi, tentare un’armonia forzata tra i tre, è meglio vedere le ragioni per cui essi hanno mutato dei particolari. È in questo modo che si potrà comprendere meglio lo scopo di ogni singolo “vangelo”.

   Ma che dire della datazione che porrebbe Matteo quale primo scritto? L’opera già citata dei Testimoni di Geova afferma: “L’anno esatto non si conosce, ma le annotazioni alla fine di alcuni manoscritti (tutti successivi al X secolo E.V.)” (Ibidem, § 6). Ma come si fa a dare la dignità di prova ad annotazioni tutte successive al 10° secolo ovvero scritte dopo circa 1000 anni dagli avvenimenti? Presa per buona questa discutibilissima “prova”, i Testimoni di Geova datano così i tre sinottici (Ibidem, Studio numero 3: Come collocare gli avvenimenti nel tempo):

 

Nome del libro

Quando fu completato (E. V.)

Matteo

circa 41

Luca

circa 56-58

Marco

circa 60-65

   Un attento esame ci porta a dover correggere la ricostruzione della precedente tabella.

   Iniziamo con l’esaminare un particolare della profezia di Yeshùa sulla distruzione di Gerusalemme così come narrato dai tre sinottici:

 

Matteo 24:15

Marco 13:14

Luca 21:20

“Quando scorgerete la cosa disgustante che causa desolazione, dichiarata per mezzo del profeta Daniele, stabilita in un luogo santo”.

“Quando scorgerete la cosa disgustante che causa desolazione stabilita dove non deve”.

“Quando vedrete Gerusalemme circondata da eserciti accampati, allora sappiate che la sua desolazione si è avvicinata”.

(TNM)

   Qui vediamo l’evoluzione degli scritti. Il più semplice è quello primitivo, originale; Mr è scarno: 1. il cosa: “la cosa disgustante che causa desolazione”; 2. il dove: “dove non deve”. Mt aggiunge particolari: 1. richiama una profezia di Daniele; 2. il “dove non deve” viene specificato come “luogo santo”. Lc fa molto di più: 1. il cosa sono gli eserciti; 2. il dove è chiaramente identificato in Gerusalemme. Dalla semplice dichiarazione originaria di Mr gli altri due passano all’inserimento di particolari aggiuntivi. Ma l’aspetto che qui colpisce è la chiara menzione di ciò che in effetti avvenne: l’accerchiamento di Gerusalemme da parte degli eserciti romani (che si sarebbe poi protratto nel lungo assedio alla città, nella sua capitolazione e nella sua conseguente totale distruzione). Perché mai Luca è così preciso? La risposta può essere una sola: Luca conosceva già quegli avvenimenti perché essi si erano già verificati. Luca scrive quindi dopo la distruzione di Gerusalemme nel 70 E. V..

   Ecco dunque la successione cronologica:

 

Marco 13:14

Matteo 24:15

Luca 21:20

“Quando scorgerete la cosa disgustante che causa desolazione stabilita dove non deve”.

“Quando scorgerete la cosa disgustante che causa desolazione, dichiarata per mezzo del profeta Daniele, stabilita in un luogo santo”.

“Quando vedrete Gerusalemme circondata da eserciti accampati, allora sappiate che la sua desolazione si è avvicinata”.

 

   Luca è anche lo scrittore di Atti. E in At 1:1 Luca scrive: “Ho composto il primo racconto, o Teofilo, intorno a tutte le cose che Gesù cominciò a fare e a insegnare”. Questo significa che scrivendo Atti Luca aveva già composto il suo “vangelo”. Ciò porterebbe anche la stesura di Atti ad un periodo posteriore al 70 E. V..

   Diversi studiosi pongono però la composizione di Atti in un periodo precedente. Le loro motivazioni possono essere riassunte da quanto accettato e dichiarato dai Testimoni di Geova: “Pare che Luca abbia completato Atti verso il 61 E.V., probabilmente verso la fine di una permanenza di due anni a Roma in compagnia dell’apostolo Paolo. Dato che narra gli avvenimenti fino a quell’anno, il libro non può essere stato completato prima, e il fatto che lascia in sospeso l’appello di Paolo a Cesare indica che fu completato entro quell’anno” (Ibidem, Libro biblico numero 44: Atti, § 3). Vero è che At si ferma – come riferimento alla narrazione – a circa il 61, “verso la fine di una permanenza di due anni a Roma in compagnia dell’apostolo Paolo”. Ma ciò che non viene detto è che lo scritto di At si ferma lì bruscamente. La chiusura è infatti questa: “E [Paolo] rimase due anni interi nella propria casa, che aveva affittato, e riceveva benignamente tutti quelli che venivano da lui, predicando loro il regno di Dio e insegnando le cose inerenti al Signore Gesù Cristo con la più grande libertà di parola, senza impedimento” (At 28:30,31, TNM). Come mai Luca si ferma lì? Dire semplicemente che egli chiuda così il suo libro e, quindi, dedurre dal fatto che non menzioni l’esito dell’appello di Paolo, che il libro fu completato intorno al 61 lascia aperti degli interrogativi sulla chiusura brusca. Forse la motivazione sta proprio nel contrario: non parla dell’esito dell’appello di Paolo perché, appunto, la chiusura è brusca. La domanda che rimane è perciò: perché Luca chiude così bruscamente il suo libro? Non abbiamo la risposta, ma rimane il fatto: la chiusura fu brusca. Avendo studiato a fondo At, T. W. Manson scrive: “Io credo che l’occasione più ovvia per una tale difesa pubblica del Cristianesimo derivi dal feroce attacco contro la Chiesa ad opera di Nerone nel 64 e dalla guerra giudaica del 66-70. La pubblicazione di Luca-Atti potrebbe collocarsi […] negli anni immediatamente seguenti”. – Studies in the Gospels and Epistles, pag. 56.

   In quanto a Matteo, la sua stesura può essere fatta risalire a dopo quella di Lc e di At. Sono addotti diversi motivi. La formula “battezzandoli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo” (28:19) di Mt pare tardiva, dato che in At non appare (qui si ha solo il battesimo nel nome di Yeshùa). La relazione mattaica del discorso escatologico (ovvero riguardante gli ultimi tempi) di Yeshùa è influenzato dall’evento stesso della caduta di Gerusalemme nel 70. Certo non è specifico come Lc che parla di eserciti che circondano Gerusalemme, ma ci sono a questo riguardo due osservazioni interessanti. Matteo specifica il luogo (definito “dove non deve” da Mr) definendolo “luogo santo”. Al riguardo è brutta la traduzione che ne fa la TNM: “In un luogo santo”, mettendo quell’“un” quasi si trattasse di cosa qualsiasi. Il greco ha, è vero, ἐν τόπῳ ἁγίῳ  (en tòpo aghìo, “in luogo santo”) senza articolo, ma non è il caso di aggiungere “un”: meglio tradurre “in luogo santo”: ciò rende il luogo specifico ma non al punto da identificarlo con il luogo santo che era dentro il Tempio (così “terra santa” – γῆ ἁγία  (ghe aghìa in Es 3:5, LXX) – non è una qualsiasi terra santa, è “terra santa” per la presenza di Dio sul Sinày, ma non è la terra santa ovvero la terra d’Israele). Quindi, Mt si riferisce a Gerusalemme come “luogo santo”. Il secondo aspetto è ancora più importante. Si tratta di Mt 22:7: “Il re si adirò, mandò le sue truppe a sterminare quegli omicidi e a bruciare la loro città”; nel contesto di una parabola di Yeshùa che parla del rifiuto dei giudei di accettare l’invito di Dio circa suo figlio-messia, Matteo introduce nella punizione le truppe che sterminano con il risultato di bruciare la città: è ciò che di fatto avvenne nel 66-70. In Mr manca e in Lc (che già è specifico altrove in quanto agli eserciti e a Gerusalemme) i termini della parabola sono diversi.

   Lo studioso Harnack, che indica il 75 come data di composizione di Mt, commenta così: “La catastrofe di Gerusalemme vibra in questo vangelo [Matteo] come in nessun altro”. – Cronologia I, 654.

   Marco, la fonte comune di Mt e Lc, quando fu composto? Non ci sono obiezioni particolari per non accogliere, almeno su questo, la datazione accettata dai Testimoni di Geova: “Dato che evidentemente Marco scrisse in primo luogo per i romani, è molto probabile che abbia scritto il suo Vangelo a Roma. Sia la tradizione più antica che il contenuto del libro consentono di concludere che esso fu compilato a Roma durante la prima o la seconda prigionia dell’apostolo Paolo, e quindi negli anni 60-65 E.V.”. – Ibidem, Libro biblico numero 41: Marco, § 9.

   La formazione dei tre sinottici può essere quindi tratteggiata così:

 

Avvenimenti storici (vita di Yeshùa)

tradizione orale (lòghia, detti; fonte Q)

                        ↓                      ↓

Marco (anno 65 circa)   ↓

                         ↓                     ↓

Matteo (anno 80 circa), Luca (anno 80 circa)

 

   Che Matteo e Luca abbiamo usato Marco come filo conduttore per i loro scritti è dimostrabile anche con le tracce che essi hanno lasciato. Per quanto riguarda Matteo, troviamo in 27:27 il vocabolo πραιτώριον (praitòrion) che, sebbene scritto in greco, è una parola latina (praetorius) che significa “pretorio”; è lo stesso vocabolo che si rinviene in Mr 15:16, e Marco usa spesso parole latine, avendo scritto da una regione latina; di questa, però, rimane traccia in Mt. Lo stesso ragionamento vale per Mt 5:15 e Lc 11:33; qui sia Matteo che Luca usano la parola μόδιον (mòdion): anche questa, sebbene scritta in caratteri greci, non è greca ma latina (modius) e significa “moggio”; Marco la usa in 4:21. Chi usa spesso parole latine è Marco. In Mt e Lc abbiamo solo queste: segno evidente che Matteo e Luca le hanno conservate da Mr.