Nella Bibbia si riscontrano alcuni generi letterari con cui s’introducono i miracoli. I principali sono: la saga, la parabola, l’apocalittica e i portenti.

  1. Saga. Il nome in senso stretto si riferisce a una narrazione epica ed è propria delle leggende nelle antiche letterature nordiche. Tuttavia, per estensione indica un ampio racconto della storia di un popolo o anche di una famiglia. Il termine viene dal tedesco Sage, connesso a sagen (“dire”). Le saghe esistono presso tutti i popoli. Certamente sussisterono anche nella tradizione ebraica. Non ci sarebbe nulla di strano se questo metodo narrativo fosse stato usato anche dagli scrittori biblici per trasmettere il messaggio ispirato di Dio. Solo coloro che credono che la Bibbia sia composta da parole dettate una per una dallo spirito di Dio, tutte da prendersi alla lettera, possono irrigidirsi nel non ammettere che il messaggio è ispirato ma la scrittura è umana nella lingua e nelle forme. Nella Bibbia si riscontrano errori di grammatica; ma Dio non ne commette di certo. Dio ispira il messaggio e l’uomo lo scrive come sa farlo. Elementi di saga locale (saga eziologica, che concerne le cause o origini) si rinvengono negli episodi che riguardano Sansone: ben tremila uomini vanno a catturarlo (Gdc 15:11), “Trovata una mascella d’asino ancora fresca, stese la mano, l’afferrò e uccise con essa mille uomini”, “Quando ebbe finito di parlare, gettò via la mascella e chiamò quel luogo Ramat-Lechi”, “Allora Dio fendé la roccia concava che è a Lechi e ne uscì dell’acqua” (Gdc 15:15,17,19). La saga è evidente: uccide non 10 o 100, ma 1000 uomini! Inoltre, dopo che ha buttato via la mascella d’asino, questa diviene un colle. Il luogo era pianeggiante, tanto che i filistei “si spargevano a Lehi” (15:9, TNM). Ma Sansone non era lì: “Tremila uomini di Giuda scesero alla caverna della roccia di Etam” (15:11). Poi lo presero e lo portarono a Lechi (15:14). Lì abbatte mille uomini e poi getta la mascella d’asino e il luogo si chiamò “Ramat-Lechi” che significa “l’altura della mascella”. Quando poi Sansone ebbe sete, “Dio fendé dunque una cavità a forma di mortaio che era a Lehi, e ne usciva acqua” (v. 19,TNM). “Che era a Lehi”, dice la traduzione, ma il testo ha בַּלֶּחִי (balèkhi), “nella mascella”, quindi è: “Dio fendé quindi una cavità a forma di mortaio nella mascella e ne usciva acqua”. L’acqua viene fatta uscire dalla cavità di un dente della mascella. LXXB ha: “E Dio aprì la cavità che era nella mascella e ne uscì acqua”; Sy ha: “E Yhvh Dio aprì la mascella della guancia dell’asino e ne uscì acqua”; Vg ha: “Così il Signore [lat. Dominus] aprì un dente molare nella mascella dell’asino e ne uscirono acque”. “Quella fonte fu chiamata En-Accore” (15:19), che significa appunto “sorgente del supplicante”. Nella saga che la Bibbia utilizza, Sansone è simbolo del popolo di Dio che perde la propria potenza quando si allontana da Dio. Attenzione, però: pur riconoscendo accentuazioni iperboliche o influssi etimologici ed eziologici nel racconto, Sansone è essenzialmente un personaggio storico, effettivamente vissuto. Gli abbellimenti sono dovuti all’iperbole orientale. Ai miti viene riconosciuto solitamente un fondo storico. E qui non siano affatto di fronte ad un mito, ma ad una saga. Maggior ragione per riconoscere il fondo storico a questa saga ebraica.
  2. Parabola. Il racconto di Giona disubbidiente inghiottito dal famoso pesce rientra in questo genere. Attenzione anche qui, però. Non si tratta per niente di non riconoscere un miracolo come se si avesse timore di affermarlo. Non è così. Al contrario, forse chi teme a torto di sminuire la Bibbia si ostina a vedere il miracolo in una parabola. Così, sono state avanzate fantasiose ipotesi, vedendo nel grosso pesce prima un capodoglio e poi uno squalo bianco, per ripiegare infine in uno squalo balena; peccato però che nel Mediterraneo non vivano squali balena. Il problema non è il miracolo (al creatore dell’universo nulla è impossibile). Il fatto è che il racconto documenta l’intento parabolico dell’episodio. Esso è una critica mordente al gretto nazionalismo ebraico del tempo di Esdra e di Neemia, del tutto ostile ai pagani. Giona non vuole predicare il messaggio di Dio ai pagani niniviti e s’imbarca per scappare su una nave diretta a Tarsis ovvero in Spagna, che era ritenuta al confine del mondo. Noi diremmo: il più lontano possibile (Gna 1:1-3). Dio scatena un vento tale che “vi fu sul mare una tempesta così forte che la nave era sul punto di sfasciarsi” (1:4). “I marinai ebbero paura e invocarono ciascuno il proprio dio” (1:5). Il comandante della nave si avvicina a Giona che dorme e gli dice: ‘Che fai qui? Dormi? Àlzati, invoca il tuo dio!’” (1:6). “Poi si dissero l’un l’altro: ‘Venite, tiriamo a sorte e sapremo per causa di chi ci capita questa disgrazia’. Tirarono a sorte e la sorte cadde su Giona” (1:7). Si noti: dei pagani tirano a sorte. Scoperto che Giona è la causa di tutto gli chiedono spiegazioni e lui dice che sta scappando da Dio; il timoroso Giona che scappava diventa d’un tratto coraggioso chiedendo d’essere buttato a mare (1:8-12). I pagani si mettono a pregare Dio, buttano a mare Giona e poi offrono addirittura un sacrificio (1:13-16). “Il Signore fece venire un gran pesce per inghiottire Giona: Giona rimase nel ventre del pesce tre giorni e tre notti” (2:1). Dal ventre del pesce Giona prega (2:2). “Il Signore diede ordine al pesce, e il pesce vomitò Giona sulla terraferma” (2:11). Dio gli comanda di nuovo di predicare ai niniviti e Giona ubbidisce (3:1-4). I niniviti si convertono d’incanto e Giona ne è rattristato (3:5-4:1). Giona si costruisce una capanna alla periferia di Ninive e soffre il caldo (4:5). Dio fa crescere un ricino molto alto per far ombra a Giona (4:6). “L’indomani, allo spuntar dell’alba, Dio mandò un verme a rosicchiare il ricino e questo seccò” (4:7). Il sole picchia così forte che Giona vuol morire (4:8). Poi la morale finale: “Tu hai pietà del ricino per il quale non ti sei affaticato, che tu non hai fatto crescere, che è nato in una notte e in una notte è perito; e io non avrei pietà di Ninive, la gran città, nella quale si trovano più di centoventimila persone che non sanno distinguere la loro destra dalla loro sinistra, e tanta quantità di bestiame?” (4:10,11). La lezione è impartita.  – Per un esame più approfondito si veda lo studio Giona nella categoria Scritture Ebraiche della sezione Esegesi biblica.
  3. Apocalittica. Questo genere letterario riguarda il libro di Daniele e il libro di Rivelazione (Apocalisse). In essi si trovano tanti miracoli. Questi miracoli, storici, divengono anche espressioni allegoriche per inculcare che Dio non abbandona coloro che gli sono fedeli e che il male da costoro subìto finisce per ricadere sui persecutori. Bisogna quindi essere fedeli a Dio in tutte le circostanze, favorevoli o contrarie. In questo modo Daniele sosteneva la fede vacillante dei suoi e Rivelazione quella dei discepoli di Yeshùa perseguitati sia dagli ebrei sia dai romani.
  4. Portenti. Sono fenomeni straordinari che accompagnano o prefigurano fatti storici importanti. Possono essere ricondotti a questo genere i racconti biblici riguardanti l’eclisse alla morte di Yeshùa e la rottura della cortina interna del Tempio in seguito ad un terremoto: “Dall’ora sesta si fecero tenebre su tutto il paese, fino all’ora nona”, “La cortina del tempio si squarciò in due, da cima a fondo, la terra tremò, le rocce si schiantarono” (Mt 27:45,51). Non c’è motivo di mettere in dubbio questi portenti: perfino a Roma se ne discuteva verso il 50 E. V. (testimonianze di Tallo). Cosa ben diversa sono i fenomeni curiosi riferiti dal libro apocrifo di 2Maccabei. Riguardo ai generi letterari appena considerati si può dire che essi abbiano favorito la presentazione dei fenomeni miracolosi entro gli schemi della tradizione ebraica, ma non che li abbiano creati di sana pianta.

   Storie culturali. Questo è un genere estraneo alla Bibbia. Con esso le antiche letterature avevano dei racconti creati dal culto religioso. In questa categoria rientrano le morti e resurrezioni di Osiride, Attis, Adone e Persefone. In verità questi racconti culturali non fanno altro che ricordare la morte della vegetazione durante l’inverno e la sua resurrezione primaverile. La morte e resurrezione di Yeshùa non può essere assolutamente spiegata in questo modo. La differenza è notevole: mentre i racconti mitologici non hanno una base storica, la resurrezione di Yeshùa poggia su una persona storica, Yeshùa, innestata in un preciso periodo della storia romana (imperatore Tiberio). La resurrezione di Yeshùa non è un mito da relegarsi nella tomba della preistoria, ma una realtà testimoniata da persone allora viventi che per la loro fede diedero la vita. Il racconto fatto da Paolo non può essere relegato nel campo delle leggende culturali:

“Cristo morì per i nostri peccati, secondo le Scritture; che fu seppellito; che è stato risuscitato il terzo giorno, secondo le Scritture; che apparve a Cefa, poi ai dodici. Poi apparve a più di cinquecento fratelli in una volta, dei quali la maggior parte rimane ancora in vita e alcuni sono morti. Poi apparve a Giacomo, poi a tutti gli apostoli; e, ultimo di tutti, apparve anche a me”. – 1Cor 15:4-8.

    Al di là dei testimoni oculari identificati (gli apostoli e lo stesso Paolo), si noti un’affermazione del tutto provante: “Apparve a più di cinquecento fratelli in una volta, dei quali la maggior parte rimane ancora in vita e alcuni sono morti”. Paolo dice di questi testimoni oculari (più di cinquecento) che “la maggior parte rimane ancora in vita”. Le lettere di Paolo circolavano: egli non avrebbe fatto una dichiarazione così sicura con il rischio di essere smentito, se non fosse stata vera.

   Non fu il culto a creare la morte e la resurrezione di Yeshùa. Fu la sua morte e resurrezione a creare il culto.