Il problema dei rapporti tra Sacra Scrittura e Scienza, considerato ormai risolto (per i cattolici e per molti protestanti) è tuttora un problema assai vivo per i fondamentalisti. Va quindi sottoposto ad un breve esame. Dopo una rapidissima storia del problema, saranno prese in considerazione alcune obiezioni alla Bibbia – falsamente opposte in nome della scienza – per giungere poi alla conclusione che non vi può essere opposizione tra Bibbia e scienza in quanto esse sono su due piani diversi che non si possono né armonizzare, né contraddire.

Breve storia del problema

 

   Sino a Galileo. Nei primi secoli della Chiesa predominò il sistema aristotelico-tolemaico, che si raffigurava l’universo come un insieme di sfere (i sette pianeti con il sole, la luna e le stelle) rotanti secondo orbite fisse intorno alla terra immobile. Il sistema tolemaico, suggerito da Aristotele, era stato perfezionato dall’astronomo egizio Tolomeo (90-168 E. V.) che tra il 142 e il 146 scrisse il suo libro Mégiste suntaxis; fu noto con il nome di Almagesto, datogli dagli arabi. Esso ci presenta la descrizione dell’universo quale era ammesso non solo da Dante, ma anche da Shakespeare.

   Al di sopra di questi elementi mobili dominava – secondo quello che si pensava allora – il cielo empireo, immobile al pari della terra e ritenuto sede di Dio. Gli scrittori ecclesiastici ed i teologi del periodo scolastico interpretarono la Bibbia secondo tale sistema, ritenuto un dato scientifico indiscusso ed indiscutibile. Da qui le opposizioni create dai teologi e dai filosofi al tentativo di altri studiosi desiderosi di sostituire al tolemaico il sistema copernicano, secondo il quale sarebbe stata la terra a roteare attorno al sole, anziché il sole attorno alla terra.

   In questo periodo solo Agostino ebbe delle idee veramente geniali, che però non furono sfruttate né da lui (si veda il suo De Genesi ad litteram) né dai suoi successori, almeno per lungo tempo. Egli scrisse: “Va detto che . . . lo Spirito Santo non intendeva insegnare agli uomini la costituzione intima delle cose . . . la quale del resto non aveva alcuna utilità per la salvezza [Noluisse ista docere homines nulli saluti profectura]” (Agostino, De Genesi ad Litteram 2,9 20 PL 34,270); “Non si legge nel Vangelo che il Signore abbia detto: Mando il Paracleto per insegnarvi il corso del sole o della luna. Il Signore voleva fare dei cristiani non degli scienziati [Christianos facere volebat non mathematicos]” (Agostino, De actis cum Felice Manich. 1,10 PL 42,525); “È cosa brutta e dannosa e da evitarsi con ogni cura che un infedele, sentendo un cristiano parlare di queste cose con la pretesa di sostenerle con le Sacre Lettere, possa credere che egli vaneggi, a tal punto da non riuscire a trattenere il riso. Peggio ancora sarebbe se non si ridesse di uno che vaneggia, ma che coloro i quali sono al di fuori credessero che i nostri autori abbiano avuto simili idee e vengano così tacciati di ignoranti e respinti proprio da coloro che noi ci preoccupiamo di salvare”. – Agostino, De Genesi ad Litteram 1,39.

   La Scrittura non fa altro che esprimersi nel modo con cui i nostri sensi vedono le cose. Forse che anche noi non diciamo che il sole sorge e tramonta? Astronomi e meteorologi usano lo stesso linguaggio. “Perché la Scrittura dovrebbe parlare in modo diverso dal nostro?”. – Agostino, Contra Faustum 13,7 PL 42,5.6.

   Nei secoli 11° e 12°, in nome della fede e della teologia, si oppose la religione alla filosofia e alle scienze profane. Michele di Corbeil, tra il 1100 ed il 1110 dichiarava inutile l’applicarsi alla filosofia: “Inutilis inquisitio studium philosophiae”. Questo atteggiamento oscurantista riaffiora anche oggi, nel 21° secolo, presso molte correnti religiose. Ad esempio, in una pubblicazione dei Testimoni di Geova si legge: “Molti giovani cristiani hanno deciso di non andare all’università. Molti riscontrano che l’addestramento offerto nelle congregazioni dei testimoni di Geova – in particolare la settimanale Scuola di Ministero Teocratico – li pone in netto vantaggio quando si tratta di trovar lavoro. Pur non possedendo una laurea, questi giovani imparano ad essere equilibrati, esperti nell’arte di esprimersi, e abbastanza capaci di assolvere responsabilità” (I giovani chiedono… Risposte pratiche alle loro domande, pagg. 178-179, sottotitolo “Alternative all’istruzione universitaria”. Qui si una usa sottile astuzia: “Molti giovani cristiani hanno deciso di non andare all’università” (Ibidem), ma in verità non è una libera decisione ma un condizionamento (cfr. il sottotitolo); l’alternativa, poi, all’università sarebbe una adunanza settimanale di meno di un’ora in cui tutti (scolarizzati o no) si cimentano in prove di “oratoria”. Vantare questa cosetta al di sopra dell’Università è solo ridicolo.

   Per Bonaventura, scienze profane e filosofiche valevano solo in quanto stavano al servizio della teologia. Persino Ruggero Bacone – cultore di scienze profane – diceva che la filosofia per se stessa non ha alcuna utilità.

   Nelle Costituzioni domenicane, risalenti al 1228, fu proibito ai frati di leggere i libri dei gentili e dei filosofi, pur essendo talora lecito sfogliarli: “Non imparino le scienze profane e neppure le arti liberali, se non ne ottengono licenza dal Maestro generale”. Dal capitolo generale di Montpellier risulta che tali norme erano ancora in vigore nel 1277.

   Tommaso d’Aquino (secolo 13°) volle separare la fede dalla scienza e dalla filosofia. Secondo lui le opinioni filosofiche non vanno né asserite né negate per ragioni di fede (Tommaso d’Aquino, Opusc. 10, qu 18), perché fede e filosofia valutano le realtà cosmiche sotto due aspetti diversi: “Il filosofo studia quel che conviene ad esse secondo la loro natura, come nel fuoco il salire in alto, il teologo invece ne studia il loro rapporto con Dio, come l’essere creato da Dio,  l’essere a lui sottoposto e simili altri aspetti. Non si può dunque attribuire all’imperfezione dell’insegnamento di fede la trascuratezza di molte proprietà degli esseri, come la conformazione del cielo e la quantità del moto”. – Tommaso d’Aquino, Contra gentes 2,4.

   Puramente casuale, nella Bibbia, è l’esistenza di passi che interessano la scienza. Qualcuno leggendo in Genesi che Dio separò le acque dalle acque potrebbe vedervi l’opinione di Talete (filosofo greco di Mileto, capo della scuola ionica, morto nel 548 a. E. V.) secondo cui all’origine degli esseri sta l’acqua, ma questa sarebbe una valutazione superficiale,  perché Mosè “esprime solo ciò che appare ai sensi” e che è l’unico modo con cui si può parlare ai semplici”. – Tommaso d’Aquino, Summa Theologica 1,9.68 a 3; cf. anche qu. 70, a. 1 ad 3; in Iob 26, q. 65-74; Contra gentes 2,15-38.

   La valutazione tolemaica del cielo empireo immobile, delle stelle e del sole che si muovono, della terra immobile, centro dell’universo, dominò per tutto il Medio Evo. Tutto si cercava di spiegare in tal modo: anche l’accelerazione di gravità si attribuiva al piacere sempre più vivo che provavano le cose nell’accostarsi al centro dell’universo dove si trovava il loro riposo. Fu soltanto con Galileo che questa concezione cominciò a cambiare.

   Il processo a Galileo. Nel 15° secolo il cardinale Cusano (morto nel 1464) avanzò per la prima volta l’opinione che anche la terra si muovesse, non essendovi nell’universo alcun epicentro, sicché tutti i pianeti roteano attorno a una propria sfera. Le teorie del cardinale Cusano (cosi detto perché oriundo di Cuse, Treviri) – il cui vero nome era Nicola Griffi – furono sostenute in varie opere, tra cui il De docta ignorantia, Idiota.

   Dopo di lui il canonico Copernico (1473-1543) precisò questa idea in un’opera postuma, dove propose come ipotesi una soluzione assai più semplice del sistema cosmico: la terra rotea su se stessa in un giorno e si sposta attorno al sole durante un anno; anche i pianeti circolano attorno allo stesso astro in un tempo più o meno lungo (Copernico, De revolutionibus orbium cielistium, Norimberga 1543, con il nome dell’autore e la dedica a Paolo III). Vi si diceva anche che la terra è solo centro di gravitazione e di rotazione della luna. Come per un’esercitazione matematica, dimostrò che tale ipotesi era ben più semplice della complicata teoria tolemaica. I papi all’inizio non vi trovarono nulla di reprensibile, in quanto le nuove idee erano presentate come semplici “ipotesi” e non come fatti assolutamente veri. Ancora oggi molte idee hanno libera cittadinanza nel cattolicesimo per la semplice ragione che si danno per pura ipotesi, anziché essere presentate come una realtà indiscussa.

   Toccava a Galileo, circa un secolo dopo, rimettere il problema sul tappeto. Era questi un illustre matematico, nato a Pisa nel 1564, che dal 1592 insegnò dalla cattedra universitaria di Padova. Convertitosi verso il 1604 alla teoria copernicana, ne trovò la conferma esaminando il cielo con il cannocchiale da lui inventato nel 1609. Le fasi del pianeta Venere erano chiaramente spiegabili con il suo spostamento attorno al sole; anche Giove e i suoi satelliti erano guidati da un identico movimento. Per analogia lo stesso doveva accadere per la terra e il suo satellite lunare (accanto ad argomenti così solidi e decisivi, Galileo ne aggiunse altri poco efficaci, come le maree che egli attribuiva a perturbazioni dovute al movimento della terra, mentre provengono dall’attrazione lunare). Nel 1611, quando si recò a Roma, Galileo provocò una commozione generale: prelati e principi facevano a gara per esaminare personalmente il telescopio da lui creato ed osservare le strane macchie solari che vi si percepivano. L’invidia suscitata dai suoi onori, l’acredine dei filosofi e degli scienziati che vedevano combattute con grande superiorità le loro idee, provocarono aspre polemiche e contese. Galileo ebbe il difetto di presentare le sue tesi non come semplici ipotesi, bensì come una realtà scientificamente acquisita. La fama molto popolare di Galileo rendeva i risultati del suo studio assai più accolti che non la semplice ipotesi di un Copernico, noto solo nel campo scientifico. L’opposizione più fondamentale prima ancora che dai teologi, derivava dalla scienza del tempo che pensava potersi fondare sull’immediata evidenza dei sensi, argomento che aveva un enorme influsso su quanti non erano in grado di afferrare le ragioni di Copernico e di Galileo.

   Anche il cardinale Bellarmino nella conclusione alla sua lettera a P. Foscarini scriveva: “Quanto al sole e alla terra, nessun savio è che abbia bisogno di correggere l’errore, perché chiaramente sperimenta che la terra sta ferma e che l’occhio non si inganna quando giudica che la luna e le stelle si muovono. E questo basti per hora” (Ibidem pag. 116). Si deve pure aggiungere che la connessione tra questa dottrina con la filosofia aristotelica, divenuta serva della teologia, rendeva assai pericolosa l’opposizione alle idee scientifiche soggiacenti, in quanto si temeva in tal modo che per colpa sua l’intera dottrina cattolica (poggiante su Aristotele) dovesse cadere come contraccolpo. Si trattava quindi di una collusione tra il metodo aristotelico, assai empirico, e il metodo scientifico sperimentale.

   Galileo fu quindi accusato di essere in contrasto con la Bibbia sostenitrice, secondo gli avversari, della teoria tolemaica. Al che Galileo rispondeva con una valutazione biblica precorritrice dei tempi e che ora è ammessa come dottrina comune e che presentò in due lettere inviate una a O. Benedetto Castelli (1613), che lo aveva accusato di contraddire la Bibbia, e l’altra alla granduchessa Cristina di Lorena (1615). Nella prima diceva che la Scrittura in materia scientifica si esprime secondo le apparenze; nella seconda osservava: “Dal Verbo divino procede di pari non solo la Scrittura, ma anche la natura”. Tuttavia la Scrittura – sosteneva Galileo – non ha scopo scientifico, bensì spirituale: non vuole insegnarci il corso delle stelle, ma ciò che riguarda “il culto di Dio e la salute delle anime”. A tale proposito citava un detto di Baronio, e cioè “che è intenzione dello Spirito Santo d’insegnarci [nella Scrittura] come si vadia [= vada] al cielo, non come vadia il cielo”.

   Galileo osserva pure che “gli agiografi si accomodano alla capacità del volgo, che è assai rozzo e indisciplinato”. Raccomanda perciò di prendere le espressioni scientifiche in senso figurato, altrimenti ne verrebbero fuori “non solo contraddizioni e proposizioni remote dal vero, ma gravi eresie e bestemmie ancora”. Nella Scrittura” – continua Galileo – “si trovano molte proposizioni le quali, quanto al nudo senso delle parole, hanno aspetto diverso dal vero, ma sono poste in cotal guisa per accomodarsi all’incapacità del volgo” . – A. Favaro, Le opere di Galileo Galilei, Firenze 1895, pagg. 307,348; la lettera si legge in Galileo, Opera, ed. Nazionale, vol V, Firenze, pag. 307; quella al Castelli è a pag. 279.

   Galileo afferma che nei rapporti degli uomini con uomini e di Dio con gli uomini esistono “due linguaggi fra loro radicalmente diversi: quello ordinario, con tutte le imprecisioni e incongruenze, e quello scientifico rigoroso ed esattissimo. L’infinita sapienza di Dio, pur conoscendo perfettamente entrambi, sapeva molto bene – quando dettò le Sacre Scritture – che, per farsi comprendere dall’uditorio cui si rivolgeva, avrebbe dovuto usare il linguaggio ordinario che è l’unico inteso dall’uomo comune. Perciò essa suggerì di scrivere che il sole gira intorno alla terra. Nella scienza, invece, noi abbiamo il dovere di fare uso del secondo tipo di linguaggio – quello rigoroso ed esattissimo – che è caratteristico del discorso scientifico. Quindi non possiamo più accogliere come valida l’anzidetta affermazione, malgrado che sia contenuta nella Bibbia”. – L. Geymonat, nel suo magistrale libro su Galileo, Torino, pagg. 125 e sgg.; su Galileo cfr. Enrico Genovesi , Processi contro Galileo, Ceschina, Milano.

   La condanna del 1616. Il Santo Uffizio, proprio per l’opposizione al metodo sperimentale che sembrava minare tutto il sapere filosofico e teologico medioevale poggiato su Aristotele, nel decreto del 24 febbraio 1616, asserì che non si poteva affatto sostenere l’eliocentrismo (il sole al centro) o mettere in dubbio che la terra, priva di ogni movimento sia di rotazione che di rivoluzione, sia il centro dell’universo. Ciò era, infatti, asserito (secondo loro) dalla Bibbia, che tra l’altro fa parlare Giosuè dicendo: “Fèrmati, o sole!”, il che significherebbe che è appunto il sole a roteare attorno alla terra e non la terra attorno al sole. Papa Paolo V fece perciò promettere allo scienziato di abbandonare le sue opinioni e di non difenderle in alcun modo con scritti o con discorsi.

   Il processo del 1633. Galileo tornò a Firenze, dove si era frattanto stabilito. Seguirono sedici anni di relativa tranquillità e di feconde ricerche scientifiche, interrotte solo dalla polemica con il gesuita Grassi che, per aver acremente confutata la teoria copernicana (Orazio Grassi pubblicò il suo Libra Astronomica a Perugia nel 1623 sotto lo pseudonimo Sarsi Sigensano),  si vide attaccato da Galileo nel suo volume Il Saggiatore, dedicato a Urbano VIII e stampato con tanto di approvazione ecclesiastica (Il Saggiatore, volume in 54 capitoli, apparso con tanto di imprimatur, fu dedicato a papa Urbano VIII, appena elevato al soglio pontificio e con il quale anni prima il Galileo era stato in ottimi rapporti di cordialità. Tuttavia un suo viaggio a Roma gli mostrò che anche il nuovo papa, pur promettendogli benefìci ecclesiali, non era favorevole alle idee copernicane).

   Incoraggiato dal silenzio della Chiesa, Galileo si dedicò per anni ad una nuova opera (Il Dialogo), in cui nei congressi di quattro giornate si discorre sopra i massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano, proponendo indeterminatamente le ragioni filosofiche e naturali, tanto per l’una quanto per l’altra parte. Tale opera apparve a Firenze nell’anno 1632 con l’imprimatur del papa, dietro giudizio del domenicano Riccardi (l’opera di Galileo, Il Dialogo, doveva apparire a Roma, ma date le titubanze del Maestro del Sacro Palazzo Niccolò Riccardi, fu pubblicato a Firenze con dedica al granduca e con l’imprimatur del vicereggente di Roma, del Maestro dei SS. Palazzi, dell’Inquisitore di Firenze, del Vicario generale di Firenze e del governo granducale). L’opera provocò a Roma una reazione violenta e Galileo fu subito accusato di quattro colpe fondamentali:

   a) Diffusione di idee eretiche, perché contrarie alla Bibbia.

   b) Violazione del decreto del 1616 che gli imponeva di non toccare più tale argomento.

   c) L’approvazione ecclesiastica era stata carpita fraudolentemente. Il Riccardi era infatti ignaro della proibizione

       personale rivolta a Galileo e per di più aveva suggerito alcune correzioni per meglio sottolineare che le

       affermazioni in favore dell’eliocentrismo erano solo un’ipotesi non ancora scientificamente dimostrata. Tale

       suggerimento non era stato accolto nella pubblicazione che si era attuata senza tenere conto degli emendamenti

       proposti.

   d) Galileo metteva in bocca a Simplicio, il più goffo degli interlocutori, proprio le parole con cui l’allora regnante

        papa Barberini difendeva il sistema tolemaico.

   La congregazione del Santo Uffizio nel 1633 fece venire nuovamente a Roma Galileo. Padre Maculano, commissario del Santo Uffizio lo consigliò di dichiararsi colpevole di trasgressione del decreto del 1616 e di aver dato troppo peso alle tesi copernicane, della qual cosa ora intimamente si rammaricava. Lo scienziato seguì invece una tattica sbagliata, dicendo di non aver mai ritenuta certo in cuor suo il sistema di Copernico e d’aver anzi scritto Il Dialogo proprio per difendere la tradizionale teoria di Tolomeo. I giudici non si lasciarono convincere, lo minacciarono di ricorrere alla tortura per indagare meglio la verità del suo pensiero (pare tuttavia che essa non sia mai stata eseguita sullo scienziato ormai troppo vecchio e ammalato) e poi ne esigettero l’abiura e, data l’età e l’infermità, lo condannarono al carcere perpetuo (anziché alla morte sul rogo).

   L’abiura ebbe luogo il 22 giugno 1633 nella grande aula del convegno domenicano alla Minerva, e il carcere venne dallo stesso papa Urbano VIII commutato in confino, prima nella villa dei Medici al Pincio e poi nella sede arcivescovile di Siena, e da ultimo nella Villa del Gioiello, proprietà dello stesso Galileo, presso S. Matteo di Arcetri, dove lo scienziato si spense nel 1642.