Essere consapevoli di tutto ciò che abbiamo esposto negli studi precedenti sul nome di Dio ci è tre volte di aiuto. È di aiuto per una lettura più illuminata di tante frasi o parabole dei quattro Vangeli, per sapervi avvertire il nome divino anche là dove non è esplicito e visibile a prima vista. In secondo luogo ci è utile per conoscere meglio gli ebrei, da sempre profondamente interessati al nome divino, e per meglio conoscere poi i Testimoni di Geova che ad esso si sono interessati dal 1879, quando ancora non si chiamavano così. In terzo luogo, soprattutto, ci è di aiuto per pensare Dio e per rapportarci con lui. Anzitutto per pensare Dio come mistero grande.

   Yeshùa, come tutti i giudei del suo tempo, sostituiva spesso la parola “Dio” con “Cielo”, “Potenza”, “Re”, “Gran Re”, “Padre”, “Signore” e con un verbo passivo che, senza nominarlo, di Dio diceva la presenza attiva ed efficace.

   Per rapportarci con Dio, non pretenderemo di legittimare con il suo nome ciò che non è conforme alla verità della sua parola. Il peccato più grave commesso nel secolo 20° contro il Comandamento di “non nominare il nome di Dio invano” è stato quello di un pazzo diabolico di nome Adolf Hitler, che faceva scrivere sulle insegne dei suoi eserciti e sulle cinture delle sue SS il motto: “Gott mit uns” (“Dio con noi”). Un brivido ci percorre, pensando che “Dio con noi” è il significato di Emanuele, uno dei titoli di Yeshùa (Mt 1:23). L’uso del suo nome come legittimazione del razzismo, del militarismo e dello sterminio di milioni di innocenti è la più orribile delle bestemmie. Il dio di Hitler era evidentemente un altro dio (2Cor 4:4), e quel dio, quello sì, era sicuramente con lui.

Dovremmo pronunciare il nome di Dio?

   Contrariamente all’atteggiamento di Yeshùa, che fu talmente riguardoso verso il nome “Dio” (che non era neppure il tetragramma) da usare i giri di parole giudaici per menzionarlo, presso i Testimoni di Geova c’è – al contrario – l’idea che addirittura il tetragramma vada usato in continuazione. La pubblicazione Ci sarà mai un mondo senza guerre? vede la necessità “di stabilire una relazione con Dio, il nostro Padre e Creatore celeste, una relazione così personale da poterlo chiamare per nome”. – Pag. 19, §3.

   Yeshùa fu colui che come uomo ebbe la più intima e personale relazione con Dio. Ma stava attento nel rivolgersi a lui. Qui si sta parlando di rispetto per Dio. E sicuramente Dio è colui che merita il massimo rispetto. Yeshùa lo chiamava “Padre”. Quale figlio oggi, anche ateo o non credente, oserebbe rivolgersi al proprio padre chiamandolo per nome? Si dirà che oggi ci sono bambini e bambine che chiamano il padre per nome. La cosa è non solo molto simpatica, ma fa anche tenerezza. E possiamo commuoverci sentendo una bambina che nel suo candore – con una fede che neppure ci sogniamo – prega forse così: “Dio, tu che sei mio amico, non fare morire il mio gattino”.  Ma qui stiamo parlando di persone un po’ più cresciute. Solo fino a qualche generazione fa i figli davano del voi ai genitori (i francesi lo danno ancora oggi rivolgendosi a Dio nelle preghiere). Oggi diamo del tu a nostro padre, però non è accettato che lo si chiami per nome. Dio è da meno? “Dio non è un uomo” (Nm 23:19). Dobbiamo stare alla sua presenza con “timore e tremore”. – Flp 2:12.

   Come rivolgerci s Dio? Il termine “padre” ricorre nella Bibbia ebraica quasi esclusivamente (per circa 1180 volte) in senso profano. Solo raramente (15 volte) ricorre in senso spirituale. Allo stesso modo della Bibbia, anche la letteratura dell’antico giudaismo palestinese dimostra un chiaro riserbo nell’uso del termine “Padre” riferito a Dio.

   Yeshùa ci ha invece insegnato a rivolgerci a Dio con l’intimo nome di “Padre” (Mt 6:9). Così lo chiamò anche Paolo (1Ts 3:11). Il credente che è in intimità con Dio usa addirittura il nome “Padre” nel senso di “Abbà” (Mr 14:36). La forma אבא (abà) è diversa da אב (av), “Padre”. Abà (אבא), traslitterato nel testo greco di Mr con Ἀββά (abbà), era il nome usato dai bambini ebrei per rivolgersi al loro padre. Assomiglia molto al nostro “papà” o “babbo”. “Ora poiché voi siete figli, Dio ha mandato nei nostri cuori lo spirito del Figlio suo, che grida: ‘Abba, Padre!’” (Gal 4:6). – Rm 8:16.    TNM riporta forzatamente il nome “Geova” in 237 passi delle Scritture Greche senza alcuna ragionevole base. Eppure, perfino in presenza di quest’arbitrario inserimento di qualcosa che non compare in alcun antico manoscritto delle Scritture Greche, il riferimento a Dio come “Padre” è sicuramente prevalente: Dio è chiamato “Padre” 254 volte nelle Scritture Greche. E ciò senza dover ricorrere ad arbitrari inserimenti del termine ad opera dei traduttori. Il nome “Padre” è lì, scritto sotto ispirazione. Dio dovrebbe essere per noi la persona con cui essere più in intimità. “Non c’è creazione che non sia manifesta alla sua vista, ma tutte le cose sono nude e apertamente esposte” alla vista di Dio, ma egli rimane pur sempre “colui al quale dobbiamo rendere conto”. – Eb 4:13.

   “’Quando Geova divenne per me un intimo amico’, dice Jeff” (La Torre di Guardia del 1° agosto 2004, pag. 30). Forse Jeff, nel suo sincero e toccante trasporto, dovrebbe essere più riguardoso e più modesto, ed evitare di rivolgersi all’Onnipotente come “amico”. “Egli ti ha dichiarato, o uomo terreno, ciò che è buono . . . di essere modesto nel camminare col tuo Dio”. – Mic 6:8.

   Nella Scrittura si parla di un uomo solo che ebbe questo incredibile onore: “Abraamo mio amico” (Is 41:8). La relazione tutta particolare che Abraamo ebbe con Dio, tanto da meritarsi – lui solo – d’essere chiamato amico da Dio, la si coglierebbe meglio nella stupenda traduzione che si può fare del passo: “Abraamo, l’amico mio”. Fu un caso unico. Ma attenzione: fu Dio a chiamare amico Abraamo, non viceversa. Abraamo mai si permise di rivolgersi a Dio chiamandolo amico. Comunque, Yeshùa ci considera amici: “Vi ho chiamati amici, perché tutte le cose che ho udito dal Padre mio ve le ho fatte conoscere”. – Gv 15:15.

   Occorre rispetto per Dio. Questo rispetto si mostra anche nel modo in cui ci rivolgiamo a lui. Se poi, all’indebita confidenza che ci si prende nel chiamarlo per nome, si aggiunge anche il fatto che tale nome è con la massima certezza errato, il tutto rischia di suonare – anche se involontariamente – beffardo. E “Dio non è da beffeggiare”. – Gal 6:7.

Quale nome usare nel rivolgersi a Dio

   Nelle relazioni familiari, non ci rivolgiamo a un padre chiamandolo per nome. Abitualmente ci si rivolge a lui in modo più intimo, chiamandolo “papà” o “babbo”. Gli altri familiari che non sono figli, gli amici e gli estranei devono limitarsi all’uso di appellativi più formali, riferendosi a lui con un nome proprio. Questa situazione, in un certo senso, illustra bene il rapporto di relazione tra i credenti e il rapporto di relazione dei credenti con Yeshùa e con Dio.

   Tra di loro i credenti – proprio come fanno i fratelli e le sorelle tra loro – si chiamano per nome. I credenti che ubbidiscono a quello che Yeshùa ha comandato sono definiti da lui suoi amici: “Voi siete miei amici se fate quello che vi comando” (Gv 15:14): lo chiamano quindi per nome. La congregazione di Yeshùa è definita nella Scrittura la sua sposa (Riv 21:2,9;22:17), e – come fa una moglie – lo chiama per nome.

   Abraamo, per la sua fede incondizionata in Dio, fu perfino da lui chiamato – unico caso nella Bibbia – suo amico (Gc 2:23; cfr. Is 41:8). Come amico chiamava Dio per nome. Anche gli ebrei, come popolo appartenente a Dio, lo chiamavano per nome. E il loro rispetto fu tale che arrivarono perfino a evitare il suo nome. Proprio come noi non ci sentiremmo di chiamare per nome un re, ma ci rivolgemmo a lui come “sua maestà”, gli ebrei sentivano di doversi rivolgere a Dio come “Signore”. Così il tetragramma fu oscurato. Non contenti di ciò, evitarono poi perfino di nominare direttamente Dio, riferendosi a lui con espressioni che lo evocassero: “Cielo”, “Re”, “Potenza” e così via.

   Yeshùa, figlio prediletto di Dio, usò con gli altri lo stesso modo di riferirsi a Dio, ma nella sua relazione personale con lui lo chiamava non certo per nome, ma lo chiamava “Padre”. E molto di più: non solo av (“Padre”), ma lo chiamava abà (“Papà”).

   Yeshùa, con la sua ubbidienza a Dio fino alla morte, ci ha reso figli di Dio: “Voi non avete ricevuto uno spirito di schiavitù che causi di nuovo timore, ma avete ricevuto uno spirito di adozione come figli, mediante il quale spirito gridiamo: Abba” (Rm 8:15). Non lo chiamiamo per nome, come estranei o come schiavi, ma lo chiamiamo come figli: “Padre”. Questo fatto chiarisce sicuramente perché avvenne nella primitiva congregazione dei discepoli di Yeshùa l’innegabile cambiamento dall’enfasi sul tetragramma al risalto dell’espressione “Padre”.

   Yeshùa manifestò il proprio attaccamento alla parola “Padre” non solo quando pregò. Come si comprende dalla lettura dei Vangeli, in tutti i discorsi rivolti ai discepoli, Yeshùa si riferisce costantemente e principalmente a Dio come “Padre”.

   Possiamo oggi correttamente asserire di conoscere il “nome” di Dio nel senso più profondo e autentico (quello biblico) solo grazie alla disponibilità e al profondo beneficio dell’intima relazione con il Padre, resa possibile dal Figlio.