Il libro di Giobbe nella Bibbia ebraica sta al terzo posto tra i ketuvìm (altri “scritti”), dopo Salmi e Proverbi. Nella LXX greca Giobbe inizia il gruppo dei libri didattici, prima di Salmi.

   Il libro di Giobbe discute il problema del male, argomento di cui si trovano trattazioni in tutte le letterature del mondo. Prima di esaminare Giobbe, gettiamo quindi uno sguardo sugli scritti del Medio Oriente su questo irrisolto problema.

Il problema del male

   Comune a tutte le letterature antiche è il tema riguardante le sofferenze del giusto e la felicità dei peccatori.

   In Egitto, nel Medio Impero, dei pensatori egiziani deplorarono in termini molto veementi la miseria dei poveri contadini (Anet, Ancient Near East Texts; L. Suys, Etude sul le conte du fellah plaideur). A seconda delle idee personali, i pensatori egizi celebrarono la morte come un ingresso nella felicità (cfr. la parte poetica del Dialogo del Disperato) o come una caduta nel nulla (cfr. parte prosaica del Dialogo del Disperato) o come un fatto che conduceva al culto dei morti . – Cfr. Antef.

   Ecco un brano della prima corrente:

 

“La morte sta oggi a me dinanzi

come il profumo della mirra,

quale uno che in una giornata di vento

stia sotto una vela.

La morte sta oggi dinanzi a me

quale ognuno la sua casa di rivedere anela,

dopo che lunghi anni in cattività trascorse”.

Dialogo del Disperato, colonne 130 e sgg..

   In Accadia il problema suscitò la sagacità del grande poeta Shuhshi-Meshira-Nergan (“Procura-Ricchezza-Nergal”) che fu probabilmente un re. Strappato alla sua potenza, torturato dalla malattia, il malcapitato confessa la propria innocenza e con le preghiere riesce ad ottenere da Merduk la guarigione (cfr. J. Nougayrol, Une version ancienne du “Juste souffrant”; Babylone et la Bible, supplemento 1, Paris 1928, colonne 824-831). Ecco un brano di questo poema (Il Giusto Sofferente) che ha notevole affinità con il libro di Giobbe:

 

“Oh, se sapessi che tali cose sono gradite a Dio,

– ma forse ciò che è buono

per un individuo è male per Dio

e ciò che è male nella mente di uno

è bene per Dio.

Chi può comprendere il consiglio

degli dèi in mezzo al cielo?

Il piano divino è come acqua profonda,

chi può capirlo?

Colui che alla sera era vivente

è morto al mattino:

d’improvviso è nell’angoscia

e subito è schiacciato!

Per un attimo canta e fa della musica,

l’attimo dopo si lamenta come un urlatore!

Il tempo d’aprire e chiudere

ed ecco si muta di sentimento.

Hanno fame e son simili ad un cadavere,

sono sazi e si fanno uguali al loro dio!

Nel benessere parlano di salire al cielo,

quando soffrono sognano di scendere agli inferi!

   Qualcosa di simile appare anche in Dialogo tra Dio e l’uomo e in Dialogo tra il signore e il suo servo . – Cfr. S. N. Kramer, Man and his God, Sumerian Variation on the “Job” Motif; E. A. Speiser, The Case of the Obliging Servant.

   Anche il Dialogo della miseria è da mettere in confronto con il libro di Giobbe (Anet 438-440). Eccone in breve il contenuto: L’ultimo nato di una famiglia si lamenta d’aver perso i suoi genitori (prima strofa); l’interlocutore risponde: “La morte è la sorte comune cui neppure il ricco e il devoto possono sfuggire” (seconda strofa); “Magra consolazione!” – continua il primo – “Passata la felicità non rimane che la miseria” (terza strofa); il secondo risponde che occorre pregare gli dèi perché siano appagati (quarta strofa); il primo dice che ha già offerto molti sacrifici e doni preziosi (quinta strofa); il secondo osserva che la morte non risparmia alcuno e che essa non è altro che un castigo per i peccati, per cui occorre evitare il male e compiere la volontà degli dèi (sesta strofa); il primo ribatte che ha praticato la giustizia eppure è afflitto in un modo intollerabile (settima strofa); l’altro osserva che di certo le sue azioni non furono sempre conformi alla giustizia e aggiunge: “Come puoi dire di aver seguito la volontà degli dèi che è del tutto imperscrutabile?” (ottava strofa). Dopo alcune strofe mal conservate nell’antico manoscritto, il dialogo riprende. Il secondo interlocutore descrive l’instabilità del benessere di cui gode il colpevole e vanta i benefici effetti della virtù (dodicesima strofa); il primo dice che l’esperienza mostra il contrario: gli dèi non s’interessano dei mortali e lasciano campo libero al male (ventiduesima strofa). Nella ventitreesima strofa il secondo dice al primo che parla come un empio perché l’uomo non può comprendere i disegni degli dèi che fissano la sorte di ognuno. Si noti ora con attenzione questa strofa:

 

“O molto saggio, o possessore d’intelligenza,

che il tuo cuore tremi, poiché tu disprezzi gli dèi!

Il cuore di un dio è lontano come l’interno dei cieli!

La sapienza è ardua e la gente non la capisce,

l’opera della mano di Arun nell’insieme non è che un soffio!

Il rampollo del principe in ogni cosa è al primo posto;

il primogenito della sua progenie è abbassato,

e il figlio che segue trova i resti.

Al folle nasce un figlio superiore al saggio,

al valoroso uno il cui nome è il contrario.

Decide dio, e io perché dovrei piangere?

Egli è dio e la gente non capisce”. – Strofa XXIV.

   A questo punto il primo risponde tracciando un quadro pessimista delle ingiustizie terrene:

 

“Fa’ attenzione, amico mio, comprendi la mia idea,

custodisci come cosa preziosa la mia parola.

Si esalta la parola del notabile che è esperto nell’omicidio,

si deprime il debole che non ha mai peccato.

Si giustifica il colpevole il cui delitto è grave,

si scaccia il giusto che ricerca il volere di dio.

Si lascia prendere al forte il cibo del povero,

si rovina il debole e il ricco lo scaccia”. – Strofa XXV.

   Infine, l’afflitto rivolge all’amico un invito commovente:

 

“Pietà, amico mio. Ecco il mio lamento.

Aiutami! Io ho conosciuto la pena. Sappilo, dunque!

Io, uomo intelligente e semplice,

fino ad ora non ho visto nemmeno per un istante

né aiuti né protezione”. – Strofa XXVII.

   La somiglianza con il libro biblico di Giobbe è impressionante.

   Nella letteratura di Ugaritt non viene trattato il problema, ma vi sono strutture letterarie affini a quelle di Giobbe. – Cfr. C. L. Feinberg, The Poetic Structure of the Book of Job and the Ugaritic Literature, 1946, pagg. 283-292.

   In Grecia, i tragici e i filosofi contemporanei al poeta ebreo che scrisse Giobbe si posero lo stesso problema. In questa letteratura greca troviamo che Prometeo non è certo innocente, ma l’eccesso del castigo lo esaspera e lo indurisce; Edipo re subisce una gran quantità di guai per un’offerta agli dèi di cui non è responsabile; Ercole è un giusto, ma la crudeltà sadica degli dèi lo perseguita. Vi è qui un pessimismo che è frutto della dura fatalità, e i greci ne dibattono. Platone presenta il problema in modo meraviglioso, tuttavia non ne dà la soluzione.

La risposta di Giobbe

   Contesto biblico. Nelle Scritture Ebraiche la retribuzione fu inizialmente intesa in senso collettivo, poi in senso più individuale (pur rimanendo sempre nella sfera terrestre).

   Senso collettivo (iniziale)

   “Punisco l’iniquità dei padri sui figli fino alla terza e alla quarta generazione di quelli che mi odiano, e uso bontà, fino alla millesima generazione, verso quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti”. – Es 20:5,6.

   “Al tempo di Davide ci fu una carestia per tre anni continui”. Dio è interpellato. Il “debito di sangue che pende su Saul e sulla sua casa, perché egli fece perire i Gabaoniti” va pagato. – 2Sam 21:1-5.

   Senso individuale (postumo)

   “Non si metteranno a morte i padri per colpa dei figli, né si metteranno a morte i figli per colpa dei padri; ognuno sarà messo a morte per il proprio peccato”. – Dt 24:16.

   “Non appena il potere reale fu assicurato nelle sue mani, egli fece morire quei suoi servitori che avevano ucciso il re suo padre; ma non fece morire i figli degli uccisori, secondo quanto è scritto nel libro della legge di Mosè, dove il Signore ha dato questo comandamento: ‘Non si metteranno a morte i padri per colpa dei figli, né si metteranno a morte i figli per colpa dei padri; ma ognuno sarà messo a morte per il proprio peccato’”. – 2Re 14:5,6.

   “Perché dite nel paese d’Israele questo proverbio: ‘I padri hanno mangiato uva acerba e i denti dei figli si sono allegati?’”, “Chi pecca morirà”. – Ez 18:2,4.

   “In quei giorni non si dirà più: ‘I padri hanno mangiato uva acerba e i denti dei figli si sono allegati’”. – Ger 31:29.

   La retribuzione per il bene ed il male era sempre vista come attuata sulla terra. Solo a partire dalla prima metà del 2° secolo E. V. iniziò a manifestarsi la credenza di sanzioni spirituali ed eterne. Ma – lo si noti bene -, siamo nel secondo secolo dell’Era Volgare. Tutta la Bibbia era già stata scritta, Yeshùa aveva compiuto il suo ministero ed era stato resuscitato, tutti gli apostoli erano già morti. Vuol dire questo che quelle credenze in un aldilà erano sbagliate? Non esattamente. Abbiamo esaminato, in un precedente studio sui Salmi, che delle intuizioni c’erano già state. Paolo parla chiaramente di un aldilà. Yeshùa stesso lo aveva prefigurato. Ma dal secondo secolo il sano insegnamento biblico fu inquinato da idee prese dal paganesimo, e s’inquinò sempre più fino all’attuale degenerazione cattolica che cataloga l’aldilà in infermo, purgatorio e paradiso.

   Come vedremo, il progresso (quello biblico, intendiamo) fu dovuto a persone (come Daniele) che, sotto la guida dell’ispirazione divina, seppe vedere una realtà più profonda di quella materiale e semplicemente terrestre. Giobbe va collocato in un’epoca in cui la retribuzione individuale terrestre sembrava cozzare con l’esperienza quotidiana.

La tesi del libro

   1- Amici di Giobbe. Gli amici di Giobbe difendono quella che era la tesi tradizionale presso i saggi: peccato e punizione, virtù e benessere materiale, sono tra loro correlativi. È per questo che essi eliminano il problema negando l’innocenza di Giobbe. Se Giobbe è punito, vuol dire che è colpevole!

   Se la loro tesi può essere parzialmente vera, non lo è più nella sua generalità. Nel caso di Giobbe, poi, è una tesi del tutto errata.

   2 – Giobbe. Giobbe si oppone alla tesi corrente: l’anomalia della sua vita pura ed integra congiunta alla punizione è attribuita ad una violenta persecuzione di Dio. “Non terrò chiusa la bocca; nell’angoscia del mio spirito io parlerò, mi lamenterò nell’amarezza dell’anima mia. Sono io forse il mare o un mostro marino che tu ponga intorno a me una guardia?”, “Io dirò a Dio: non condannarmi! Fammi sapere perché sei in contesa con me! Ti sembra cosa ben fatta opprimere, disprezzare l’opera delle tue mani e favorire i disegni dei malvagi? Hai tu occhi di carne? Vedi tu come vede l’uomo?”, “Perché nascondi il tuo volto e mi consideri un nemico?”. – Gb 7:11,12;10:2-4;13:24.

   Ad ogni modo, per Giobbe Dio è sempre giusto, sia che colpisca l’innocente o benedica il colpevole. Perciò l’uomo deve mantenersi tranquillo davanti a lui. La sapienza di Dio è inaccessibile all’uomo: “Se si tratta di forza, ecco, egli è potente; se di diritto, egli dice: ‘Chi mi convocherà?’. Se io fossi senza colpa, la mia bocca mi condannerebbe; se fossi innocente, mi dichiarerebbe colpevole” (9:19,20). Con queste affermazioni esagerate Giobbe sembra voler salvaguardare la santità di Dio. Giobbe, sentendosi separato da Dio, lotta per non perdere la fede in lui.

   3 – Il pensiero di Eliu. Oltre ai tre amici che discutono con Giobbe, un certo Eliu si distingue perché rettifica l’inesattezza dei tre e quella stessa di Giobbe. “La sua ira si accese contro Giobbe, perché questi riteneva che la propria giustizia fosse superiore a quella di Dio; si accese anche contro i tre amici di lui perché non avevano trovato che rispondere, sebbene condannassero Giobbe” (32:3). Per Eliu le sofferenze sono un mezzo pedagogico di formazione, quindi sono strumento di salvezza. Egli dice a Giobbe: “E tu, quando dici che non lo scorgi [Dio], la tua causa gli sta davanti; sappilo aspettare!”. – 35:14.

   4 – Dio. Yhvh interviene non per discutere, non per sciogliere l’enigma. Egli parla da Dio, non da uomo. Per questo approva di più Giobbe che ha compreso meglio il mistero della trascendenza divina.

Sviluppo posteriore al libro di Giobbe: retribuzione spirituale dopo la morte

   La risposta all’enigma del male rimane nascosta in Dio. C’è. Ma è differita.

   L’ultima visione di Daniele svela che vi è un eterno destino riservato ai giusti e ai peccatori:

“In quel tempo sorgerà Michele, il grande capo, il difensore dei figli del tuo popolo; vi sarà un tempo di angoscia, come non ce ne fu mai da quando sorsero le nazioni fino a quel tempo; e in quel tempo, il tuo popolo sarà salvato; cioè, tutti quelli che saranno trovati iscritti nel libro. Molti di quelli che dormono nella polvere della terra si risveglieranno; gli uni per la vita eterna, gli altri per la vergogna e per una eterna infamia. I saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento e quelli che avranno insegnato a molti la giustizia risplenderanno come le stelle in eterno”. – Dn 12:1-3.

   Le Scritture Greche, esplicitando i poemi sul “servo sofferente” (Is 53:1-12), ne donano la soluzione presentando il valore espiatorio e redentore della sofferenza.

“Mentre noi eravamo ancora senza forza, Cristo, a suo tempo, è morto per gli empi . . . [Dio] mostra la grandezza del proprio amore per noi in questo: che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi . . . tanto più ora, che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita . . . la morte regnò, da Adamo fino a Mosè, anche su quelli che non avevano peccato con una trasgressione simile a quella di Adamo, il quale è figura di colui che doveva venire . . . Riguardo al dono non avviene quello che è avvenuto nel caso dell’uno che ha peccato; perché dopo una sola trasgressione il giudizio è diventato condanna, mentre il dono diventa giustificazione dopo molte trasgressioni . . . Dunque, come con una sola trasgressione la condanna si è estesa a tutti gli uomini, così pure, con un solo atto di giustizia, la giustificazione che dà la vita si è estesa a tutti gli uomini . . . per l’ubbidienza di uno solo [Yeshùa], i molti saranno costituiti giusti . . . come il peccato regnò mediante la morte, così pure la grazia regni mediante la giustizia a vita eterna, per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore”. – Rm 5:6-19, passim.

   “Cristo morì per i nostri peccati, secondo le Scritture” (1Cor 15:3). “Siamo giunti a questa conclusione: che uno solo morì per tutti, quindi tutti morirono; e ch’egli morì per tutti, affinché quelli che vivono non vivano più per sé stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per loro” (2Cor 5:14,15). “In lui abbiamo la redenzione, il perdono dei peccati”. – Col 1:14.

Struttura del poema

   La parte poetica di Giobbe è incastonata tra un prologo e un epilogo in prosa che narrano le vicende storiche di Giobbe, la sua prosperità, le sue prove e, infine, la conclusione felice della sua vita. Dentro questo quadro storico si intesse – in un colloquio che assurge talora ad una tensione drammatica – la discussione sul problema del male tra Giobbe e i suoi amici, seguito dai discorsi di un ignoto Eliu e infine dall’intervento di Dio stesso.

Parte prosaica: prologo ed epilogo

   Prologo. Giobbe è un orientale, un ricco possidente di Uz, una località ai confini con l’Arabia e l’Idumea (Gn 10:23;36:28), quindi al di fuori della Palestina. Egli possedeva beni immensi. Era timorato di Dio, retto, odiatore del male. Era padre di sette figli e di tre figlie, proprietario ricchissimo di 7000 pecore, 3000 cammelli, 1000 buoi, 500 asine (Gb 1:1-3). “Quest’uomo era il più grande di tutti gli Orientali” (1:3). Orientale significava arabo (Gdc 6:3,33; Is 11:14). Viveva non molto lontano dai sabei e dai caldei (Gb 1:15-17). Secondo un’antica tradizione siriaca e musulmana, Uz sarebbe a 80 km a sud di Damasco: a Sheik Saad ci sarebbe la tomba di Giobbe.

   Per consenso divino fu sottoposto da satana ad una prova durissima. Nel testo biblico “satana” è הַשָּׂטָן (hasatàn), con l’articolo, e significa “l’avversario”. Qui in Giobbe non è ancora presentato come il “demonio” opposto a Dio, ma solo come un suo ministro: “Un giorno i figli di Dio [בְּנֵי הָאֱלֹהִים (benè haelohìm), “figli del Dio”] vennero a presentarsi davanti al Signore, e Satana venne anch’egli in mezzo a loro. Il Signore disse a Satana [הַשָּׂטָן (hasatàn), “l’avversario”]: ‘Da dove vieni?’. Satana [הַשָּׂטָן (hasatàn), “l’avversario”] rispose al Signore: ‘Dal percorrere la terra e dal passeggiare per essa’” (Gb 1:6,7). “L’avversario” (הַשָּׂטָן, hasatàn) è qui uno strumento pari allo “spirito di menzogna” di cui parla il profeta Micaia: “Io ho visto il Signore seduto sul suo trono, e tutto l’esercito del cielo che gli stava a destra e a sinistra. Il Signore disse: ‘Chi ingannerà Acab affinché vada contro Ramot di Galaad e vi perisca?’. Ci fu chi rispose in un modo e chi in un altro. Allora si fece avanti uno spirito, il quale si presentò davanti al Signore, e disse: ‘Lo ingannerò io’. Il Signore gli disse: ‘E come?’. Quello rispose: ‘Io uscirò e sarò spirito di menzogna in bocca a tutti i suoi profeti’. Il Signore gli disse: ‘Sì, riuscirai a ingannarlo; esci e fa’ così’. E ora ecco, il Signore ha messo uno spirito di menzogna in bocca a tutti questi tuoi profeti; ma il Signore ha pronunziato del male contro di te” (1Re 22:19-23). Anche in Zc 3:1 “satana” non è ancora nemico di Dio, ma solo avversario del sommo sacerdote Giosuè: “Mi fece vedere il sommo sacerdote Giosuè, che stava davanti all’angelo del Signore, e Satana che stava alla sua destra per accusarlo”.

   Giobbe, spogliato di tutti i beni, privato di tutti e dieci i suoi figli, straziato da un morbo ripugnante (forse la sarcoidosi o malattia di Besnier Boeck Shaumann, una malattia multisistemica caratterizzata dalla comparsa di granulomi epitelioidi non caseificanti negli organi in cui è presente il sistema istiocita rio, oppure il lupus elefantiasico), tormentato da dolori atrocissimi, abbandonato da tutti, umiliato fino alla polvere, ingiuriato dalla moglie, pur giungendo alle soglie della disperazione, mai perse la sua fiducia in Dio. Ecco le sue espressioni, degne del massimo rispetto, dopo aver perso tutto:

“Nudo sono venuto al mondo e nudo ne uscirò; il Signore dà, il Signore toglie, il Signore sia benedetto”. – Gb 1:21, PdS.

   Mentre giaceva afflitto su un mucchio di cenere, la moglie gli dice sarcasticamente: “Benedici Dio e muori!” (2:9, CEI), eufemismo che significa – come traduce PdS – “Perché non bestemmi e muori?”. Giobbe risponde:

“Tu parli da insensata. Noi abbiamo accettato da Dio le cose buone. Perché ora non dovremmo accettare le cose cattive?”. – 2:10, PdS.

   “Nonostante tutto, Giobbe non pronunziò nessuna imprecazione”. – Ibidem.

   Epilogo (42:7-17). Vi si racconta come Giobbe abbia alla fine recuperato la salute, come i suoi beni siano stati tutti raddoppiati e come la famiglia sia stata ristabilita con altri sette figli e tre figlie.

 

 

Storicità di Giobbe

   Sorge il problema se Giobbe sia da ritenersi una persona storica o un personaggio fittizio, allegorico. Di per sé, la presentazione che ne fanno sia il prologo che l’epilogo può dare adito a dubbi: si presenta così artificiosa da non poter trovare corrispondenza nella storia così come usualmente accade.

   L’aspetto artificioso risulta dal numero convenzionale dei figli (sette figli e tre figlie, 1:2), dal numero tondo dei sacrifici che egli fa (uno per figlio: “Offriva un olocausto per ciascuno di essi”, 1:5), dal numero dei suoi averi (7000 pecore, 3000 cammelli, 1000 buoi, 500 asine; 1:3), dai sette giorni di silenzio degli amici: “Rimasero seduti per terra, presso di lui, sette giorni e sette notti; nessuno di loro gli disse parola”. – 2:13.

   Artificiosa è pure la successione delle sciagure, una dietro l’altra, con la salvezza di un unico testimone che ha il compito di riferire la disgrazia a Giobbe:

 

Giunse a Giobbe un messaggero a dirgli:

I buoi stavano arando e le asine pascolavano là vicino, quand’ecco i Sabei sono piombati loro addosso e li hanno portati via; hanno passato a fil di spada i servi; io solo sono potuto scampare per venirtelo a dire’.

Quello parlava ancora, quando ne giunse un altro a dire: ‘Il fuoco di Dio è caduto dal cielo, ha colpito le pecore e i servi, e li ha divorati; io solo sono potuto scampare per venirtelo a dire’.

Quello parlava ancora, quando ne giunse un altro a dire: ‘I Caldei hanno formato tre bande, si sono gettati sui cammelli e li hanno portati via; hanno passato a fil di spada i servi; io solo sono potuto scampare per venirtelo a dire’.

Quello parlava ancora, quando ne giunse un altro a dire: ‘I tuoi figli e le tue figlie mangiavano e bevevano vino in casa del loro fratello maggiore; ed ecco che un gran vento, venuto dall’altra parte del deserto, ha investito i quattro canti della casa, che è caduta sui giovani; essi sono morti; io solo sono potuto scampare per venirtelo a dire’”.

(1:13-19)

   Artificiosa è pure la descrizione della scena celeste con il colloquio tra Yhvh e “l’avversario” (hasatàn, “il satàn”):

“Un giorno i figli di Dio vennero a presentarsi davanti al Signore, e Satana venne anch’egli in mezzo a loro. Il Signore disse a Satana: ‘Da dove vieni?’. Satana rispose al Signore: ‘Dal percorrere la terra e dal passeggiare per essa’. Il Signore disse a Satana: ‘Hai notato il mio servo Giobbe? Non ce n’è un altro sulla terra che come lui sia integro, retto, tema Dio e fugga il male’. Satana rispose al Signore: ‘È forse per nulla che Giobbe teme Dio? Non l’hai forse circondato di un riparo, lui, la sua casa, e tutto quel che possiede? Tu hai benedetto l’opera delle sue mani e il suo bestiame ricopre tutto il paese. Ma stendi un po’ la tua mano, tocca quanto egli possiede, e vedrai se non ti rinnega in faccia’. Il Signore disse a Satana: ‘Ebbene, tutto quello che possiede è in tuo potere; soltanto, non stender la mano sulla sua persona’. E Satana si ritirò dalla presenza del Signore”. – 1:6-12.

“Un giorno i figli di Dio vennero a presentarsi davanti al Signore, e Satana venne anch’egli in mezzo a loro a presentarsi davanti al Signore. Il Signore disse a Satana: ‘Da dove vieni?’. Satana rispose al Signore: ‘Dal percorrere la terra e dal passeggiare per essa’. Il Signore disse a Satana: ‘Hai notato il mio servo Giobbe? Non ce n’è un altro sulla terra che come lui sia integro, retto, tema Dio e fugga il male. Egli si mantiene saldo nella sua integrità, benché tu mi abbia incitato contro di lui per rovinarlo senza alcun motivo’. Satana rispose al Signore: ‘Pelle per pelle! L’uomo dà tutto quel che possiede per la sua vita; ma stendi un po’ la tua mano, toccagli le ossa e la carne, e vedrai se non ti rinnega in faccia’. Il Signore disse a Satana: ‘Ebbene, egli è in tuo potere; soltanto rispetta la sua vita’. Satana si ritirò dalla presenza del Signore”. – 2:1-7.

   Artificiosa è la ricompensa in ricchezze al termine della prova, che sono esattamente il doppio delle perdite (42:12). Solo i figli e le figlie rimangono in numero uguale (42:13), ma le ragazze qui nominate sono molto più belle: “In tutto il paese non si trovavano donne così belle come le figlie di Giobbe”. – 42:15, TNM.

   In Gb si trova l’intento pedagogico e didattico che ingrandisce le prove in un crescendo affinché servano da cornice alla discussione successiva. Tuttavia, non si deve concludere con leggerezza – come fanno alcuni – che Giobbe non sia mai esistito e sia solo un personaggio di fantasia creato apposta in vista dell’insegnamento da presentare.

   Rabbi Shimon ben Laqish asserì che il libro di Giobbe era un mashàl: “Giobbe non esistette e non fu creato, si tratta solo di una parabola” (Talmud, Boba Bathra 15/a). Questa affermazione radicale lasciò traccia nel Bereshìt Rabà (n. 57) e in Maimonide (Guida 3,22). Secondo tutti questi studiosi ebrei, la finzione starebbe alla base del libro. E su cosa si basa questa convinzione? Sul fatto che Giobbe è privo di genealogia. Eppure basta così poco a spiegare questo fatto: Giobbe non era un israelita.

   Anche Tommaso d’Aquino ricorda alcuni che interpretarono il racconto di Giobbe come una parabola e conclude affermando che poco importa se Giobbe sia esistito o no per lo scopo del libro. – Expliitatio in librum Job Prol., Thomae  Aquinatis, opera I, Venezia 1745, pag. 2.

   A favore della storicità di Giobbe militano questi dati:

► Il nome di Giobbe (nella forma di A-ia-ab) si ritrova nelle lettere di Tell El-Amarna: “A-ia-ab re di Pi-hi-lim”. – Anet 486, n. 256.

► Il Giobbe biblico lasciò traccia nella tradizione in quanto è citato assieme al Noè biblico e al saggio Danel, eroe ricordato pure nella letteratura fenicia. “Questi tre uomini: Noè, Daniele e Giobbe”, “Se in mezzo ad esso si trovassero Noè, Daniele, Giobbe, com’è vero che io vivo, dice Dio, il Signore . . .” (Ez 14:14,20). Quest’ultima citazione è importante: Dio stesso cita Giobbe insieme a Noè e a “Daniele” (l’ebraico ha  דָּנִאֵל, Daniel, e non  דָּנִיאֵל, Danyèl).

► Giacomo presenta Giobbe come una persona storica quando ne esalta la pazienza: “Prendete, fratelli, come modello di sopportazione e di pazienza i profeti che hanno parlato nel nome del Signore. Ecco, noi definiamo felici quelli che hanno sofferto pazientemente. Avete udito parlare della costanza di Giobbe”. – Gc 5:10,11.

► L’assenza di genealogia ci mostra Giobbe come uno straniero che viveva in Idumea (Uz), il che milita in favore della sua storicità, dato che mal si comprenderebbe la creazione e l’esaltazione di un individuo che non apparteneva ai progenitori del popolo ebraico, ma – al contrario – ad uno dei popoli più ostili agli ebrei.

► L’Idumea era poi un paese noto per la sua saggezza: “Io farò sparire i saggi da Edom e il discernimento dal monte di Esaù” (Abd 8); “Riguardo a Edom. Così parla il Signore degli eserciti: ‘Non c’è più saggezza in Teman? Gli intelligenti non sanno più consigliare? La loro saggezza è dunque svanita?”. – Ger 49:7.

► Come si usa nei libri sapienziali della Bibbia, la persona storica di Giobbe ha fornito lo spunto per la discussione che ne segue. Naturalmente la presentazione dei suoi mali – che non va presa alla lettera – accentua ancora di più le sue sfortune narrandole in modo così tragico per introdurre meglio il problema teologico e filosofico del male.

   Dobbiamo ricordare qui che in fondo anche le leggende non sono pura invenzione, ma lavorano su dati storici preesistenti. Si veda il caso di Troia: questa città fu scoperta dagli archeologi proprio analizzando i dati leggendari dell’Iliade. Così il Faust, come ci viene presentato da Goethe, è certamente un prodotto del suo genio poetico, tuttavia egli non lo ha totalmente inventato: una persona storica con questo nome esistette realmente verso la fine del 15° secolo o all’inizio del 16°; dopo morto, questo medico e astrologo rimase popolare in Germania tanto che il dottor Faust divenne il soggetto preferito nei vari giochi dei burattini che lo trasformarono in un mago onnipossente per aver venduto l’anima al Diavolo.

   Se questo meccanismo del trarre leggende da un personaggio storico realmente esistito è vero in generale, ancor più lo è nel pensiero ebraico. Si noti la seguente citazione dal Libro dello Splendore, la massima opera del misticismo ebraico:

“Elia prese a dire: Signore dei mondi. Tu sei uno e non rispetto a un numero. Tu sei eccelso su tutti gli eccelsi, nascosto su tutti i nascosti e il pensiero non Ti afferra affatto. Tu sei che hai fatto scaturire i dieci ordini che noi chiamiamo sephirot”. – Il Libro dello Splendore, Seconda prefazione, Tiqqunè Zohar.

   Chi è questo Elia di cui si parla? La nota 11 rimanda all’identificazione di questo Elia: “Il profeta Elia”. Non ci sono dubbi che s’intenda proprio il profeta Elia. Eppure, nella Bibbia non si trovano le parole a lui attribuite. Per l’occidentale è difficile da capire, ma per gli ebrei è cosa normale. Il lettore ebreo sa benissimo di cosa si tratta. La letteratura biblica ebraica è piena di conversazioni fatte da personaggi biblici, anche con Dio. Nessuno si scandalizza, ma tutti ne capiscono l’intento.

   In conclusione, Giobbe fu un personaggio storico realmente esistito. Su di lui e sulla sua vicenda si costruì l’insegnamento che noi oggi troviamo in Giobbe.

Epoca in cui Giobbe visse

   Si può determinare il tempo in cui Giobbe visse? Non esiste una tradizione sicura al riguardo. Il Talmud di Gerusalemme, che trattò tale problema, riferisce diverse opinioni che vanno dal tempo di Abraamo a quello dell’esilio.

   È preferibile l’opinione che pone Giobbe al tempo degli antichi patriarchi, il che spiega meglio la sua menzione insieme a Noè, l’eroe del Diluvio, in Ez 14:14,20. Giobbe è presentato come un grande proprietario di bestiame, proprio come lo erano Abraamo, Isacco e Giacobbe. È interessante notare l’affinità di espressioni tra Giobbe e Genesi per indicare la prolificità del bestiame sia nel caso del nostro povero Giobbe che nel caso di Labano:

 

Gb 1:10: “Il suo stesso bestiame si è sparso sulla terra”

Gn 30:29,30: “Il tuo bestiame con me . . . si è esteso a una moltitudine”

(TNM)

   Nella traduzione italiana non si nota, ma in ebraico sì:

 

Gb 1:10: “Il suo stesso bestiame פָּרַץ [paràtz, “esplode”]”

Gn 30:30: “Il tuo bestiame con me יִּפְרֹץ [yferòtz, “esplose”]”

   Si tratta dello stesso verbo (“esplodere”) usato in quel tempo.

   Si noti poi che in Gb è ancora il padre di famiglia che esercita le funzioni sacerdotali compiendo i sacrifici: “Giobbe li faceva venire [i figli] per purificarli; si alzava di buon mattino e offriva un olocausto per ciascuno di essi”, “Prendete sette tori e sette montoni, andate a trovare il mio servo Giobbe e offriteli in olocausto per voi stessi. Il mio servo Giobbe pregherà per voi” (Gb 1:5;42:8). Il suo sacrificio si accorda con quello attuato dal re Balac al tempo del profeta Balaam:

 

Sacrificio di Balac

“Preparami qui sette tori e sette montoni”. – Nm 23:1.

Sacrificio di Giobbe

“Prendete sette tori e sette montoni . . .  e offriteli in olocausto”. – Gb 42:8.

   Anche la generazione è calcolata in circa 35 anni come in Gn, in quanto dopo la riacquistata prosperità Giobbe visse 140 anni ed ebbe la possibilità di vedere la quarta generazione: “Giobbe, dopo questo, visse centoquarant’anni e vide i suoi figli e i figli dei suoi figli, fino alla quarta generazione” (Gb 42:16). Giuseppe (un figlio di Giacobbe), che visse 110 anni, ebbe invece la possibilità di vedere solo la terza generazione. – Gn 50:23.

 

Generazione di circa 35 anni sia al tempo di Giuseppe che di Giobbe

Giuseppe

“Giuseppe . . . visse centodieci anni. Giuseppe vide i figli di Efraim, fino alla terza generazione”. – Gn 50:22,23.

Giobbe

“Giobbe . . .  visse centoquarant’anni e vide i suoi figli e i figli dei suoi figli, fino alla quarta generazione”. – Gb 42:16.

   Tutti questi indizi ci conducono all’età dei patriarchi.

   Siccome i nomi degli amici di Giobbe derivano dai luoghi che portano il nome di un figlio di Abraamo o del nipote di Esaù, si potrebbe pensare all’epoca posteriore al patriarca Abraamo. In Gb 2:11 sono menzionati i nomi di “tre amici di Giobbe”. Qui ce ne interessano due: “Elifaz di Teman, Bildad di Suac”.

 

“Elifaz di Teman

“I figli di Elifaz furono: Teman . . . Elifaz, figlio di Esaù”. – Gn 36:11,12.

Teman, nipote di Esaù

“Bildad di Suac

Abraamo prese un’altra moglie, di nome Chetura. Questa gli partorì Zimran, Iocsan, Medan, Madian, Isbac e Suac”. – Gn 25:1,2.

Suac, figlio di Abraamo

   Se si dovesse poi dare valore ad una nota aggiunta dai LXX a Gb 42:17, Giobbe sarebbe disceso da Abraamo tramite Esaù, alla quinta generazione.

Parte poetica: il dialogo

   Il poeta che compose Giobbe, con grande sagacia rimanda alla fine del libro la successiva riacquistata prosperità di Giobbe dopo la sua prova. In mezzo innesta il dialogo, nel punto più cruciale della crisi di Giobbe, quando ancora se ne ignora la conclusione, e fa venire degli amici per discutere con il sofferente.

   Si tratta di tre persone: “Tre amici di Giobbe, Elifaz di Teman, Bildad di Suac e Zofar di Naama, avendo udito tutti questi mali che gli erano piombati addosso, partirono, ciascuno dal proprio paese, e si misero d’accordo per venire a confortarlo e a consolarlo”. – 2:11.

 

Elifaz di Teman – Teman è nell’Idumea.

Bildad di Suac – Suac è forse un altro luogo idumeo. – Cfr. Gn 25:1,2.

Zofar di Naama – Zofar è una località tuttora ignota.

 

   Questi tre, ignorando che le disgrazie di Giobbe sono una prova e che esse termineranno felicemente, rimangono senza parole davanti al male terribile che attanaglia Giobbe. Non parlano per sette giorni e sette notti: “Rimasero seduti per terra, presso di lui, sette giorni e sette notti; nessuno di loro gli disse parola, perché vedevano che il suo dolore era molto grande” (2:13). Stanno lì senza dire una parola. Infine è Giobbe che apre bocca, dando così origine al dialogo con gli amici: “Allora Giobbe aprì la bocca e maledisse il giorno della sua nascita”. – 3:1.