Il nome di questo libro delle Scritture Ebraiche suona shyr hashirìm (שִׁיר הַשִּׁירִים). Tradotto letteralmente: “Canto dei canti”. Tuttavia, si tratta di una forma semitica per il superlativo, per cui potrebbe tradursi così: “Cantico sublime”, “Canto per eccellenza”. Ora i traduttori preferiscono tradurlo semplicemente “Il Cantico” (anche l’articolo “il” indica l’eccellenza: si veda la differenza tra “un cantico” e “il Cantico”). Il titolo si trova in 1:1, nelle prime due parole. TNM lo traduce: “Il cantico superlativo”, che è conforme a quanto detto prima. Per la costruzione semitica del superlativo si vedano i seguenti esempi biblici:

Gn 9:25: “Servo dei servi” (= L’infimo dei servi).

Ec 1:2: “Vanità delle vanità” (= La massima vanità).

Nm 3:32: nesì nesiè  “capo dei capi” (= “Il primo dei capi”, NR; “Il principale dei capi”, TNM).

Es 26:34: qòdesh haqadashìm “santo dei santi” (= “Luogo santissimo”, NR); “Santissimo”, TNM).

Dt 10:14: “I cieli dei cieli” (= La parte più elevata del cielo).

Ap 19:16: “Re dei re” “Signore dei signori” (= Il Re e il Signore più eccelso).

Rm 16:27: “Nei secoli dei secoli” (= Eternamente; “Per sempre”, TNM).

L’autore

   Fino al 19° secolo si attribuiva grande valore al titolo che, alle parole “Canto dei canti” aggiunge ashèr lishlomòh, “che [è] di Salomone”.

 

שִׁיר הַשִּׁירִים אֲשֶׁר לִשְׁלֹמֹה

shyr hashirìm ashèr lishlomòh

canto dei canti che [è] di salomone

   Si riteneva quindi che il grande re davidico ne fosse l’autore. Tuttavia, nel 19° secolo s’iniziò a discutere e a dubitare della sua genuinità. Ora non vi è più alcun esegeta serio che sostenga l’origine salomonica del Cantico. Solo il direttivo americano che edita la TNM è rimasto ancorato (come sempre fa in questi casi) alla vecchia idea.

   Dobbiamo dire che sono fin troppe le ragioni che militano contro la paternità salomonica. Vediamole.

  1. Innanzitutto il titolo – come in genere quelli dei Salmi – non merita eccessiva fiducia in quanto non fu apposto dall’autore del libro. È opera di copisti: non è quindi ispirato.
  2. Inoltre, il titolo potrebbe benissimo riguardate il contenuto piuttosto che l’autore. Il prefisso li apposto al nome shlomòh (lishlomòh, לִשְׁלֹמֹה) potrebbe anche essere tradotto: “Sublime cantico riguardante Salomone”, il quale non di rado è nominato nel testo del libro. – Cfr. 1:5;3:7,9,11; 6:8, qui indirettamente; 8:11.
  3. La lingua ebraica usata nel Cantico non è quella classica dei tempi migliori, ma quella postesilica con influssi aramaici penetrati nel linguaggio comune. Si vedano, ad esempio, questi aramaicismi: berotìm (בְּרֹותִים), “cipressi”, che per TNM diventano “ginepri” (1:17); kòtel (כָּתְל), “muro” (2:9); setàv (סְּתָיו), “inverno”, che per TNM diventa il pomposo “la stessa stagione delle piogge” – cinque parole per tradurne una sola ebraica – (2:11); atanfèm (אֲטַנְּפֵם), “li sporcherò” (5:3); e così via.
  4. Vi appaiono perfino delle parole persiane, come pardès (פַּרְדֵּס) in 4:13, “giardino”, derivato da pairidaeza (diventato in greco παράδεισος, paràdeisos). In ebraico “giardino” si dice gan (גַּן), pure presente in 4:12. Si vedano anche la parola persiana egòz (אֱגֹוז), “noce”, in 6:11. Come pure nird (נרד), “nardo”, in 1:12 e 4:13, che per TNM è “spigonardo”. La presenza di queste parole persiane presuppongono il periodo esilico. Se poi l’oscuro vocabolo apirìon (אַפִּרְיֹון), che compare all’inizio di 3:9 derivasse dal greco forèion (φορεῖον), saremmo addirittura al periodo macedone; la parola apirìon non appartiene al vocabolario ebraico. NR la traduce con “lettiga”, TNM segue NR.
  5. Non bisogna insistere molto sulla presenza del relativo ahèr (אֲשֶׁר), “che”, presente in 1:1 (“che è di Salomone”), appartenente alla lingua ebraica classica. Infatti, si tratta solo del titolo. Nel testo compare sempre il tardo she (שֶׁ).

   È comunque possibile che tutte le parole straniere precedenti siano state introdotte posteriormente nell’originale ebraico, anche se improbabile. Il fatto è che non ci sono solo questi elementi: tutto il carattere linguistico del libro mostra un periodo tardivo.

     Possiamo concludere che il libro sia sorto in epoca persiana. Ciò è avvalorato anche dal fatto che la geografia del libro spazia dal Libano e dall’Ermon alla Transgiordania, a Moab, a Edom e all’Arabia. Non vi si parla di confini: segno che più non c’erano, data la conquista straniera. Non v’è spirito nazionalistico: segno che la nazione più non c’era. Tutto fa pensare al tempo persiano in cui più non sussistevano frontiere nazionali (verso il 4° secolo a. E. V.).

   Da tutte queste considerazioni appare come sia illogico dedurre dal nome “Tirza”, ricordato in 6:4 (“Amica mia, tu sei bella come Tirza”), che l’autore sarebbe vissuto nel Regno del Nord, di cui tale città fu in un certo periodo la capitale. La città di Tirza era nota anche nella tradizione posteriore e può essere stata ricordata per il suo valore etimologico di “fascino”. Così intende anche TNM che non traduce “Tirza” (תִרְצָה, tirzàh) ma interpreta la parola: “Sei bella, o mia compagna, come Città Piacevole”. Non possiamo neppure escludere che nel Cantico, come nel caso dei Proverbi, sia confluito materiale ben più antico.

Forma letteraria

   Da parte di esegeti cattolici, come il Ghisleri (1609), il Panigarola (1621) e specialmente il gesuita Pinto Ramirez (1642), sorsero nel 17° secolo i primi tentativi di considerare il Cantico un dramma, la cui prima rappresentazione risalirebbe al tempo di Salomone. Tuttavia, il padre dell’interpretazione drammatica di Cant si ritiene comunemente il protestante Jacobi, un ecclesiastico tedesco che, pubblicando nel 1771 un lavoro di piccola mole sul Cantico, vi trovò la seguente tenue trama: L’avvenente figlia di un viticoltore gerosolimitano, da poco sposata ad un pastore dei dintorni, fu rapita per essere introdotta nell’harem salomonico. Ma lei, resistendo a tutte le lusinghe del re, finì per ritornare da suo marito.

   Questo schema dello Jacobi diede origine ad una grande quantità di ipotesi, le une diverse dalle altre, che hanno tutte in comune l’interpretazione drammatica.

   Più recente è il tentativo suggerito dal filosofo Guitton che offrì l’interpretazione seguente: “Una semplice contadina, originaria del Libano e fidanzata ad un pastore della montagna, fu un giorno rapita e introdotta nell’harem salomonico. Il cantico ha appunto inizio nel giardino dell’harem regale. Invano il sovrano cerca di conquistare il cuore della giovane: ella è troppo attaccata al suo fidanzato che, d’altronde, non è lontano da lei, ma viene a parlarle appena la trova sola” (pag. 50). Il Guitton vi vede 12 scene; le parole del libro sono poste in bocca ora a Salomone, ora al pastore, ora alla contadina, ora alle donne gerosolimitane, ora ai compagni del pastore.

   Che dire? Riguardo alla prima ipotesi dobbiamo notare l’incongruenza di far rapire una donna già sposata. Neppure Davide osò tanto: egli prese Betsabea in moglie solo dopo la morte del marito Uria. Questa stessa obiezione è valida anche per la seconda ipotesi. Infatti, per gli ebrei la fidanzata era già legata al proprio fidanzato come la sposa allo sposo. Si rammentino, come esempio, Giuseppe e Miryàm: “Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua moglie [in verità era la fidanzata; ma per gli ebrei già moglie]; perché ciò che in lei è generato, viene dallo Spirito” (Mt 1:20). Inoltre, sarebbe davvero stranissimo l’ingresso del marito o fidanzato nell’harem del re per parlare alla ragazza.

   Quasi tutti gli esegeti moderni sono ormai contrari all’interpretazione drammatica per il semplice fatto che in tutta la letteratura orientale non vi è un solo esempio di dramma. Non basta a sostenere il dramma la presenza di dialoghi nel libro del Cantico. Sin dall’introduzione i due amanti bramano l’amplesso più completo, senza che nel libro si noti uno sviluppo.

 

“Che lui mi baci

con i baci della sua bocca.

Più dolci del vino

sono le tue carezze,

più inebrianti dei tuoi profumi.

Tu stesso sei tutto un profumo.

Vedi, le ragazze si innamorano di te!

Prendimi per mano

e corriamo.

Portami nella tua stanza,

o mio re.

Godiamo insieme,

siamo felici. – 1:2-4, PdS.

“Amica mia,

sei una puledra

che fa impazzire i cavalli del faraone!

Come son belle le tue guance, tra le trecce,

com’è bello il tuo collo ornato di perle!”. – 1:9,10, PdS.

   Nel testo manca ogni indizio di trama. Chi vuole sostenere una trama deve ricorrere a tanti sottintesi, a trasposizioni, a interpolazioni, che alla fine rendono l’ipotesi molto precaria. Tra i pochi che si rifanno ancora all’interpretazione drammatica in cui Salomone tenterebbe la conquista della ragazza già impegnata con il suo pastore, rimane il direttivo americano della Watch Tower, che – per quanto riguarda l’attribuzione dei libri biblici e la loro interpretazione di massima – è sempre dipendente dalle vecchie e obsolete idee ecclesiastiche.

   Continuando nel nostro esame del libro dobbiamo anche rilevare che il re Salomone è presentato nella gran parte dei casi in modo indiretto, a mo’ di paragone, senza agire da vero attore. In 6:8 è detto: “Ci sono sessanta regine, ottanta concubine, e fanciulle innumerevoli”. Qui forse si conserva una tradizione più precisa di quella di 1Re 11:3: “[Salomone] ebbe settecento principesse per mogli e trecento concubine”, dove il numero di mogli e concubine è accresciuto fino a 1000 (700 mogli + 300 concubine); probabilmente il 1000 è un numero simbolico di grande quantità, o – se è letterale – include anche le serve. Comunque, il paragone è evidente da 6:9, in cui – in contrasto con le regine e le concubine del re – si afferma: “Ma la mia colomba, la perfetta mia, è unica”. Allo stesso modo, la bellezza della ragazza è paragonata a quella dei tendaggi della reggia salomonica (1:5). L’unicità della ragazza è posta in contrasto con l’harem salomonico e con la sua vigna (8:11,12). Il fasto di Salomone era ben noto alla tradizione ebraica.

   Come sia facile il fraintendimento basato sul pregiudizio di pensiero dovuto alle vecchie interpretazioni ecclesiastiche lo possiamo illustrare leggendo il passo di 3:6-11:

 

“Chi è colei che sale dal deserto,

simile a colonne di fumo,

profumata di mirra e d’incenso

e d’ogni aroma dei mercanti?

Ecco la lettiga di Salomone,

intorno a cui stanno sessanta prodi,

fra i più valorosi d’Israele.

Tutti maneggiano la spada,

sono esperti nelle armi;

ciascuno ha la sua spada al fianco,

per gli spaventi notturni.

Il re Salomone si è fatto una lettiga

di legno del Libano.

Ne ha fatto le colonne d’argento,

la spalliera d’oro,

il sedile di porpora;

in mezzo è un ricamo, lavoro d’amore

delle figlie di Gerusalemme.

Uscite, figlie di Sion, ammirate il re Salomone

con la corona di cui l’ha incoronato sua madre

il giorno delle sue nozze,

il giorno della gioia del suo cuore”.

 

   L’interpretazione che qui i tradizionalisti danno è quella classica del moderno lettore occidentale che legge la Scrittura letteralmente. Ecco un esempio: “Tornando a Gerusalemme, Salomone portò con sé la Sulamita. Vedendo il corteo che si avvicinava alla città, diverse ‘figlie di Sion’ fecero i loro commenti al riguardo. (Ca 3:6-11)” (Perspicacia nello studio delle Scritture Vol. 1, pag. 417). Chi interpreta così non conosce il linguaggio ebraico della Bibbia. E non conosce neppure gli usi e costumi degli ebrei biblici. Colui che avanza sulla lettiga non è il re Salomone in carne ed ossa, ma lo sposo che con il suo corteo nuziale avanza su una lettiga preziosa, paragonata a quella di Salomone. “Salomone” è qui un epiteto attribuito allo sposo che, come vedremo, in occasione delle nozze era trattato da re (l’allusione alle nozze è in 3:11: “Il giorno delle sue nozze”).

   Comunque, Cant non è un’antologia o una raccolta di canti popolari che esaltano il matrimonio, la sposa e lo sposo. Anche se vi manca un chiaro segno di passaggio tra un dialogo e l’altro e vi manca una trama evidente, Cant presenta vari indizi unitari che si spiegano solo con una stesura ad opera di un autore unico. In esso vi sono i medesimi concetti, le medesime formule, lo stesso slancio appassionato, l’identica sensibilità poetica.

Indole poetica del Cantico 

   Il libro, soffuso di un amore ardente, si compiace della bellezza dei due amanti che desiderano baciarsi e anelano all’amplesso amoroso. Un ritornello che ricorre molto frequentemente è la frase:

 

הִנָּךְ יָפָה רַעְיָתִי הִנָּךְ יָפָה

hinàch yafàh rayatìy hinàch yafàh

ecco [sei] bella amica di me ecco [sei] bella

 

   Si veda 1:15;4:1;6:4: “Quanto sei bella, amica mia, quanto sei bella”.- PdS.

   Non mancano descrizioni di sogni in cui i due fidanzati si vedono (5:1,2). Vi si cantano il desiderio di baci (1:2-4;4:11)  e di abbracci (2:6;8:3). Vi è la gelosia che non tollera rivali. – 8:6.

   Va anche precisato che le metafore mediorientali con cui si descrive la bellezza dell’amata non sempre corrispondono ai gusti dell’occidentale. Anzi, alcune metafore potrebbero risultare del tutto antipatiche (per non dire urtanti) alle ragazze di oggi.

Corpo – “Il tuo corpo è un mucchio di grano, circondato di gigli”. – 7:3.

Statura – “La tua statura è simile alla palma”. -7:8.

Capo – “Il tuo capo si eleva come il Carmelo”. – 7:6-

Occhi – “Quelli dei colombi”. – 1:18; “I tuoi occhi sono come le piscine di Chesbon”. – 7:5.

Naso – “Il tuo naso è come la torre del Libano”. – 7:5.

Bocca – “La tua bocca come un vino generoso”. – 7:10.

Labbra – “Le tue labbra somigliano a un filo scarlatto”. – 4:3.

Respiro – “Il profumo del tuo fiato, come quello delle mele”. – 7:9.

Denti – “I tuoi denti sono come un branco di pecore tosate”. – 4:2.

Guance – “Sono come un pezzo di melagrana”. – 4:3.

Collo – “Il tuo collo è come una torre d’avorio”. – 7:5.

Seno – “Le tue mammelle sono due gemelli di gazzella”. – 4:5; “Le tue mammelle [assomigliano] a grappoli d’uva”. – 7:8.

Ombelico – “Il tuo ombelico è una coppa rotonda”. – 7:2, TNM.

Gambe – “Le curve delle tue cosce sono come ornamenti, opera delle mani di un artista”. – 7:1, TNM.

Avvenenza – “Come i teli di tenda di Salomone”. –  1:5 , TNM; “Tu sei una fontana di giardino”. – 4:15; “Una sorgente d’acqua viva”. – 4:15; “Un ruscello che scende giù dal Libano”. – 4:15; “Avvenente come Gerusalemme”. – 6:4, TNM.

Profumo – “L’odore delle tue vesti è come l’odore del Libano”. – 4:11.

Unicità – “Un giglio tra le spine”. – 2:2.

   Gli ebrei avevano della bellezza un concetto diverso dal nostro che è occidentale. Usavano paragoni a noi non graditi. Ciò dipende dal fatto che essi mettevano a fuoco un particolare senza comporlo assieme agli altri in un tutto armonico; inoltre lo esageravano ad arte per metterlo più in enfasi. È per questo che il naso della sulammita è paragonato ad una torre del Libano (7:5) e le gambe dell’amato a due colonne di marmo (5:15). Alcune volte le metafore si sviluppano e alcuni particolari si adattano ora alle persone ora alla realtà presa come paragone. Così, i denti della ragazza sono paragonati ad un gregge di pecore il cui colorito bianco richiama la bianchezza dello smalto; invece il particolare che ogni pecora ha la sua gemella si applica solo ai denti, che non sono scompagnati: “I tuoi denti sono come un branco di [pecore] appena tosate che sono salite dalla lavatura, le quali tutte portano gemelli, non avendo nessuna fra loro perduto i suoi piccoli” (4:2, TNM); al contrario, il particolare finale che le pecore non sono sterili è proprio degli ovini e non dei denti.

   Talora non riusciamo a comprendere bene il valore di alcuni paragoni, come ad esempio il confronto del corpo della ragazza con un mucchio di grano circondato da gigli: “Il tuo corpo è un mucchio di grano, circondato di gigli” (7:3). Che significa? Si riferisce all’intimità femminile dell’addome? Così pare intendere TNM che traduce: “Il tuo ventre è un mucchio di frumento, cinto di gigli” (qui in 7:2). La parola ebraica בטן (bèten) può significare anche “addome”, è vero, ma anche “stomaco” e “corpo”. Sarebbe strano riferirlo qui alla peluria dell’addome: il color biondo del grano nulla ha a che fare con la sulammita che dice di sé: “Sono nera” (1:5, TNM). Neppure possiamo riferire il colore giallo del grano al suo corpo, per la stessa ragione. Forse si riferisce alla sua fecondità, prolifica come quella del grano? E cosa rappresentano i gigli? Forse richiamano i fiori che circondavano i mucchi di grano raccolti in campagna? Il paragone vuol forse dire che i peli pubici della ragazza – al di là del colore – fanno parte della sua bellezza tanto che lei è bella e feconda come il grano ammucchiato che, anziché avere a difesa (come normalmente era, per impedire l’accesso agli animali) siepi di spine o sassi, aveva dei fiori che attiravano con il loro profumo? È ben difficile dirlo oggi che non conosciamo più tanti usi ebraici e il simbolismo di tanti particolari. Altrove il corpo è paragonato a dell’avorio coperto di zaffiri: “Il suo corpo è d’avorio lucente, coperto di zaffiri”. – 5:14.

   Più chiaro è invece il confronto delle gote con le melagrane, che ne descrivono il bianco e il rosso proprio di una persona sana e robusta. – 4:3.