L’oppressione degli israeliti in Egitto

   Il faraone aveva accolto molto bene la parentela di Giuseppe, suo primo ministro ebreo. “Il faraone parlò a Giuseppe, dicendo: ‘Tuo padre e i tuoi fratelli sono venuti da te; il paese d’Egitto sta davanti a te; fa’ abitare tuo padre e i tuoi fratelli nella parte migliore del paese; risiedano pure nella terra di Gosen’” (Gn 47:5,6). Gli israeliti vissero felicemente nella terra loro assegnata finché nella corte faraonica rimase il ricordo dei preziosi servizi di Giuseppe. Ma – come avviene spesso anche oggigiorno – quando la dinastia cambiò sul trono d’Egitto, le sorti del popolo di Israele cambiarono pure.

   “Sorse sopra l’Egitto un nuovo re, che non aveva conosciuto Giuseppe” (Es 1:8). Questa fu una prima circostanza sfavorevole. Probabilmente influì anche sul cambio di atteggiamento il fatto che gli israeliti adoravano un Dio unico e non si adattavano alle esigenze idolatriche egizie. Di certo influì il fatto che erano cresciuti di numero fino a diventare un immenso popolo. Il rischio per gli egiziani era quello che gli ebrei prendessero il sopravvento divenendo – loro, stranieri – padroni dell’Egitto. “Ecco, il popolo dei figli d’Israele è più numeroso e più potente di noi. Usiamo prudenza con esso, affinché non si moltiplichi e, in caso di guerra, non si unisca ai nostri nemici per combattere contro di noi e poi andarsene dal paese”. – Es 1:9,10.

   Per impedire questa eventualità, gli israeliti furono caricati di lavori umili e pesanti: “Stabilirono dunque sopra Israele dei sorveglianti ai lavori, per opprimerlo con le loro angherie. Israele costruì al faraone le città che servivano da magazzini, Pitom e Ramses”. – Es 1:11.

   Il popolo ebraico era però benedetto da Dio. “Quanto più lo opprimevano, tanto più il popolo si moltiplicava e si estendeva”, col il risultato che “gli Egiziani nutrirono avversione per i figli d’Israele” (Es 1:12). “Così essi obbligarono i figli d’Israele a lavorare duramente. Amareggiarono la loro vita con una rigida schiavitù, adoperandoli nei lavori d’argilla e di mattoni e in ogni sorta di lavori nei campi. Imponevano loro tutti questi lavori con asprezza”. – Es 1:13,14.

   Tutti gli sforzi egiziani per sottomettere Israele non portavano a nulla, così il crudele faraone trovò un altro mezzo. Il più crudele. Fu dato un ordine alle levatrici: “Quando assisterete le donne ebree al tempo del parto, quando sono sulla sedia, se è un maschio, fatelo morire; se è una femmina, lasciatela vivere” (Es 1:16). Funzionò poco: “Le levatrici temettero Dio, non fecero quello che il re d’Egitto aveva ordinato loro e lasciarono vivere anche i maschi” (v. 17). “Dio fece del bene a quelle levatrici. Il popolo si moltiplicò e divenne molto potente” (1:20). Il faraone ne pensò allora, come si dice, una più del diavolo: “Ogni maschio che nasce, gettatelo nel Fiume [il Nilo]” (1:22). Nulla impedì comunque l’accrescimento degli ebrei. Dio aveva in mente per loro grandi benedizioni: la Terra Promessa e il Messia.

Mosè

   “Un uomo della casa di Levi andò e prese in moglie una figlia di Levi. Questa donna concepì, partorì un figlio e, vedendo quanto era bello, lo tenne nascosto tre mesi. Quando non poté più tenerlo nascosto, prese un canestro fatto di giunchi, lo spalmò di bitume e di pece, vi pose dentro il bambino, e lo mise nel canneto sulla riva del Fiume. La sorella del bambino se ne stava a una certa distanza, per vedere quello che gli sarebbe successo. La figlia del faraone scese al Fiume per fare il bagno, e le sue ancelle passeggiavano lungo la riva del Fiume. Vide il canestro nel canneto e mandò la sua cameriera a prenderlo. Lo aprì e vide il bambino: ed ecco, il piccino piangeva; ne ebbe compassione e disse: ‘Questo è uno dei figli degli Ebrei’”. – Es 2:1-6.

   “Egli fu per lei come un figlio ed ella lo chiamò Mosè; ‘perché’, disse: ‘io l’ho tirato fuori dalle acque’”. – Es 2:10.

 

מֹשֶׁה

(Moshè)

Dal verbo משה (mashà), “trarre [dall’acqua]”

(cfr. Giuseppe Flavio, Antichità giudaiche, Libro II, cap. IX, 6).

   Iscrizioni datate al periodo del Medio Regno e del Nuovo Regno degli egizi hanno rivelato che annesse ai palazzi reali c’erano delle scuole in cui i giovani venivano preparati come ufficiali di corte. Fra coloro che beneficiavano di questa istruzione elitaria c’erano “figli di governanti stranieri che venivano mandati o portati in ostaggio in Egitto per essere ‘civilizzati’ e poi ricondotti [in patria] a governare come vassalli” fedeli al faraone (Betsy M. Bryan, The Reign of Thutmose IV). Nonostante Mosè fosse “istruito in tutta la sapienza degli Egiziani” (At 7:22), rimase ebreo: “Per fede Mosè, fattosi grande, rifiutò di essere chiamato figlio della figlia del faraone, preferendo essere maltrattato con il popolo di Dio, che godere per breve tempo i piaceri del peccato” (Eb 11:24,25). Fino a quarant’anni Mosè visse alla corte del faraone. – At 7:23.

   “Mosè, già diventato adulto, andò a trovare i suoi fratelli; notò i lavori di cui erano gravati e vide un Egiziano che percoteva uno degli Ebrei suoi fratelli. Egli volse lo sguardo di qua e di là e, visto che non c’era nessuno, uccise l’Egiziano e lo nascose nella sabbia” (Es 2:11,12). Mosè aveva già in sé l’indole del liberatore, ma il momento da lui scelto per tentare di liberare il popolo non coincideva con quello stabilito da Dio, anche se le sue azioni rivelarono fede. Comunque, la coraggiosa bravata di Mosè fu notata e riferita al faraone. “Quando il faraone udì il fatto, cercò di uccidere Mosè, ma Mosè fuggì dalla presenza del faraone, e si fermò nel paese di Madian”. – Es 2:15.

   A Madian, Mosè trovò rifugio presso Reuel, il sacerdote locale. Sposò anche una delle sue figlie, Sefora (Es 2:16-22). Lì rimase per molti anni, avendo il tempo di meditare sulle sventure del suo popolo e sulle promesse fatte da Dio. Lo affliggeva anche la separazione dai suoi, tanto che chiamò il suo primogenito Ghersom (che significa “straniero là”) “perché disse: ‘Abito in terra straniera’” (Es 2:22). Mosè confidava nell’aiuto di Dio. Lo denota anche il nome che diede al suo secondo figlio, “Eliezer, perché aveva detto: ‘Il Dio di mio padre è stato il mio aiuto e mi ha liberato dalla spada del faraone’” (Es 18:4). Ed era proprio Dio che stava preparando Mosè per la sua grande missione di liberatore del suo popolo, Israele.

   Venne il momento in cui Dio diede a Mosè l’incarico di liberatore. Ciò accadde circa 1500 anni prima della nascita di Yeshùa. E lo fece in modo aperto e solenne. “Mosè pascolava il gregge di Ietro [Reuel, chiamato forse anche Obab (Gdc 4:11)] suo suocero, sacerdote di Madian, e, guidando il gregge oltre il deserto, giunse alla montagna di Dio, a Oreb. L’angelo del Signore gli apparve in una fiamma di fuoco, in mezzo a un pruno. Mosè guardò, ed ecco il pruno era tutto in fiamme, ma non si consumava” (Es 3:1,2). La voce che udì si qualificò: “Io sono il Dio di tuo padre, il Dio d’Abraamo, il Dio d’Isacco e il Dio di Giacobbe” (3:6). Quindi gli fu comunicata la missione:

“Ho visto, ho visto l’afflizione del mio popolo che è in Egitto e ho udito il grido che gli strappano i suoi oppressori; infatti conosco i suoi affanni. Sono sceso per liberarlo dalla mano degli Egiziani e per farlo salire da quel paese in un paese buono e spazioso, in un paese nel quale scorre il latte e il miele, nel luogo dove sono i Cananei, gli Ittiti, gli Amorei, i Ferezei, gli Ivvei e i Gebusei. E ora, ecco, le grida dei figli d’Israele sono giunte a me; e ho anche visto l’oppressione con cui gli Egiziani li fanno soffrire. Or dunque va’; io ti mando dal faraone perché tu faccia uscire dall’Egitto il mio popolo, i figli d’Israele”. – Es 3:7-10.

   Mosè manifestò allora la sua preoccupazione: “Chi sono io per andare dal faraone e far uscire dall’Egitto i figli d’Israele?” (3:11); Dio gli diede la risposta (v. 12). Sopraggiunge poi una nuova preoccupazione: “Ecco, quando sarò andato dai figli d’Israele e avrò detto loro: ‘Il Dio dei vostri padri mi ha mandato da voi’, se essi dicono: ‘Qual è il suo nome?’ che cosa risponderò loro?” (3:13); e Dio gli diede la risposta (vv. 14 e 15). Una nuova preoccupazione: “Ma ecco, essi non mi crederanno e non ubbidiranno alla mia voce, perché diranno: ‘Il Signore non ti è apparso’” (4:1); e Dio gli diede anche quella risposta (vv. 2-9). Ma c’era un ultimo problema: “Ahimè, Signore, io non sono un oratore; non lo ero in passato e non lo sono da quando tu hai parlato al tuo servo; poiché io sono lento di parola e di lingua” (4:10); Dio gli risolse anche quel problema (vv. 11 e 12). Era finita? No. “Mosè disse: ‘Ti prego, Signore, manda il tuo messaggio per mezzo di chi vorrai!’” (4:13), purché non fosse lui. “Allora l’ira del Signore si accese contro Mosè” (v. 14). Tuttavia, fu incaricato Aaronne (fratello di Mosè) quale portavoce di Mosè (4:14,15). E Mosè? Mosè sarebbe stato come Dio per Aaronne: “Ti servirà da bocca e tu sarai per lui come Dio”. – V. 16.

   “Mosè dunque prese sua moglie e i suoi figli, li mise su un asino e tornò nel paese d’Egitto. Mosè prese nella sua mano anche il bastone di Dio” (Es 4:20). In Egitto Mosè inizia le trattative per il buon esito della sua missione. Per prima cosa spiega ai notabili di Israele l’incarico avuto da Dio. “Mosè e Aaronne dunque andarono e radunarono tutti gli anziani degli Israeliti. Aaronne riferì tutte le parole che il Signore aveva detto a Mosè e fece i prodigi in presenza del popolo. Il popolo prestò loro fede. Essi compresero che il Signore aveva visitato i figli d’Israele e aveva visto la loro afflizione”. – Es 4:29-31.

   “Dopo questo, Mosè e Aaronne andarono dal faraone e gli dissero: ‘Così dice il Signore, il Dio d’Israele: Lascia andare il mio popolo, perché mi celebri una festa nel deserto’” (Es 5:1). Il faraone si prese gioco di loro. Non solo diede ordine che gli ebrei fossero trattenuti, ma che fossero maggiormente angariati – anzi flagellati, se non compivano i duri lavori loro assegnati. – Es 5.

   Il primo tentativo si rivelò dunque disastroso. Al turbamento di Mosè e di Aaronne si aggiunsero i lamenti e i rimproveri degli stessi israeliti: “Il Signore vi giudichi! Per causa vostra infatti il faraone e i suoi ministri non possono più vederci. Voi gli avete dato il pretesto per farci morire” (5:21, PdS). Mosè però non si perse d’animo. Confidò in Colui che lo aveva incaricato e che con una serie di castighi tremendi avrebbe smosso, alla fine, il cuore indurito del faraone.

“Il Signore rispose a Mosè: ‘Ora vedrai quel che farò al faraone: con il mio intervento lo costringerò a lasciar andar via gli israeliti.

Addirittura li caccerà via dall’Egitto!’”. – Es 6:1, PdS.

   Dio mandò, uno dopo l’altro, dieci flagelli (divenuti famosi con il nome di “piaghe”) per mostrare la sua potenza e la sua giustizia, per far conoscere che egli proteggeva il suo popolo Israele e per persuadere il faraone a concedere la libertà a quelle persone che da tantissimi anni soffrivano gli obbrobri della dura e disumana schiavitù.

   Così Mosè – già costituito dal Signore “come Dio” su Aaronne (Es 4:16) – ora viene costituito come Dio sul faraone: “Io ti ho stabilito come Dio per il faraone e tuo fratello Aaronne sarà il tuo profeta” (7:1).

   Dio mandò quindi sull’Egitto dieci segni (o castighi o flagelli o piaghe).

 

i dieci eventi straordinari

1

L’acqua si cambia in sangue

Es 7:14-24

2

Le rane

Es 7:25-29

3

Le zanzare

Es 8:12-15

4

I mosconi

Es 8:16-28

5

La moria del bestiame

Es 9:1-7

6

Le ulcere

Es 9:8-12

7

La grandine

Es 9:13-35

8

Le cavallette

Es 10:1-20

9

Le tenebre

Es 10:21-29

10

La morte dei primogeniti

Es 12:29-33

   L’ultima piaga fu la più tremenda. Lo stesso faraone ne rimase scosso e spaventato perché tra i primogeniti colpiti c’era anche un suo figlio, l’erede al trono: “A mezzanotte, il Signore colpì tutti i primogeniti nel paese d’Egitto, dal primogenito del faraone che sedeva sul suo trono al primogenito del carcerato che era in prigione, e tutti i primogeniti del bestiame”. – Es 12:29.

La Pasqua della liberazione

   Mentre l’angelo sterminatore passava percorrendo l’Egitto e percotendo gli egiziani nella notte tra il 14 e il 15 nissàn (corrispondente a marzo-aprile), gli ebrei – per ordine di Dio – mangiavano l’agnello pasquale. Lo mangiarono con i “fianchi cinti”, con i “calzari ai piedi”, con il “bastone in mano” e “in fretta” (Es 12:11). Erano pronti a partire. Pronti a lasciare la terra egiziana di schiavitù. Liberi. Liberati.

   Il re egizio, il grande faraone, atterrito per quella strage che lo colpiva anche personalmente, quella notte stessa convocò Mosè ed Aaronne: “Il faraone si alzò di notte, egli e tutti i suoi servitori e tutti gli Egiziani; e vi fu un grande lamento in Egitto, perché non c’era casa dove non vi fosse un morto. Egli chiamò Mosè ed Aaronne, di notte, e disse: ‘Alzatevi, partite di mezzo al mio popolo, voi e i figli d’Israele. Andate a servire il Signore, come avete detto” (Es 12:30,31). L’ordine fu eseguito, passando di bocca in bocca, e tutti gli israeliti si misero in viaggio lasciando l’Egitto dove tanto avevano sofferto.