5 – “Onora tuo padre e tua madre”. – Es 20:12.

 

La prima versione di questo Comandamento, in Es 20:12 recita: “Onora tuo padre e tua madre, affinché i tuoi giorni siano prolungati sulla terra che il Signore, il tuo Dio, ti dà”. Nella seconda versione, quella deuteronomica, si ha: “Onora tuo padre e tua madre, come il Signore, il tuo Dio, ti ha ordinato, affinché i tuoi giorni siano prolungati e affinché venga a te del bene sulla terra che il Signore, il tuo Dio, ti dà” (Dt 5:16). Particolarmente bella è la traduzione che ne fa PdS: “Rispetta tuo padre e tua madre, come io, il Signore, tuo Dio, ti ho comandato, perché tu possa vivere a lungo ed essere felice nella terra che io, il Signore, tuo Dio, ti do”. “Essere felice”: ecco lo scopo di questo Comandamento. Se i figli si comportano così, non solo renderanno felici i loro genitori, ma saranno felici loro stessi quando, diventati a loro volta genitori, i loro figli faranno altrettanto.

   Come abbiamo osservato in un precedente studio, Le Dieci Parole, in questa stessa categoria, ogni parte della Legge (e quindi anche del Decalogo) è interdipendente. Così, questo primo Comandamento è collegato al primo che afferma che Dio è il creatore; come se i genitori dicessero al figlio o alla figlia: siamo noi che ti abbiamo messo al mondo, che ti abbiamo liberato dalle debolezze dell’infanzia per fare di te un uomo libero o una donna libera, a somiglianza di Dio. Come il secondo Comandamento che vieta l’idolatria, in questo è come se i genitori dicessero: tu non potrai avere in questo mondo una tenerezza e un amore pari a quello che tua madre e tuo padre ti danno; tuo marito o tua moglie potranno lasciarti, ma noi t’ameremo ancora. Come nel terzo che non permette di associare il nome di Dio a un falso giuramento, il quinto Comandamento è come se dicesse ai figli di non trattare con leggerezza i genitori e di rispettare il loro buon nome. Come il quarto chiede di ricordarsi del sabato di Dio, il quinto è come se dicesse ai figli che devono ricordarsi di assicurare ai genitori un felice e sereno sabato di riposo durante la loro vecchiaia perché per tutta la vita hanno faticato per il loro avvenire.

   Alla procreazione dell’essere umano concorrono tre esseri: la donna, l’uomo e Dio. Mentre madre e padre concorrono nel loro contributo fisico, è Dio che dona le proprietà psichiche e spirituali. La procreazione mostra tutta la sua importanza quando si comprende che lo spirito di Dio è partecipe: “Tu mandi il tuo Spirito e sono creati” (Sl 104:30). È da ciò che si trae il principio della santità della vita umana proclamata nella Bibbia. Il miracolo della creazione si ripete ogni giorno, ogni volta che viene al mondo un essere umano. Siamo forse troppo abituati a considerare la vita come un diritto acquisito, tanto che lo difendiamo non solo dalle sopraffazioni umane ma perfino rifiutando di ubbidire a Dio, dimenticando che tutto l’universo, noi compresi, appartiene a lui. La morte però ci rammenta la nostra dipendenza da Dio: “Tu ritiri il loro fiato e muoiono, ritornano nella loro polvere”. – Sl 104:29.

   I genitori vengono dopo Dio, ma con Dio. Dio è il creatore, i genitori sono i procreatori. Dopo aver proclamato il rispetto per Dio, il Decalogo proclama quello per i genitori. Il quinto Comandamento è posto tra quelli che mirano alla santificazione e alla glorificazione di Dio. È come se i genitori fossero per i figli, per così dire, divinità visibili. Pertanto i figli devono considerare i loro procreatori con rispetto e amore.

   Il quinto Comandamento è anche alla base delle leggi umane, non solo divine. Nelle varie legislazioni il pater familias  è il custode della propria famiglia, il tutore naturale dei propri figli, ha l’obbligo legale di nutrirli, allevarli e insegnar loro la morale sociale. Quando la figlia o il figlio diventa adulta/o, questa tutela non ha più ragion d’essere e cessa la responsabilità paterna e materna, la patria potestà. Così cessano anche molti doveri dei figli che, raggiunta la maggiore età, sono svincolati dal dovere di ubbidienza ai genitori. Le leggi umane si fermano però a vedere nei genitori il tutore legale, tanto che legalmente può perfino essere tolta loro la patria potestà nei casi in cui si ritenga che non siano più in grado di esercitare bene la loro tutela. Nell’ottica sociale contemporanea, molto spesso i figli considerano i sacrifici fatti dai genitori per loro come un obbligo e come qualcosa di dovuto. Scarsa o nessuna considerazione ha la profonda tenerezza e la sentita apprensione con cui hanno vigilato su di loro, curandoli con amore e vegliando quando erano malati. Non possono essere pesate con gli articoli del codice civile o penale le notti insonni e le trepidazioni. Mentre oggi si tende a scansare il matrimonio e a preferire di non mettere al mondo dei figli, nella società biblica la famiglia era luogo di felicità e il non aver figli era considerato una maledizione. – Pr 5:18; Sl 127:3-5;128:3-6; Gn 30:23.

   Nella Bibbia non si parla mai di emancipazione dei figli dall’obbligo verso i genitori. Salomone onorava ancora profondamente sua madre anche dopo essere divenuto un potente re: “Il re si alzò per andarle incontro, le si inchinò, poi si risedette sul trono, e fece mettere un altro trono per sua madre, la quale si sedette alla sua destra” (1Re 2:19). Nella Bibbia sono conservati ancora gli insegnamenti di una madre, che un re non dimenticò e di cui fece anzi tesoro: “Parole del re Lemuel. Massime che sua madre gli insegnò”. – Pr 31:1.

   Normalmente la frase biblica di Es 20:12 כַּבֵּד אֶת־אָבִיךָ וְאֶת־אִמֶּךָ  (kabèd et avìcha veèt imècha) viene tradotta “onora tuo padre e tua madre”. Tuttavia questa traduzione della radice verbale כבד (kbd) non rende il suo pieno significato, che è molto più ampio dell’italiano “onorare”. Kabèd (כַּבֵּד), oltre che “onorare”, significa pure rispettare, venerare, amare, glorificare. Il Midràsh ebraico ci fornisce un eloquente esempio: “Un illustre maestro impartiva un giorno la sua lezione all’accademia, quando vide entrare nell’aula suo padre: si alzò di scatto e durante tutta la lezione non si mise più a sedere. Pregato dai suoi discepoli di sedersi, rispose: ‘Non posso e non devo: è presente mio padre’”. Solo alcune generazioni or sono, quando la madre entrava nella stanza, il figlio scattava in piedi per rispetto. Quest’atteggiamento è molto diverso da quello rimproverato agli ipocriti farisei e scribi che Yeshùa biasimò: “Come sapete bene annullare il comandamento di Dio per osservare la tradizione vostra! Mosè infatti ha detto: ‘Onora tuo padre e tua madre’; e: ‘Chi maledice padre o madre sia condannato a morte’. Voi, invece, se uno dice a suo padre o a sua madre: ‘Quello con cui potrei assisterti è Corbàn’ (vale a dire, un’offerta a Dio), non gli lasciate più far niente per suo padre o sua madre, annullando così la parola di Dio con la tradizione che voi vi siete tramandata”. – Mr 7:9-13.

   Come accade per gli altri Comandamenti, anche il quinto è ripetuto in altre parti della Scrittura. Abbiamo già visto la versione di Dt 5:16, ora esaminiamo quella che appare come un’integrazione: “Rispetti ciascuno sua madre e suo padre” (Lv 19:3). Più che rispettare, il testo ebraico dice: “Voi dovete temere ciascuno sua madre e suo padre” (TNM). Il verbo יָרֵא (yarè) qui usato significa avere un timore reverenziale, una paura morale. È lo stesso verbo che troviamo in Ec 12:13 (in alcune versioni è al v. 15): “Temi [יְרָא (yarè)] Dio e osserva i suoi comandamenti”. Si noti che qui Dio dice: temi tua madre prima, poi tuo padre. C’è qui la profonda conoscenza che Dio ha della psiche umana. Il Comandamento dice di onorare prima il padre e poi la madre perché la madre con la sua dolcezza suscita amore più facilmente del padre e quindi è richiesta un’applicazione per mostrare amore al padre nella stessa misura. Ma se la madre riesce a ottenere con più facilità dai figli la risposta al suo amore affettuoso, non altrettanto può dirsi del timore che in genere i figli mostrano meno verso la madre e che il padre ottiene quasi per natura; da qui l’anteporre la madre al padre quando si parla di timore.

   Il quinto Comandamento non si limita a richiedere di onorare i genitori, ma riserva una ricompensa: “Rispetta tuo padre e tua madre, come io, il Signore, tuo Dio, ti ho comandato, perché tu possa vivere a lungo ed essere felice” (Dt 5:16, PdS). Questa benedizione compare spesso nella Bibbia. La troviamo anche nello shemà Israèl: “Ascolta, Israele [שְׁמַע יִשְׂרָאֵל (shemà Israèl)]: Il Signore, il nostro Dio, è l’unico Signore. Tu amerai dunque il Signore, il tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima tua e con tutte le tue forze. Questi comandamenti, che oggi ti do, ti staranno nel cuore; li inculcherai ai tuoi figli, ne parlerai quando te ne starai seduto in casa tua, quando sarai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. Te li legherai alla mano come un segno, te li metterai sulla fronte in mezzo agli occhi e li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle porte della tua città . . . Il Signore ci ordinò di mettere in pratica tutte queste leggi e di temere il Signore, il nostro Dio, affinché venisse a noi del bene sempre ed egli ci conservasse in vita, come ha fatto finora”. – Dt 6:4-9,24.

   La filosofia epicurea (4° secolo a. E. V.), volendo garantire la tranquillità di spirito, insisteva sul piacere quale criterio del bene. Gli epicurei avrebbero quindi applaudito alla prospettiva biblica di una vita trascorsa nella pace e nell’abbondanza. Tuttavia, la realtà ci disillude: i giusti non prosperano. Sebbene il salmista durante la sua vita non vide una persona giusta totalmente abbandonata o affamata (Sl 37:25), l’Ecclesiaste era consapevole che “c’è un tale giusto che perisce per la sua giustizia, e c’è un tale empio che prolunga la sua vita con la sua malvagità” (7:15) e che “tutto succede ugualmente a tutti; la medesima sorte attende il giusto e l’empio” (9:2). Così avviene. Ora, in questa vita. Ma l’Ecclesiaste avverte: “Dio giudicherà il giusto e l’empio poiché c’è un tempo per il giudizio di qualsiasi azione e, nel luogo fissato, sarà giudicata ogni opera” (3:17). La prospettiva biblica non è quella del “mangiamo e beviamo, perché domani morremo!” (Is 22:13), motto di coloro che Dio stava per punire per la loro disubbidienza e che Paolo ricorda in 1Cor 15:32. Vedendo come vanno le cose, le persone potrebbero essere portate più verso l’empietà che la giustizia: i furbi e i disonesti sembrano imporsi e passarsela bene. Ma questa visione delle cose è molto miope, ha un orizzonte ristretto: si ferma a guardare a questa vita. “Temi Dio e osserva i suoi comandamenti, perché questo è il tutto per l’uomo. Dio infatti farà venire in giudizio ogni opera, tutto ciò che è occulto, sia bene, sia male”. – Ec 12:15,16.

   Sebbene le migliorate condizioni di vita fanno sì che la vita umana si stia allungando e sebbene la scienza stia sconfiggendo molte malattie, l’elisir di lunga vita non è stato ancora inventato. Eppure esso è indicato nella Bibbia. Al tale che gli aveva domandato: “Maestro, che devo fare di buono per avere la vita eterna?”, Yeshùa rispose: “Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti” . – Mt 19:16,17.

   Nella Bibbia l’essere umano non è mai presentato come un quid separato e a sé stante: in lui vivono le generazioni passate di cui porta il retaggio e, potenzialmente, quelle future. I genitori sono l’anello di congiunzione. Nelle società del mondo antico l’individuo era un nulla, la famiglia valeva poco, lo stato era tutto. Dando la sua Legge a Israele, Dio aveva un triplice scopo: comunicare il vero culto, fondare una nazione santa e fondare la famiglia. La grandezza di un popolo e di una nazione dipende dalla solidità della famiglia. Tra le cause della caduta dell’Impero Romano ci fu l’irrigidimento della società che costrinse ogni persona a svolgere la sua professione a vita e obbligò i padri a tramandare la loro professione ai figli (nasceva la servitù della gleba). La solidità spirituale trae la sua forza dal focolare domestico, ecco perché Dio raccomandò di tenere i suoi Comandamenti nel cuore, di imprimerli nella mente dei figli, di parlarne a casa quando di stava a tavola, quando  si andava a letto e quando ci si alzava (Dt 6:6,7). Nel Decalogo ci sono ben tre Comandamenti che si riferiscono alla famiglia. Il quinto, che stiamo considerando, mette sullo stesso piano la fedeltà a Dio e il rispetto per i genitori. Il settimo proclama l’inviolabilità del matrimonio e protegge contro le sciagurate conseguenze delle morbose passioni. Il decimo arriva perfino a proibire i desideri colpevoli verso il coniuge altrui. Oltre a questi Comandamenti, nella Toràh si trova tutta una serie di prescrizioni tese a mantenere la famiglia nella sua purezza, nel suo onore, nella sua stabilità. Finanche le sante Festività di Dio, che illustrano il suo piano di salvezza, erano prima di tutto gioiose feste familiari che elevavano i pensieri a Dio. “Ti darai interamente alla gioia”, “Non devi essere che gioioso”, “Sarete pieni di gioia” (Dt 16:15, NR, TNM, PdS). Il fatto che durante il pellegrinaggio familiare a Gerusalemme per la Pasqua, Yeshùa “rimase in Gerusalemme senza che i genitori se ne accorgessero”, illustra come alle Festività di Dio partecipassero intere famiglie con tutto il parentado e gli amici, tanto che essi ”credevano che anche lui fosse in viaggio con la comitiva”; solo “dopo un giorno di cammino, si misero a cercarlo tra parenti e conoscenti” (Lc 2:43,44, PdS), segno che i bambini si mischiavano spensierati alla compagnia in festa. “Farete festa voi, i vostri figli e le figlie”. – Dt 16:11, PdS.

   In tempi in cui si vede come non mai lo sgretolarsi della famiglia, il quinto Comandamento è più valido che mai: “Onora tuo padre e tua madre” (Es 20:12), “Rispetti ciascuno sua madre e suo padre”. – Lv 19:3.