Appendice


I LIBRI SAPIENZIALI APOCRIFI

 

 

Nel canone alessandrino, seguito pure dalla Chiesa Cattolica, si trovano due libri sapienziali: l’Ecclesiastico e la Sapienza. Questi due libri furono esclusi dal canone biblico dal concilio ebraico di Yamnia verso la fine del 1° secolo E. V.. Gli ebrei, quindi, non li accettano come ispirati. I protestanti seguono gli ebrei, non riconoscendoli canonici. Gli ortodossi lasciano libertà individuale nel ritenerli sacri o meno. Noi ci atteniamo scrupolosamente al canone degli ebrei e all’esempio dei primi discepoli di Yeshùa, per cui riteniamo che vadano esclusi dalla Sacra Scrittura.

   Premesso questo, dobbiamo anche dire che questi due libri della letteratura ebraica hanno pur sempre un valore notevole perché ci permettono una migliore comprensione delle Scritture Greche. Non ispirati non significa automaticamente spazzatura: si stia attenti a ragionare così, in maniera sbrigativa e bigotta. Neppure Giuseppe Flavio era ispirato, ma ogni serio studioso lo tiene in considerazione; a maggior ragione, quindi,  deve esserlo l’opera prodotta dalla sapienza ebraica. Noi facciamo nostra la tesi di Girolamo secondo il quale questi libri erano letti nella congregazione primitiva per edificazione, pur non ritenendoli ispirati. Al riguardo, si rammenti che il canone biblico, così come lo conosciamo oggi, fu fissato solo verso la fine del 1° secolo della nostra era.

   Presentiamo perciò un breve studio sintetico di queste due opere.

Sapienza

   Il titolo di questo secondo apocrifo sapienziale suona, nella tradizione, “Sapienza di Salomone”. Il libro può dividersi in due parti:

  1. Teorica: La sapienza nella vita umana (1-9);
  2. Pratica: Illustrazioni prese dalla storia antica (10-19).

   Parte teorica. Può essere a sua volta ripartita in due sezioni:

1)               La sapienza: sue richieste e sue promesse (1-5);

2)               La sapienza: sua natura e suo potere (6-9).

   In queste due sezioni la sapienza si considera come una qualità, una virtù che è inerente all’essere umano e lo distingue da chi ne è privo. Con la sapienza l’uomo onora Dio, evita la colpa, evita le sregolatezze sessuali, diviene paziente in ogni avversità e rispetta i diritti altrui. Essendo dono divino, è a Dio che bisogna chiedere la sapienza mediante la preghiera. (Si rammentino le parole di Giacomo: “Se qualcuno di voi manca di sapienza, la domandi a Dio, che dona a tutti generosamente e senza rinfacciare, e gli sarà data” – Gc 1:5, CEI).

   Parte storica (pratica). L’autore, dopo avere mostrato l’eccellenza della sapienza e come essa debba regolare ogni attività umana, conferma la sua tesi mostrando ciò che è avvenuto al popolo ebraico.

a)       La potenza della sapienza manifestata nell’antica storia israelitica (10-19). La sapienza ha apportato dei beni

       ai patriarchi da Adamo a Mosè, ma ha castigato gli egizi e i cananei.

b)       Dato che la colpa principale degli avversari di Israele era l’idolatria – che gli ebrei stessi tendevano ad

        imitare -, l’autore descrive l’origine e il progresso dell’idolatria, che è opposta alla vera sapienza. Ne

        vengono esposte le varie specie. – 13 e 14.

c)       L’autore torna nuovamente alle piaghe d’Egitto per far risaltare il contrasto esistente fra gli adoratori del

        vero Dio e i pagani. Mostra che il Creatore si servì degli animali che gli egizi idolatravano per farsene

        strumento vendicativo della loro idolatria, mentre gli ebrei che non li stimavano furono salvi per mezzo

        loro. – 15:1-19:5.

d)       Conclusione: Dio salva gli ebrei fedeli, punisce i disubbidienti. Gli israeliti devono quindi osservare

       Legge di Dio e allontanarsi con orrore dalle abominazioni egizie. – 19:6, sgg..

   Come si vede, l’autore si propone di combattere l’incredulità e l’idolatria mostrando l’eccellenza della sapienza. Si propone pure di dare coraggio agli israeliti oppressi. Per attribuire più peso alla propria parola, parla a nome di Salomone, così noto per la sua sapienza, e si rivolge ai governanti stessi della terra: “Amate la giustizia, voi che governate sulla terra, rettamente pensate del Signore”. – 1:1, CEI.

   Integrità del testo. Il primo a suggerire che il libro manca di un finale adatto fu il Calmet. L’autore di Sapienza avrebbe improvvisamente abbandonato il suo lavoro per qualche grave motivo (così la pensano Grotius, Hasse, Eickhorn) oppure la parte finale del libro andò smarrita (così il Vreich). Tuttavia, queste ipotesi non sono affatto sicure. L’autore può aver terminato il suo libro in quel punto perché pensava che l’illustrazione storica precedente fosse sufficiente. Sebbene il motivo per cui egli terminò il libro lì rimanga oscuro, dobbiamo dire che la conclusione – così come appare ora – non dà l’impressione di una frammentarietà. Anzi, pare proprio conclusiva:

“In tutti i modi, o Signore, hai magnificato

e reso glorioso il tuo popolo

e non l’hai trascurato

assistendolo in ogni tempo e in ogni luogo”. – 19:22, CEI.

   Unità. Il primo dubbio sull’unità dello scritto sorse al critico francese Houbignant (18° secolo) che vide nel libro due parti, di cui solo la prima (1-9) sarebbe salomonica. Partendo da questa mossa, i critici si scatenarono. L’apocrifo Sapienza fu attribuito, man mano, a tre autori principali e ad un redattore finale, fino a divenire (a detta dei critici) un’antologia di sentenze sul tema della sapienza. Alla fine vi si identificavano ben 79 autori diversi!

   Tutte quelle precedenti furono solo fantasie che oggi sono ormai passate di moda. Oggi nessun critico di buon senso pone più in dubbio l’unità del libro. Questa unità è provata dal fondamentale concetto etico e filosofico, dallo stile e dallo scopo: tutti questi elementi sono sempre identici dalla prima all’ultima pagina di Sapienza.

   Lingua. Non ci possono essere dubbi: il libro fu scritto in greco, e per giunta in un greco molto puro. Espressioni, giri di frasi, stile, ricchezza di vocabolario: tutto qui è in greco. Vi si notano alcuni aggettivi composti che sono rarissimi presso i giudei ellenisti:

 

ἀδελφοκτόνοις (adelfoktònois), “fratricidi” 10:3
δυνατοὶ . . . δυνατῶς  (dünatòi . . . dünatòs), “potenti … potentemente” 6:6
ἀργὰ . . . ἔργα (argà . . . èrga), “inutili . . . opere” 14:5

   Le citazioni dalla Bibbia ebraica sono fatte sulla versione alessandrina (LXX).

   Già Girolamo ebbe a dire: “Ipse stylus graecam eloquentiam redolet”, “Lo stesso stile mostra l’eloquenza greca”. – Prefatio in Lbris Salomonis.

   Non vi mancano, è vero, alcune espressioni ebraiche, ma non sono sufficienti per affermare che l’originale era in ebraico. Queste espressioni ebraiche provano solo che l’autore era un ebreo che conosceva bene i libri delle Scritture Ebraiche.

   Autore e datazione. Anticamente si pensava che l’autore fosse Salomone, tesi oggi sostenuta solo da un paio di studiosi, tra cui l’ebreo Margoliouth.

   Ci si basava prima su motivi estrinsechi: la tradizione patristica, che ne riteneva autore Salomone; e su motivi intrinseci: il libro stesso (capp. 7-9) introduce Salomone come autore.

   Un’analisi più accurata del libro e anche della tradizione, però, porta ai seguenti risultati:

1. Nel periodo postesilico non sono rari i casi di pseudoepigrafi, per cui un volume posteriore viene

notoriamente retrodatato e attribuito a persone celebri dell’antichità per conferirgli maggior valore. Non potrebbe essere anche il caso di Sapienza? Era già il pensiero di Girolamo, che considerando il nome di Salomone come pseudoepigrafo, lo eliminò dalla sua traduzione (la Vulgata), mantenendo solo il titolo di Sapienza.  Infatti, i capitoli 7-9 non sono salomonici, ma tradiscono l’artificio letterario allora in uso di porre le proprie idee in bocca a personaggi antichi. Si rammenti Platone, che pone i propri discorsi sulle labbra di Socrate e di Filone; oppure Cicerone, che introduce a parlare Catone.

2. Indole del libro. Essendo scritto originariamente in greco, non può provenire da Salomone.

3. I concetti e il modo di ragionare tradiscono un’infarinatura di filosofia greca quale un giudeo poteva avere nella regione egizia (probabilmente Alessandria). Si noti l’elegante sorite in 6:8-21, che qui riportiamo (la sorite – dal greco σωρείτης, sorèites, “cumulo” – è una forma di ragionamento costituita da una catena di frasi collegate tra loro in modo che il predicato di ciascuna faccia da soggetto alla frase seguente finché il soggetto della prima si unisce con il predicato dell’ultima):

“Ma sui potenti sovrasta un’indagine rigorosa. Pertanto a voi, o sovrani, sono dirette le mie parole, perché impariate la sapienza e non abbiate a cadere. Chi custodisce santamente le cose sante sarà santificato e chi si è istruito in esse vi troverà una difesa. Desiderate, pertanto, le mie parole; bramatele e ne riceverete istruzione. La sapienza è radiosa e indefettibile, facilmente è contemplata da chi l’ama e trovata da chiunque la ricerca. Previene, per farsi conoscere, quanti la desiderano. Chi si leva per essa di buon mattino non faticherà, la troverà seduta alla sua porta. Riflettere su di essa è perfezione di saggezza, chi veglia per lei sarà presto senza affanni. Essa medesima va in cerca di quanti sono degni di lei, appare loro ben disposta per le strade, va loro incontro con ogni benevolenza. Suo principio assai sincero è il desiderio d’istruzione; la cura dell’istruzione è amore; l’amore è osservanza delle sue leggi; il rispetto delle leggi è garanzia di immortalità e l’immortalità fa stare vicino a Dio. Dunque il desiderio della sapienza conduce al regno. Se dunque, sovrani dei popoli, vi dilettate di troni e di scettri, onorate la sapienza, perché possiate regnare sempre”.

4. Nel libro non ricorrono solo le usuali affermazioni pratiche, ma vi si espongono considerazioni astratte, che rivelano uno sviluppo intellettuale che non solo è impossibile ricondurre all’epoca salomonica, ma che non corrispondono all’indole orientale.

   Dobbiamo perciò concludere che il libro fu compilato da un ebreo della diaspora, vissuto probabilmente in Egitto (come documenta la descrizione dell’idolatria, presentata secondo le forme egizie). Uno dei suoi passi migliori (il discorso messo in bocca agli epicurei, in 11:1-9) riproduce in parte e sostanzialmente un canto di festa egizio conservato in un papiro del British Museum di Londra (Collezione Harris).

   In quanto alla datazione, l’epoca di composizione può essere determinata dalle allusioni del volume ad alcune persecuzioni ormai trascorse, che ben si comprendono al tempo di Tolomeo IV Filopatore (331-204 a. E. V.) o, meglio ancora, sotto il nipote Tolomeo VII Evergete Fyskon (170-117 a. E. V.). Dovremmo perciò collocare il libro all’inizio oppure alla fine del 2° secolo prima dell’Era Volgare. Di certo doveva esistere al tempo apostolico, dato che Paolo lo utilizza nella sua Lettera ai romani. Citiamo solo alcuni passi:

 

“Ciascuno stia sottomesso alle autorità costituite; poiché non c’è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio”. – Rm 13:1.
“La vostra sovranità proviene dal Signore; la vostra potenza dall’Altissimo,

il quale esaminerà le vostre opere”. – Sapienza 6:3.“Sappiamo infatti che la legge è spirituale, mentre io sono di carne, venduto come schiavo del peccato”. – Rm 7:14.“Un corpo corruttibile appesantisce l’anima e la tenda d’argilla grava la mente dai molti pensieri”. – Sapienza 9:15.“Chi mai ha potuto conoscere il pensiero del Signore?”. – Rm 11:34.“Quale uomo può conoscere il volere di Dio?”. – Sapienza 9:13.“La bontà di Dio ti spinge alla conversione”. – Rm 2:4.“Non guardi ai peccati degli uomini, in vista del pentimento”.- Sapienza 11:23.“Forse il vasaio non è padrone dell’argilla, per fare con la medesima pasta un vaso per uso nobile e uno per uso volgare?”. – Rm 9:21.“Un vasaio . . .con il medesimo fango modella e i vasi che servono per usi decenti e quelli per usi contrari, tutti allo stesso modo”. . Sapienza 15:7.

(CEI)

    

   Presunti errori dottrinali. Secondo alcuni lo scrittore di Sapienza “ricorre alla terminologia platonica nell’esporre la dottrina dell’immortalità dell’anima umana. (Sapienza 2:23; 3:2, 4)”. – Perspicacia nello studio delle Scritture Vol. 1, pag. 157.

   Vediamo i passi citati. “Sì, Dio ha creato l’uomo per l’immortalità; lo fece a immagine della propria natura” (Sapienza 2:23, CEI); qui non si afferma affatto l’immortalità dell’anima, ma lo scopo finale di Dio, infatti è detto “per l’immortalità”; Paolo dice: “Quando poi questo corruttibile avrà rivestito incorruttibilità e questo mortale avrà rivestito immortalità, allora sarà adempiuta la parola che è scritta: «La morte è stata sommersa nella vittoria»” (1Cor 15:54); il pensiero è biblico.

   “Agli occhi degli stolti parve che [i giusti] morissero; la loro fine fu ritenuta una sciagura”, “Anche se agli occhi degli uomini subiscono castighi, la loro speranza [quella dei giusti] è piena di immortalità” (Sapienza 3:2,4). Vale lo stesso pensiero: i giusti muoiono con una “speranza” che è “piena di immortalità”; l’immortalità non è per loro una cosa insista, ma una speranza; anche qui siamo di fronte ad un pensiero biblico: “Quando un empio muore, la sua speranza perisce” (Pr 11:7); Paolo dice che “siamo stati salvati in speranza” (Rm 8:24) e parla della “speranza della vita eterna promessa prima di tutti i secoli da Dio”. – Tit 1:2.

   Un altro attacco all’apocrifo Sapienza è questo: “Sono presenti altri concetti pagani come la preesistenza dell’anima umana e l’idea che il corpo sia d’impedimento all’anima. (8:19, 20; 9:15)”. – Perspicacia nello studio delle Scritture Vol. 1, pag. 157.

   Il passo di Sapienza 8:19,20, contestato, dice:

 

“Ero un fanciullo di nobile indole,

avevo avuto in sorte un’anima buona

o piuttosto, essendo buono,

ero entrato in un corpo senza macchia”.

 

   Sembrerebbe che l’anima preesista al corpo e che già prima abbia una determinazione al bene o al male, e che – secondo questa predeterminazione – entri in un corpo adatto. Questa dottrina era insegnata anche da Origène, secondo cui Dio avrebbe creato tutte le anime con doni uguali, ma queste, avendo commesso peccati individuali, sarebbero state unite ad un corpo secondo le colpe precedenti. Questa dottrina fu rimproverata da papa Virgilio (537-555). I cattolici danno qui un’interpretazione da non disprezzarsi, benché forse meno ovvia: vi vedono l’armonia esistente tra anima e corpo e la superiorità dell’anima sul corpo, ma non la predeterminazione e la preesistenza dell’anima. Si noti che l’autore, dopo aver detto che il corpo eccelle in quanto se è buono e bello riceve in sorte un’anima buona, corregge tale valutazione e dice che, piuttosto, essendo l’anima buona, è entrata in un corpo puro. Si tratta di un’armonia prestabilita: l’anima, entrando nel corpo, lo rende più o meno nobile secondo la propria nobiltà. La domanda è: Questa anima preesisteva oppure fu appositamente creata da Dio per questo scopo? Il pensiero non è espresso dal contesto, ed è quindi impossibile provare che l’autore concepiva l’anima come qualcosa di preesistente. Si tratta quindi di priorità di natura, non di tempo.

   Tuttavia, la concezione di un corpo e di un’anima, così come si presenta nel libro della Sapienza, è un tentativo di abbinare la dottrina greca (in cui l’anima era più nobile e il corpo meno nobile) con quella ebraica (in cui non si distingueva l’anima dal corpo, essendo la persona vista nella sua individualità di nèfesh o “anima” o persona fisica intera). Siamo, in questo passo, solo di fronte ad un tentativo di armonizzare la dottrina ebraica con quella greca. D’altra parte – non dimentichiamolo – il libro non è ispirato. Ma nulla questo ha a che fare con l’accettazione di una dottrina pagana.

   Il secondo passo in questione è quello di Sapienza  9:15:

 

“Un corpo corruttibile appesantisce l’anima

e la tenda d’argilla grava la mente dai molti pensieri”.

   O, se si preferisce una traduzione ancora più compromettente:

“Questo corpo corruttibile aggrava l’anima,

è la tenda terrena che l’avvolge,

deprime lo spirito che tante cosa va rimuginando”.

 

   In questo passo ricorrono espressioni filosofiche greche, diverse dalla primitiva concezione ebraica: ad esempio, il concetto che è il corpo è considerato la tomba dell’anima. Tuttavia, sostanzialmente il pensiero è diverso dalla filosofia greca. Esso presenta una verità affermata anche da Paolo e attestata dalla dolorosa esperienza quotidiana di ciascun credente:

Acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra. Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?” – Rm 7:22-24, CEI.

   Il corpo è qui considerato non fisicamente in quanto materia separata da un’“anima”, ma in quanto contrasta spesso con lo spirito. Questo spirito, in tale situazione, non è più libero ma spesso è attratto dal male. È per questo che Paolo esclama: “Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?”. E aggiunge: “Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore! Io dunque, con la mente, servo la legge di Dio, con la carne invece la legge del peccato”. – V. 25.

“Una vera miseria è la vita su questa terra. Quanto più l’uomo vuole spiritualizzarsi, tanta più amara gli diviene la vita presente, in cui meglio sente e con maggiore acutezza i difetti della corruzione umana. Mangiare, bere, vegliare, dormire, riposare e lavorare, soggiacere a tutte le necessità naturali, è una grande afflizione per una persona devota che vuol essere libera da ogni colpa. Molto si è aggravati interiormente dalle necessità corporali di questo mondo”. – Imitazione di Cristo 1,22.

   Cornelio da Ladipe commenta: “La maggior parte degli uomini per quasi tutta la vita si occupa del corpo, del vitto, del vestito, della comodità e del diletto, mentre molto poco o mai pensa all’anima e alla sua salute”.

   Sapienza esclama dunque, a ragione, che il corpo corruttibile aggrava l’anima. Ma non si tratta dell’“anima” del paganesimo, separata dal corpo. Per gli ebrei l’anima (nèfesh) era la persona intera. È il corpo, dunque? Sì e no. Meglio dire che è la persona intera. Yeshùa ne illustrò bene il concetto quando disse: “Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; temete piuttosto colui che ha il potere di far perire e l’anima e il corpo nella Geenna” (Mt 10:28, CEI). Intanto si osservi che l’anima non è affatto immortale, perché Dio può farla perire. Comunque, per capire il concetto si noti la peggiore fine possibile evocata da Yeshùa: quella che anima e corpo sono fatti periti nella Geenna, simbolo della morte definitiva e senza ritorno. In contrasto con questa irrimediabile situazione, c’è l’altra: la sola morte del corpo. Il passo non va letto con in mente la dottrina postuma cattolica, estranea a tutta la Scrittura. Va letto invece nella prospettiva biblica: il giusto muore, ma ha la speranza della resurrezione. Noi diciamo spesso riguardo ad una persona cara che è morta: Vive ancora nel mio cuore. La stessa cosa vale per Dio, ma con la differenza che Dio può riportare in vita la persona ovvero un’anima nel senso biblico: non il corpo ormai decomposto e le cui molecole sono assorbite da altri elementi, ma la persona o, per dirla con la traduzione biblica, l’anima.

   Eternità della materia? “Certo, non aveva difficoltà la tua mano onnipotente, che aveva creato il mondo [κόσμον (kòsmon)] da una materia senza forma [ἐξ ἀμόρφου ὕλης (ecs amòrfu ǘles)]”, dice la Sapienza in 11:17. – CEI.

   Alcuni intendono questo passo come se Dio avesse tratto il creato da una materia caotica. I filosofi greci ammettevano che il mondo fosse stato tratto dal caos primordiale. Secondo questa veduta, all’inizio dei tempi oltre a Dio ci sarebbe stato anche il caos primitivo non creato.

   I cattolici in genere affermano che qui non si parla della creazione prima (Gn 1:1), ma della creazione seconda, quella su cui operò in seguito sulla materia menzionata in Gn 1:2: “La terra era informe e vuota”. La creazione di Dio avrebbe prima originato il caos: הָאָרֶץ הָיְתָה תֹהוּ וָבֹהוּ (haàretz haitàh tohù vavohù), “la terra era informe e vuota” (Gn 1:2). Il passo di Sapienza non parla di questa creazione prima, quella che era tohù vavohù, “informe e vuota” – dicono i cattolici -, ma parte da questa creazione già presente per operare la creazione seconda, creando “il mondo da una materia senza forma”. La Sapienza parlerebbe dunque di questo ordine posto nel caos.

   Altri studiosi danno una spiegazione diversa. In Gn 1 avremmo tre elementi creati da Dio e da cui egli avrebbe tratto l’universo: 1. Le tenebre, tolte con la creazione della luce; 2. L’acqua, poi separata; 3. La terra, lasciata intatta per ricevere l’abbellimento. Secondo costoro il tohù vavohù (“informe e vuota”) non indicherebbe il caos ma la terra mancante di “ornamento” (κόσμος, kòsmos, significa anche “ornamento”; da qui il nostro “cosmetica”). Anche la terra “informe” indicherebbe la mancanza di “ornamento”. Questa seconda spiegazione si adatta meglio al contesto del passo citato di Sapienza. Dio vuole punire i peccatori, e lo potrebbe fare in modo meraviglioso. Lui onnipotente, che ha saputo trarre l’ornamento dalla terra stessa, dalla materia che di tale ornamento era priva, può tuttora trarne animali strani e mostruosi, spiranti fuoco, che potrebbero punire i peccatori. Lo si legga nel contesto:

 

“Tu inviasti loro in castigo

una massa di animali senza ragione,

perché capissero che con quelle stesse cose

per cui uno pecca, con esse è poi castigato.

Certo, non aveva difficoltà la tua mano onnipotente,

che aveva creato il mondo da una materia senza forma,

a mandare loro una moltitudine di orsi e leoni feroci

o belve ignote, create apposta, piene di furore,

o sbuffanti un alito infuocato

o esalanti vapori pestiferi

o folgoranti con le terribili scintille degli occhi,

bestie di cui non solo l’assalto poteva sterminarli,

ma annientarli anche l’aspetto terrificante”. – 11:15-19, CEI.

 

   Dio, anche nella punizione, vuol mostrare la sua bontà e misericordia. Vuole tollerare pazientemente: “Hai compassione di tutti, perché tutto tu puoi, non guardi ai peccati degli uomini, in vista del pentimento”. – V. 23.

   Siamo quindi molto ma molto lontani dalla concezione filosofica di una materia non creata. Siamo invece vicini alla creazione come viene riferita da Genesi.