Qual era l’attitudine pratica di Yeshùa e degli apostoli verso la Sacra Scrittura al loro tempo, ovvero verso le Scritture Ebraiche?
Per noi credenti è molto importante conoscere ciò che pensarono Yeshùa e gli apostoli circa l’ispirazione biblica. Dobbiamo logicamente distinguere tra Scritture Ebraiche, già esistenti al tempo di Yeshùa e degli apostoli, e le Scritture Greche che, al contrario, erano in via di gestazione.
Yeshùa e i primi discepoli hanno accolto il complesso della Scrittura così come era stata trasmessa loro dagli ebrei. Luca, come già aveva fatto in antecedenza il libro apocrifo dei Maccabei, divise i libri sacri in tre gruppi, secondo le parole stesse di Yeshùa che egli riporta: Legge di Mosè, Profeti e Salmi (Lc 24:44). Questa suddivisione corrisponde alla divisione tuttora in uso presso gli ebrei: Toràh (Insegnamento o Legge), Neviìm (Profeti) e Ketuvìm (Altri Scritti); per i Ketuvìm Yeshùa cita i Salmi perché ne sono la parte più ampia. Tutti questi libri, non solo nel loro insieme, ma anche nelle singole parti, formano “la Scrittura” o “le Scritture”, vale a dire i libri per eccellenza. “Tutte le Scritture” (Lc 24:27); “Le Scritture” (Lc 24:32,45; Mt 21:42;22:29). Il termine “Scrittura” è anche usato per designare un singolo passo biblico. – Mr 12:10.
Yeshùa e gli apostoli nutrirono verso questi scritti la medesima stima fiduciosa degli ebrei, pur eliminandone le esagerazioni rabbiniche.
Il pensiero di Yeshùa
I contemporanei di Yeshùa ritenevano di avere la vita eterna mediante le Scritture e Yeshùa non corregge, anzi favorisce questo pensiero. Gv 5:39 è tradotto di solito: “Voi investigate le Scritture, perché pensate d’aver per mezzo di esse vita eterna, ed esse son quelle che rendono testimonianza di me”. Similmente TNM: “Voi scrutate le Scritture, perché pensate di avere per mezzo d’esse vita eterna”. Tuttavia è possibile un’altra traduzione: anziché prendere quello “scrutate” o “investigate” come un modo indicativo, può essere preso come modo imperativo (il verbo greco ha la stessa forma). Così avremmo:
ἐραυνᾶτε τὰς γραφάς, ὅτι ὑμεῖς δοκεῖτε ἐν αὐταῖς ζωὴν αἰώνιον ἔχειν
eraunàte tàs gràfas, òti ümèis dokèite en autàis zoèn aiònion èchein
scrutate le Scritture, dato che voi ritenete in esse vita eterna avere
Questa traduzione con l’imperativo è avvalorata dal fatto che “scrutate” (ἐραυνᾶτε, eraunàte) non ha il pronome “voi” (ὑμεῖς, ümèis) che NR e TNM aggiungono, e che invece si trova nella frase seguente. Quindi sarebbe: “Scrutate le Scritture!, dato che voi pensate di avere in esse la vita eterna”.
Ecco di seguito alcuni princìpi che denotano il grande valore dato da Yeshùa alle Sacre Scritture:
Yeshùa è venuto non per abolire, ma per compiere la Sacra Scrittura. Egli realizza le Scritture Ebraiche in modo così perfetto che nemmeno uno iota o un apice sarebbe rimasto senza avveramento: “Non pensate che io sia venuto a distruggere la Legge o i Profeti. Non sono venuto a distruggere, ma ad adempiere; poiché veramente vi dico che il cielo e la terra passeranno piuttosto che una minima lettera o una particella di lettera passi in alcun modo dalla Legge senza che tutte le cose siano avvenute” (Mt 5:17,18, TNM). Quello che TNM traduce liberamente (ma correttamente) “minima lettera” è nel testo greco “iota” (la più piccola lettera dell’alfabeto greco, corrispondente alla yòd dell’alfabeto aramaico); e quello che è tradotto liberamente (ma sempre correttamente) “una particella di lettera” e nel testo greco “apice” (piccolo ornamento delle lettere). Ecco uno yòd (י) degli apici:
Il passo citato ad esempio recita: et-mitzotàyu shemòr, “Osserva i comandamenti di Lui [di Dio]” (Ec 12:13). Lo yòd (י) è stato evidenziato in viola; esempi di apici li troviamo nei piccoli ornamenti delle lettere evidenziati in rosso.
Sebbene le parole di Yeshùa vengano normalmente tradotte: “Non sono venuto a distruggere, ma ad adempiere” (Mt 5:17, TNM), il senso greco è un altro. Vediamo il passo:
οὐκ ἦλθον καταλῦσαι ἀλλὰ πληρῶσαι
uk èlthon katalΰsai allà pleròsai
Pleròsai (πληρῶσαι) non significa semplicemente “adempiere”. Il verbo è πληρόω (plêròo), numero Strong 4137, e significa: 1) rendere pieno, riempire, cioè riempire completamente; 2) fare abbondare, fornire o provvedere generosamente; 3) rendere pieno, cioè completare; 4) riempire fino alla cima: affinché non manchi niente, riempire fino all’orlo; 5) rendere completo in ogni cosa, rendere perfetto; 6) fare fino alla fine, compiere, eseguire (qualche compito); 7) portare a realizzazione, realizzare; 8) adempiere, cioè fare sì che la volontà di Dio (come rivelata nella legge) sia ubbidita come dovrebbe essere.
Non significa quindi che Yeshùa sia venuto semplicemente ad adempiere nel senso di avverare delle profezie così che poi, essendo compiute, siano messe da parte. Questa è la veduta di coloro che ritengono che la santa Toràh di Dio sia solo un insieme di prefigurazioni che Yeshùa avrebbe appunto “adempiuto”. Ci sono perfino coloro che ritengono “adempiuti” i dieci comandamenti. Che senso avrebbe mai “adempiere” la Toràh per poi abrogarla? Yeshùa invece dice: “Non crediate che io sia venuto ad abrogare la Legge o i Profeti. Non sono venuto ad abrogare, ma a perfezionare; infatti, veramente vi dico: finché passi il cielo e la terra, non passerà affatto uno yòd o un apice dalla Legge finché tutte le cose avvengano”. Vuol dire che egli non solo attuerà le Scritture Ebraiche, ma le condurrà alla sua perfezione. Questo è ancor più evidente da quello che Yeshùa disse in pratica sui comandamenti subito dopo. Ad esempio: “Avete udito che fu detto: «Non devi commettere adulterio». Ma io vi dico che chiunque continua a guardare una donna in modo da provare passione per lei ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore” (vv. 27,28, TNM). Non si trattava quindi di “adempiere” per poi abrogare, nient’affatto. Yeshùa diede per così dire un giro di vite. Rese la Toràh più completa, più piena, la completò esponendone il modo applicativo. Non si trattava più semplicemente di fare o di non fare (“opere della Legge”), ma si trattava di fare o di non fare con la purezza delle intenzioni (“Legge della fede”).
Questo punto è di un’importanza capitale. Da questo dipende l’ubbidire o il disubbidire a Dio. Occorre capire bene le parole di Yeshùa.
Yeshùa compie o adempie anche le profezie delle Scritture Ebraiche. La profezia isaiana sulla predicazione ai poveri accompagnata da miracoli messianici si compie in lui (Lc 4:18,sgg.; Mt 11:5; cfr. Is 61:1,sgg.). Yeshùa va a Gerusalemme perché là devono attuarsi gli eventi preannunciati dai profeti circa il figlio dell’uomo: “Prese con sé i dodici, e disse loro: «Ecco, noi saliamo a Gerusalemme, e saranno compiute riguardo al Figlio dell’uomo tutte le cose scritte dai profeti»” (Lc 18:31). Le ultime parole di Yeshùa sulla croce furono: “È compiuto”, vale a dire: ormai si è avverato tutto quello che gli antichi profeti avevano predetto (Gv 19:30), poiché la Sacra Scrittura non può essere annullata (Gv 10:35). Chi non crede a Mosè non può credere nemmeno a Yeshùa. – Gv 5:47.
Gli evangelisti, specialmente Matteo, riferiscono con meticolosità i vari detti profetici che si sono adempiuti in Yeshùa: dalla sua concezione da una vergine (Mt 1:23; cfr. Is 7:14), all’andata in Egitto (Mt 2:15; cfr. Os 11:1), al tradimento di Giuda (Mt 27:9; cfr. Zc 11:12 e sgg.), al sorteggio della sua tunica (Gv 19:24; cfr. Sl 22:18), alla trafittura del suo costato. – Gv 19:38; cfr. Zc 12:10.
Yeshùa adopera la Bibbia nelle sue discussioni per rimuovere gli errori e per insegnare come si debba vivere in armonia con Dio. Yeshùa usa la Bibbia contro satana che lo tenta, ribattendo ai suoi ragionamenti tratti talora dalla Bibbia, con altre citazioni bibliche (Mt 4:4, cfr. Dt 8:3; Mt 4:6, cfr. Sl 91:11 e sgg.; Mt 4:6, cfr. Dt 6:16; Mt 4:10, cfr. Dt 6:13). La usa nelle discussioni teologiche con i farisei: accusato di bestemmia perché si farebbe uguale a Dio, Yeshùa ribatte con una citazione del Salmo nel quale si legge: “Voi siete dèi” (Gv 10:34, cfr. Sl 82:6). “La Scrittura” – aggiunge Yeshùa – “non può essere annullata” (Gv 10:35). Contro la facilità del divorzio ebraico Yeshùa richiama il detto della Toràh: “L’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e saranno una stessa carne” (Mt 19:1-6; Gn 2:24). Per dimostrare la resurrezione ricorre al passo biblico in cui Dio è detto “Dio di Abraamo, di Isacco e di Giacobbe”, al quale aggiunge: “Egli non è il Dio dei morti, ma dei vivi” (Mt 22:32 da Es 3:6). Per comprendere l’uso di questo passo va ricordato che i sadducei riconoscevano solo il valore del Pentateuco (quindi Yeshùa doveva ricorrere ad esso) e che a quel tempo gli scritti apocrifi non ponevano Abraamo e i patriarchi nello sheòl, ma nel “paradiso”, luogo più vicino a Dio, fuori dal soggiorno comune dei morti (Lc 23:43). Anche Luca parlando del povero Lazzaro che muore, non lo fa scendere nell’àdes assieme al ricco epulone, ma lo pone in alto nel seno di Abramo. Se essi sono già vivi, è logico che dev’esserci una resurrezione, perché gli ebrei non concepivano l’esistenza di un individuo senza un corpo che lo rendesse visibile e operante.
Anche per dedurre la condotta morale Yeshùa richiama le Sacre Scritture. Quando gli si domanda ciò che è necessario per la vita eterna, egli rimanda l’interpellante alla Scrittura: “Nella legge che cosa sta scritto? Come leggi?” (Lc 10:26). E alla risposta, nella quale si sottolinea l’amore di Dio (Dt 6:5) e del prossimo (Lv 19:18), conclude: “Fa’ questo, e vivrai” (Lc 10:25-29). Un’altra volta lo stesso Yeshùa richiamò i medesimi passi biblici per indicarli come il perno da cui dipendono tutta la Legge e i Profeti. – Mt 22:34-40.
Yeshùa afferma che l’errore proviene dall’ignoranza delle Sacre Scritture, le quali sono di conseguenza un mezzo per fugare l’errore e stabilire la verità. Quando gli si domandò per scherno a chi sarebbe dovuta andare nella resurrezione dei morti una donna appartenuta a più mariti, Yeshùa rispose: “Voi errate, perché non conoscete le Scritture, né la potenza di Dio. Perché alla risurrezione non si prende né si dà moglie; ma i risorti sono come angeli nei cieli”. – Mt 22:29,30.
La Scrittura ha un grande valore perché per mezzo suo è Dio che ci parla. Per dimostrare la superiorità del Cristo su Davide, Yeshùa ricorda che “Davide, ispirato dallo Spirito, lo chiama Signore, dicendo: «Il Signore ha detto al mio Signore: Siedi alla mia destra»” (Mt 22:43,44 da Sl 110:1). Dunque è lo spirito santo che parla nella Sacra Scrittura. – Cfr. anche Mr 12:36 da 2Sam 23:2.
Bisogna quindi stare bene attenti a non annullare con tradizioni umane “la parola di Dio” (τὸν λόγον τοῦ θεοῦ, ton lògon tu theù) come facevano gli ebrei: “Annullando così la parola di Dio con la tradizione che voi vi siete tramandata”. – Mr 7:13.
L’insegnamento degli apostoli
Gli apostoli meritano il massimo rispetto sia perché ad essi fu dato di conoscere il mistero di Dio (Mr 4:11), sia perché furono guidati dallo spirito santo in tutta la verità (Gv 16:13). Gli apostoli usarono la Sacra Scrittura (Scritture Ebraiche) per suffragare il loro insegnamento dottrinale e morale.
Insegnamenti. Per insegnare che la giustificazione viene dalla fede e non dalle opere legalistiche, Paolo cita più volte il passo di Abacuc: “Il giusto per la sua fede vivrà” (Ab 2:4 citato in Rm 1:17; Gal 3:11; Eb 10:38). Secondo il metodo rabbinico, spesso insistono su di una semplice parolina, come il “seme” di Abraamo al singolare per sottolineare che la Scrittura parlava di Cristo e non di tutta la sua discendenza (Gal 3:16 da Gn 13:15;17:8). Per dedurre l’annullamento della Legge cerimoniale antica Paolo insiste sull’aggettivo “nuovo” presentato da Geremia (Eb 8:8-13 da Ger 31:31). Per sottolineare la gratuità della giustificazione, l’apostolo insiste sulle parole “Egli [Dio] glielo attribuiva a giustizia”. – Gn 15:6, TNM, in Rm 4:3-5.
Norme morali. Anche per la vita morale gli apostoli addussero di continuo suggerimenti tratti dalle Scritture Ebraiche, considerandole un’autorità ineccepibile. Per spingere i credenti a separarsi dal mondo, Paolo cita i due passi biblici: “Uscite di mezzo a loro e separatevene, dice il Signore” e “Sarò per voi come un padre e voi sarete come figli e figlie, dice il Signore”, che sono tratti rispettivamente da Isaia e da Geremia (2Cor 6:17 da Is 52:11 e da Ger 31:1,9). Per suggerire la necessità di perdonare e di vincere il male con il bene, Paolo (in Rm 12:19-21) ricorda l’obbligo di dar da mangiare al nemico (Pr 25:21 e sgg.) e di lasciare la vendetta a Dio (Dt 32:35). Per mostrare l’urgenza del ravvedimento e la necessità di ascoltare la divina chiamata, l’autore della lettera agli ebrei commenta una frase biblica: “Come dice lo Spirito Santo: «Oggi, se udite la sua voce, non indurite i vostri cuori»” (Eb 3:7,8 da Sl 95:7-9). Si noti la frase: “Come dice lo spirito santo”. Per inculcare la necessità di sostenere con il proprio contributo gli “anziani” (ossia i “vescovi”), Paolo cita il comando della Toràh trasmessa da Mosè: “Non metterai la museruola al bue che trebbia il grano” (Dt 25:4). E l’apostolo commenta: “Forse che Dio si dà pensiero dei buoi?” 1Cor 9:9. È sempre di Paolo la frase: “La Scrittura dice” (1Tm 5:18). Gli apostoli, pur essendo “popolani senza istruzione” (At 4:13; “illetterati e comuni”, TNM; greco: ἀγράμματοί καὶ ἰδιῶται, agràmmatoi kài idiòtai), di fatto conoscevano la Scrittura alla quale si rifacevano di continuo e della quale citavano quasi tutti i libri ad eccezione di quattro perché non ne capitò l’occasione (vale a dire Esdra, Neemia, Ecclesiaste e Cantico). Non è quindi possibile comprendere bene le Scritture Greche se non si conoscono le Scritture Ebraiche del cui spirito sono imbevuti tutti gli scritti apostolici. Non è affatto vero il pensiero comune che “l’Antico Testamento si comprende alla luce del Nuovo”. È vero esattamente il contrario: le Scritture Greche si comprendono alla luce delle Scritture Ebraiche.
La Sacra Scrittura è parola di Dio e i suoi scrittori sono dei profeti. È Dio stesso che ci parla attraverso le pagine della Scrittura. In Eb 1:5-14 varie citazioni sono presentate con: “[Dio (o lo spirito santo di Dio)] dice”. Anche la citazione: “Abiterò e camminerò in mezzo a loro, sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo” è presentata con “disse Dio:” (2Cor 6:16 da Es 29:45, Lv 26:12, Ger 21:33). La Scrittura è il mezzo con cui lo spirito santo di Dio continuamente ci parla: “Lo Spirito Santo ce ne rende testimonianza”. – Eb 10:15-17 da Ger 31:33,34.
Talora la Sacra Scrittura è personificata e resa uguale a Dio: “La Scrittura, vedendo in anticipo che Dio avrebbe dichiarato giuste persone delle nazioni a motivo della fede, dichiarò in precedenza la buona notizia ad Abraamo” (Gal 3:8, TNM). In realtà fu Dio e non la Scrittura che profetizzò ad Abramo la benedizione delle nazioni per mezzo suo: “Certamente [io, Dio] benedirò quelli che ti benediranno, e maledirò colui che invocherà su di te il male, e tutte le famiglie del suolo certamente si benediranno per mezzo di te” (Gn 12:3, TNM). “La Scrittura ha consegnato ogni cosa alla custodia del peccato” (Gal 3:22). Ovviamente fu Dio a farlo. È la Scrittura che dice al faraone di averlo suscitato per mostrare la potenza di Dio: “La Scrittura dice a Faraone: «Proprio per questo ti ho lasciato rimanere, affinché riguardo a te io mostri la mia potenza e perché il mio nome sia dichiarato in tutta la terra»” (Rm 9:17, TNM; cfr. Es 9:16). In realtà fu il profeta Mosè che così parlò a nome di Dio; ma siccome la Scrittura è il libro che contiene quelle parole divine, si può affermare che essa stessa parlò al faraone.
La teoria
Tre passi delle Scritture Greche mostrano il pensiero degli apostoli circa l’ispirazione delle Scritture Ebraiche: 1Pt 1:10-12, 2Pt 1:19-21 e 2Tim 3:16.
1 – Pietro. Nei profeti parlò lo spirito santo: “Intorno a questa salvezza indagarono e fecero ricerche i profeti, che profetizzarono sulla grazia a voi destinata. Essi cercavano di sapere l’epoca e le circostanze cui faceva riferimento lo Spirito di Cristo che era in loro, quando anticipatamente testimoniava delle sofferenze di Cristo e delle glorie che dovevano seguirle. E fu loro rivelato che non per sé stessi, ma per voi, amministravano quelle cose che ora vi sono state annunziate da coloro che vi hanno predicato il vangelo, mediante lo Spirito Santo inviato dal cielo: cose nelle quali gli angeli bramano penetrare con i loro sguardi” (1Pt 1:10-12). Queste parole non si possono restringere ai soli testi profetici propriamente messianici, in quanto tutte le Scritture Ebraiche erano globalmente ritenute una profezia e una preparazione al messia. Esse erano un pedagogo che conduceva a Yeshùa (Gal 3:24). Non fu per intuizione personale che i profeti parlarono del messia, ma in loro parlò lo stesso spirito del Cristo “che era in loro”. Non che esista uno “spirito” di Yeshùa come lo spirito santo per Dio, no, ma si trattata dello spirito o senso o significato relativo a Yeshùa. Per dirla con le parole di Apocalisse: “Il rendere testimonianza a Gesù è ciò che ispira la profezia” (19:10, TNM). Siccome gli scritti dei profeti contengono le profezie da loro emesse oralmente sotto l’impulso divino, ne viene che pur essi indirettamente sono ispirati, sono frutto del medesimo spirito. Tali profezie furono composte non a vantaggio dei profeti, bensì dei credenti in Yeshùa che così possono vedere realizzato in lui quanto quelle profezie preannunciavano.
2 – La profezia biblica è un faro per i credenti perché proviene dallo spirito santo. Dopo aver ricordato la trasfigurazione cui l’autore della seconda lettera di Pietro era stato presente (Pietro stesso), egli rinvia il lettore ad una lampada ancora più splendente capace di illuminare il cammino. Infatti, tale profezia non proviene da pura ricerca umana, bensì da ispirazione divina. Ecco il passo: “Abbiamo inoltre la parola profetica più salda: farete bene a prestarle attenzione, come a una lampada splendente in luogo oscuro, fino a quando spunti il giorno e la stella mattutina sorga nei vostri cuori. Sappiate prima di tutto questo: che nessuna profezia della Scrittura proviene da un’interpretazione personale; infatti nessuna profezia venne mai dalla volontà dell’uomo, ma degli uomini hanno parlato da parte di Dio, perché sospinti dallo Spirito Santo”. – 2Pt 1:19-21.
A. Questione critica. Il v. 21 ci presenta diverse lezioni delle quali occorre scegliere la migliore. Esse sono:
ἀπὸ θεοῦ ἄνθρωποι (apò theù ànthropoi), “da parte di Dio uomini [parlarono]”. – P 72, B, P.
ἅγιοι θεοῦ ἄνθρωποι (àghioi theù ànthropoi), “santi di Dio uomini”. – C.
ἅγιοι ἀπὸ θεοῦ ἄνθρωποι (àghioi apò theù ànthropoi), “santi da parte di Dio uomini”. È una combinazione delle due precedenti: “Santi uomini da parte di Dio”. – Sin, K, Beda, Vg.
Il senso fondamentale, come si vede, non muta; possiamo escludere la terza lezione che proviene dall’armonizzazione delle altre due. Sembra più probabile la prima che può spiegare l’origine della seconda per la confusione delle lettere greche originarie scritte in maiuscolo:
ΑΠΟ (APO)
fu letto male come se fosse:
ΑΓΙΟ (AGHIO)
Ad ΑΓΙΟ (AGIO, pronuncia: àghio) fu poi aggiunto uno iota (I) per farlo concordare con il sostantivo plurale ἄνθρωποι (ànthropoi). Anche se talora il profeta è detto “santo” (àghios, cfr. At 3:21) in quanto partecipa alla sacralità divina ed è separato (è questo il significato di “santo”) dagli altri uomini non profeti, è preferibile la preposizione “da” (apò) che meglio si accorda con il contesto del passo.
B. Il senso del passo. Si oppongono due diverse interpretazioni del vocabolo greco tradotto “interpretazione” (“Nessuna profezia della Scrittura sorge da privata interpretazione”, v. 20, TNM). La parola greca è ἐπιλύσεως (epilΰseos), genitivo di ἐπίλυσις (epìlüsis) che letteralmente significa “soluzione di una difficoltà; dipanare un complesso problema, spiegazione, esposizione”. Siccome la parola può riferirsi tanto al profeta quanto al lettore, si può tradurre con “deduzione” o “interpretazione”.
- Il lettore. Siccome il profeta ha parlato sospinto dallo spirito santo, ne viene che la sua parola non può essere lasciata all’interpretazione privata, ci vuole un’interpretazione guidata dallo spirito santo. Questa è l’interpretazione favorita da molti cattolici che vogliono vedervi la necessità della guida della Chiesa per capire la Bibbia (Fillion, Sales, Merk, Chaine). Tale ipotesi non regge perché qui Pietro sta parlando dell’origine, del sorgere della profezia: “Nessuna profezia della Scrittura proviene [γίνεται, ghìnetai] da […]” (v. 21). TNM perde questa importante sfumatura traducendo male quel ghìnetai: “La profezia non fu mai recata”. Si tratta quindi dell’origine della profezia e non della sua lettura e interpretazione. Tanto è vero che poi si continua al versetto seguente spiegando che i profeti hanno parlato perché sospinti dallo spirito santo. Di più, se Pietro avesse voluto insegnare che nessun lettore può capire con la propria intelligenza la profezia, avrebbe dovuto indicare dove si sarebbe potuta attingere la genuina interpretazione e additare quindi al lettore il magistero della chiesa di allora (apostoli e vescovi). Invece nulla dice di tutto ciò, anzi in seguito, quando parla di errori biblici, afferma che essi sono dovuti all’ignoranza del lettore che va eliminata dalla stessa persona con lo studio (togliere l’ignoranza) e con la fede (eliminare l’instabilità) senza alcun bisogno di un magistero specifico. Inoltre, l’ipotesi sembra anche contraddire quanto afferma l’apostolo all’inizio (v. 19): se la profezia non può essere compresa dal lettore, allora non è più “una lampada ancora più splendente capace di illuminare il cammino”. Occorre quindi ricercare un’altra soluzione.
- Le parole di Pietro riguardano il profeta. La profezia non deriva da indagine personale, da deduzione umana, da iniziativa individuale, bensì da illuminazione dello spirito santo. È quanto affermava già Beda (morto nel 735) nel commento a questo passo: “Nessuno dei santi profeti predicò i dogmi della vita con una sua propria interpretazione, ma ciò che Dio aveva detto, raccomandò di farlo ai suoi servitori”.
I profeti ispirati erano “mossi” dallo spirito santo (v. 21), vale a dire “sospinti” (φερόμενοι, feròmenoi), condotti da esso come una nave è sospinta dal vento (cfr. At 27:15). Il paragone non è improprio: in ebraico la parola “spirito” significa “vento”.
Il risultato di questo “essere sospinti” fu il fatto che quelli parlarono da parte di Dio (apò Theù). Quindi la loro parola era parola di Dio e al tempo stesso rivelazione per coloro che li ascoltavano. Il fatto che “parlarono” significa che furono uomini reali, non solo strumenti passivi come alcuni cosiddetti Padri della Chiesa e alcuni teologi della post-riforma pensarono, difendendo una ispirazione puramente meccanica. I profeti furono persone viventi, personalmente attive in tutto il processo del loro parlare. Lo scrivere è pur esso un parlare, un profetizzare, come risulta da Lc 1:63: “Egli [Zaccaria], chiesta una tavoletta, scrisse”.
Quindi il processo dell’ispirazione riguarda in modo speciale la predicazione. Tuttavia, siccome Pietro invita i suoi lettori a consultare questa “parola profetica” che allora giaceva depositata nello scritto, significa che anche lo scritto ha il medesimo valore della parola orale. Non vi è quindi distinzione per noi tra la predicazione profetica e il libro che la contiene. Il passo di Pietro riguarda evidentemente le Scritture Ebraiche, che erano ritenute tutte una profezia: “Queste cose avvennero loro per servire da esempio e sono state scritte per ammonire noi, che ci troviamo nella fase conclusiva delle epoche” (1Cor 10:11). Tuttavia, può valere anche per le Scritture Greche perché più avanti Pietro vi affianca le lettere di Paolo, paragonate pure esse alla Sacra Scrittura: “Anche il nostro caro fratello Paolo vi ha scritto, secondo la sapienza che gli è stata data; e questo egli fa in tutte le sue lettere, in cui tratta di questi argomenti. In esse ci sono alcune cose difficili a capirsi, che gli uomini ignoranti e instabili travisano a loro perdizione come anche le altre Scritture”. – 2Pt 3:15,16.
In conclusione possiamo asserire che i profeti furono strumenti assunti da Dio per insegnare agli uomini. Il loro ammaestramento è quindi sempre alla portata di tutti, perché è contenuto nella Sacra Scrittura. A questa, che è tuttora accessibile, possono riferirsi i credenti che non erano presenti alla trasfigurazione di Yeshùa. La Bibbia è quindi più importante di questo evento perché tale miracolo fu visibile solo a tre apostoli, mentre la Sacra Scrittura è sempre alla portata di tutti.
3 – Paolo a Timoteo. Scrivendo al suo discepolo ed evangelista Timoteo, Paolo gli raccomanda di attenersi alla dottrina appresa da lui e all’insegnamento delle Sacre Lettere, che egli aveva conosciuto sin dall’infanzia mediante la madre Eunice, una donna giudea credente: “Timoteo, figlio di una donna ebrea credente” (At 16:1). Anche la nonna di Timoteo, nonna Loide, madre di Eunice, era ebrea credente e tutte e due erano divenute discepole di Yeshùa: “Ricordo infatti la fede sincera che è in te, la quale abitò prima in tua nonna Loide e in tua madre Eunice” (2Tim 1:5). Paolo scrive a Timoteo: “Tu, comunque, rimani nelle cose che hai imparato e sei stato persuaso a credere, sapendo da quali persone le hai imparate e che dall’infanzia hai conosciuto gli scritti sacri, che possono renderti saggio per la salvezza per mezzo della fede riguardo a Cristo Gesù. Tutta la Scrittura è ispirata da Dio e utile per insegnare, per riprendere, per correggere, per disciplinare nella giustizia, affinché l’uomo di Dio sia pienamente competente, del tutto preparato per ogni opera buona” (2Tm 3:14-17, TNM). Ciò che è tradotto “gli scritti sacri” (v. 15) è, in verità, nel greco ἱερὰ γράμματα (ierà gràmmata): “sacre lettere”. Paolo ritiene sacre perfino le singole lettere che compongono le parole della Scrittura. Queste Scritture possono rendere “saggio per la salvezza per mezzo della fede riguardo a Cristo Gesù”. Non è sufficiente conoscere bene le Scritture come le conoscono molti critici delle religioni: occorre aggiungervi anche la fede in Yeshùa.
- “Tutta la Scrittura” (v. 16) è nel testo greco πᾶσα γραφὴ (pàsa grafè), senza l’articolo: “Tutta Scrittura”. Ciò non indica la Scrittura nel suo insieme, nella sua totalità, bensì ogni singola parte, ogni singolo enunciato appartenente alla Scrittura. Infatti, Paolo parla addirittura di “sacre lettere”. Ci si riferisce ancora alle Scritture Ebraiche, la cui conoscenza deve però essere integrata dalla fede in Yeshùa perché possa salvare.
- “Tutta la Scrittura è ispirata” (v. 16). Questa la traduzione italiana, ma il greco manca della copula: πᾶσα γραφὴ θεόπνευστος (pàsa grafè theòpneustos), “tutta scrittura ispirata”. Sorge quindi il problema se questo verbo debba essere introdotto prima o dopo l’aggettivo “ispirata”, che può quindi divenire attributo o predicato nominale, come appare dalle due seguenti traduzioni possibili:
“Tutta la Scrittura è ispirata da Dio e utile per […]”
“Tutta la Scrittura ispirata da Dio è anche utile per […]”
Il senso non cambia di molto benché nel primo caso si affermi direttamente l’ispirazione della Scrittura e nel secondo, supponendola già ammessa, se ne dichiari l’utilità catechetica. Tuttavia dalla congiunzione “e” che precede “utile” è preferibile la prima interpretazione: “Tutta la Scrittura è ispirata da Dio e utile per […]”. Altrimenti occorrerebbe dare alla congiunzione “e” (καὶ, kài) il senso di “anche”, ma sarebbe un “anche” rispetto a cosa? Meglio tradurre: “Tutta la Scrittura è ispirata da Dio e utile”. Se ne enuncia una caratteristica. Così come in Rm 15:4 si enunciano altre caratteristiche della Scrittura: “Tutto ciò che fu scritto nel passato, fu scritto per nostra istruzione, affinché mediante la pazienza e la consolazione che ci provengono dalle Scritture, conserviamo la speranza”.
- “Ispirata” traduce il greco θεόπνευστος (theòpneustos), composto da pnéo (“soffiare”), da pnèuma (“spirito”, “alito”, “soffio”) e da theòs (“Dio”). La parola greca può avere due sensi a seconda che l’accento sia sul primo o sul secondo elemento da cui è composta la parola, ricordando che la parte accentata è attiva e la non accentata è passiva.
- Senso attivo (Dio è oggetto). La Bibbia è ispirata in quanto ci ispira Dio (theopnéustos). Ci suggerisce pensieri divini, sentimenti di pietà. Questa traduzione, pur essendo possibile, va però contro al senso comune dei vocaboli in cui ricorre il nome “Dio” che usualmente è attivo e non passivo come qui si vorrebbe: théodotos significa “Dio dona”; théopempos equivale a “Dio invia”; théoplastos, “plasmato da Dio” (Dio forma). È quindi più che probabile la traduzione “ispirata” (Dio ispira, non ‘Dio è ispirato dalla Bibbia’).
- Senso passivo (la Bibbia è ispirata). Tale senso meglio corrisponde al senso usuale dell’aggettivo théopneustos presso i classici del 1° secolo E. V.. “I sogni, che sono ispirati da Dio, si avverano necessariamente”. – Plutarco, De placitis philosophorum 5, 2a Diehl II, 904.
Secondo gli Oracoli Sibillini le sorgenti termali, che allora erano ritenute provocate dal soffio divino, sono dette théopneustoi (Sib. 5,307); anche gli uomini sono “ispirati da Dio” in quanto hanno ricevuto il soffio, l’alito divino (Orac. Sib. 5,405). Il senso passivo si adegua meglio con tutto l’insegnamento biblico, il quale ci presenta il profeta come una persona mossa da Dio e da lui ispirata (cfr. 1Pt 1:21; Eb 1:1). La Scrittura ha quindi un’origine divina perché lo scrittore umano fu mosso a scriverla dallo spirito di Dio.
Scritture Greche
Se i libri delle Scritture Ebraiche, essendo scritti profetici, sono ispirati, a maggior ragione lo sono quelli delle Scritture Greche, composti in gran parte da apostoli (o approvati da loro) che sono i profeti per eccellenza: “Siete stati edificati sul fondamento degli apostoli e dei profeti, essendo Cristo Gesù stesso la pietra angolare” (Ef 2:20). Gli apostoli, presentati come “ambasciatori di Dio” (2Cor 5:20), per ben attuare la loro missione furono guidati e sorretti dallo spirito santo (Gv 14:16,26;15:26; At 1:8; 1Pt 1:12). Il dono dello spirito posseduto dagli apostoli – che erano di numero superiore a dodici (i Dodici erano tutti apostoli, ma non tutti gli apostoli facevano parte dei Dodici, come Paolo) – li rendeva la prima categoria dei carismatici, ossia delle persone dotate di spirito santo: “È lui che ha dato alcuni come apostoli, altri come profeti, altri come evangelisti, altri come pastori e dottori” (Ef 4:11); “Dio ha posto nella chiesa in primo luogo degli apostoli, in secondo luogo dei profeti, in terzo luogo dei dottori” (1Cor 2:28). La loro parola doveva quindi essere accolta “non come parola di uomini, ma, quale essa è veramente, come parola di Dio, la quale opera efficacemente in voi che credete”. – 1Ts 2:13.
Paolo era intimamente convinto che Yeshùa parlasse in lui: “Voi siete una lettera di Cristo, scritta mediante il nostro servizio, scritta non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente” (2Cor 3:3). Egli diceva che bisognava “ritenete gli insegnamenti” che egli aveva “trasmessi sia con la parola” sia con una “lettera”. – 2Ts 2:15.
Dati questi precedenti, venne accolto dalla chiesa o congregazione come ispirato ogni scritto composto da un apostolo. Paolo, ad esempio, cita sotto il nome di Scritture tanto un passo del Deuteronomio quanto un brano del vangelo di Luca. Egli, infatti, scrive che occorre dare un doppio onorario agli anziani che tengono bene la presidenza. Il passo è tradotto così da TNM: “Gli anziani che presiedono in modo eccellente siano ritenuti degni di doppio onore, specialmente quelli che faticano nel parlare e insegnare. Poiché la scrittura dice: «Non devi mettere la museruola al toro quando trebbia il grano»; e: «L’operaio è degno del suo salario»” (1Tim 5:17,18, TNM). Tuttavia, qui l’“onore” non c’entra nulla. La parola greca usata (τιμή, timè), numero Strong 5092, non indica solo “onore” o “deferenza”, ma – come primo significato – “un valutare con cui il prezzo è fissato”, “prezzo pagato per una persona”. Che questo sia il significato da applicare è evidente dal contesto, dato che Paolo richiama due brani biblici relativi alla ricompensa per il lavoro: “Non devi mettere la museruola al toro mentre trebbia” (Dt 25:4, TNM) e: “L’operaio è degno del suo salario” (Lc 10:7, TNM). Il passo va quindi tradotto: “Gli anziani che presiedono in modo eccellente siano ritenuti degni di doppio onorario”. Si noti qui come Paolo citi – alla pari – due brani biblici: Dt e Lc.
Circa venti anni prima Paolo citava tale detto solo in modo allusivo: “Non abbiamo forse il diritto di mangiare e di bere?” (1Cor 9:4; “diritto”, non “autorità” come in TNM: che c’entra mai l’autorità qui?). Ma ora, verso il 64 E. V., esistendo già il Vangelo scritto di Luca o almeno una sua fonte, lo cita unitamente al brano tratto dalle Scritture Ebraiche.
Pietro conosce l’esistenza di una raccolta di lettere paoline che alcuni contorcono e la parifica agli altri scritti sacri: “Considerate che la pazienza del nostro Signore è per la vostra salvezza, come anche il nostro caro fratello Paolo vi ha scritto, secondo la sapienza che gli è stata data; e questo egli fa in tutte le sue lettere, in cui tratta di questi argomenti. In esse ci sono alcune cose difficili a capirsi, che gli uomini ignoranti e instabili travisano a loro perdizione come anche le altre Scritture”. – 2Pt 3:15,16.
Anche il libro dell’Apocalisse (Rivelazione) si presenta come una “profezia”: “Beato chi legge e beati quelli che ascoltano le parole di questa profezia” (Ap 1:3; cfr. 1:11,19). Bisogna serbare le parole di questa profezia (22:6,7,9) senza nulla togliervi o aggiungervi (22:18 e sgg.). Chiunque accoglie il Cristo con fede e ne accetta la presentazione che di lui dettero i suoi testimoni oculari, gli apostoli, deve essere sicuro che lo spirito santo, sceso su di loro per guidarli, li ha pure guidati non solo nel parlare, ma anche nello scrivere dei libri che sarebbero rimasti a base della vita dei discepoli di Yeshùa.