È evidente che una certa “sapienza” ha accompagnato il popolo ebraico, ma essa ebbe uno sviluppo più notevole all’epoca dei re, quando subì l’influsso di simili composizioni estere (egizie). È noto il rapporto assai stretto tra la sapienza egizia di Amenemope e il libro dei Proverbi (cap. 22). A noi interessano qui solo alcune caratteristiche di questo genere letterario:

  • La “sapienza” è d’indole estremamente pratica, non intellettuale, e consiglia il modo migliore con cui comportarsi nelle varie attività umane, per non esserne danneggiati e per ricavarne più frutto. È quindi inesatto, dalle affermazioni sapienziali, voler dedurre considerazioni teologiche circa la “sapienza” che vive presso Dio e vederci un preannunzio trinitario o la preesistenza di Yeshùa. Questo è il classico errore di chi, non conoscendo i generi letterari della Scrittura, legge il testo sacro alla lettera.

Gli ebrei non amavano la speculazione, essendo gente molto pratica. La sapienza del capitolo 8 di Proverbi vuol solo dire che Dio ha creato ogni cosa saggiamente e che di conseguenza quello che egli ha attuato era assai buono (Gn 1). È la mente occidentale (che prende la Bibbia alla lettera) che non comprende il genere letterario. La “sapienza” personificata parla in prima persona. Si parla della sapienza come qualità. Voler speculare, come fanno i Testimoni di Geova, sulle parole del versetto tradotto, denota un approccio occidentale estraneo alla Scrittura e denota ignoranza del genere letterario. TNM così traduce: “Geova stesso mi produsse come il principio della sua via, la prima delle sue imprese di molto tempo fa” (Pr 8:22, TNM). Il ragionamento, tutto occidentale (per non dire all’americana) è questo: “La sapienza qui descritta fu ‘prodotta’, o creata, come principio della via di Geova. Geova Dio è sempre esistito ed è sempre stato sapiente. (Salmo 90:1, 2) La sua sapienza non ebbe un principio; non fu né creata né prodotta. Non fu ‘data alla luce come con dolori di parto’. Inoltre, di questa sapienza viene detto che parla ed agisce, per cui è una persona” (La Torre di Guardia del 1° agosto 2006, pag. 31). L’ultima dichiarazione è talmente insensata che non meriterebbe neppure considerazione. Nella Bibbia leggiamo di alberi che battono le mani e di montagne che prorompono in grida di gioia: sono forse persone? Vediamo di chiarire una volta per tutte cos’è, cosa significa e cosa implica la “sapienza” di Pr 8.

Ai versetti 1-3 di Pr 8 si dice che la sapienza chiama e grida forte e che essa si trova sui monti, per le vie, agli incroci stradali, agli stipiti degli usci, alle porte della città. Tutti capiscono (o dovrebbero capire) che si tratta semplicemente di un genere letterario. Non si può pensare davvero che qui si parli di un Yeshùa preesistente che fa queste cose, a meno di rendersi ridicoli. Questa sapienza personificata dallo stile letterario si rivolge agli uomini: “Voi, o uomini, io chiamo, e la mia voce è diretta ai figli degli uomini. O inesperti, comprendete l’accortezza; e voi stupidi, comprendete” (vv. 4 e 5, TNM). Si tratta quindi di una qualità che gli esseri umani sono incoraggiati a coltivare. Anzi, si tratta di una grande qualità, tanto che “la sapienza è migliore dei coralli, e tutti gli altri diletti stessi non si possono uguagliare ad essa” (v. 11, TNM). È una persona? Ma no, altrimenti dovremmo averne due: “Io, la sapienza, ho risieduto con l’accortezza” (v. 12, TNM). È una qualità, tanto che può cambiare nome e prendere quello di un sinonimo: “Io, intendimento; ho potenza” (Ibidem). È mediante questa capacità (non mediante Yeshùa) che regnanti, legislatori giudici possono esercitare la giustizia: “Mediante me i re stessi continuano a regnare, e gli stessi alti funzionari continuano a decretare giustizia. Mediante me i principi stessi continuano a governare come principi, e i nobili giudicano tutti nella giustizia” (vv. 15 e 16, TNM). Questa qualità è così importante perché viene da Dio stesso, che Paolo definisce unico vero sapiente: “Dio, unico in saggezza” (Rm 16:27). È per questo che la sapienza personificata dice: “Geova stesso mi produsse come il principio della sua via” (v. 22, TNM). “Geova stesso mi produsse come principio” di TNM è nel testo ebraico יְהוָה קָנָנִי רֵאשִׁית (Yhvh qanàny reshìt), “Yhvh mi possedette come prima cosa”. Il verbo ebraico qanà (che qui è impiegato) significa “possedere”. NR traduce: “Il Signore mi ebbe con sé al principio dei suoi atti”. La LXX greca traduce il passo così: κύριος ἔκτισέν με ἀρχὴν ὁδῶν αὐτοῦ εἰς ἔργα αὐτοῦ (kΰrios èktisèn me archèn odòn autù). Odòn è un genitivo plurale, non singolare come tradotto da TNM, e significa “un modo di condotta”, “una via (cioè una maniera) di pensare, sentire, decidere” (numero Strong 3598). Il verbo greco èktisen significa non solo “fondare” o “costruire”, ma anche “rendere”. Quindi la frase della LXX dice: “Il Signore mi rese la prima [per importanza e dignità] delle sue vie [o dei suoi modi di essere]”. Come si vede, non è implicata proprio nessuna creazione della sapienza come fosse una persona. La Volgata latina ha: “Dominus possedit me initium viarum suarum” (“Il signore mi possedette come inizio delle sue vie”). Quando Dio iniziò la sua creazione, cosa usò se non la sua sapienza?

Il v. 22 continua così: “La prima delle sue imprese di molto tempo fa” (TNM). E qui sorge un grave problema. Se questa traduzione fosse esatta, avremmo un incredibile controsenso. Se la sapienza fosse stata la prima delle imprese di Dio, significherebbe che prima di queste imprese la sapienza non c’era. Ma Dio non è sapiente da sempre? Certo che sì. Come avrebbe fatto allora Dio, senza ancora la sapienza, a creare la sapienza? È un assurdo causato dalla cattiva traduzione di TNM. Cosa dice il testo ebraico? Dice קֶדֶם (qèdem): “prima” (avverbio temporale). Quindi, non “la prima [aggettivo sostantivato] delle sue imprese”, ma: “Prima [avverbio temporale] delle sue imprese. NR traduce: “Prima di fare alcuna delle sue opere più antiche”. La LXX ha εἰς ἔργα αὐτοῦ (èis èrga autù), “fra [le] opere di lui”. La frase completa nella LXX è dunque: “Il Signore mi rese la prima [per importanza e dignità] delle sue vie [o dei suoi modi di essere] fra [le] sue opere”. La Bibbia Concordata traduce magnificamente: “Il Signore mi possiede dall’inizio della sua via, prima delle sue opere, fin d’allora”. Ecco il senso esatto biblico. Quello mistificato di TNM crea invece un assurdo insostenibile.

  1. 23: “Da tempo indefinito fui insediata, dall’inizio” (TNM). Il testo ebraico ha, letteralmente: “Dall’eternità fui stabilita, dal capo”. NR traduce bene: “Fui stabilita fin dall’eternità, dal principio”. Senza tempo, quindi.

Che dire dell’espressione “fui data alla luce come con dolori di parto”? (v. 24, TNM). C’è bisogno di dire che si tratta di un modo figurato di esprimersi? Nei vv. 25-29 la sapienza personificata dice che quando Dio creava lei era là. Ovvio. La sapienza di Dio era all’opera, non perché fosse una persona separata da Dio, ma perché Dio stesso operava: “Geova stesso fondò la terra con sapienza” (Pr 3:19, TNM). “Quanto sono numerose le tue opere, o Geova! Le hai fatte tutte con sapienza”. – Sl 104:24, TNM.

Al v. 30 si legge in TNM: “Ero accanto a lui come un artefice”. Si parla forse di una persona che cooperava nella creazione? No: la sapienza era “come un artefice”, non un artefice. Tra l’altro, questa parola tradotta “artefice” è nell’ebraico del testo אָמֹו (amòn) che significa “fedele”. È la stessa identica parola che si trova in 2Sam 20:19: “Io rappresento i pacifici e i fedeli [אֱמוּנֵי (amonè), plurale di amòn] d’Israele” (TNM). T (Targumìm) ha “mostrandomi fedele”; la LXX, “agendo adeguatamente”; Vg (Volgata) ha: “Cum eo eram cuncta conponens” (“Ero con lui [Dio], componendo tutte le cose”).

La conclusione di Pr 8 è questa: “E ora, o figli, ascoltatemi; sì, felici sono quelli che osservano le mie medesime vie. Ascoltate la disciplina e divenite saggi, e non mostrate alcuna negligenza. Felice è l’uomo che mi ascolta mantenendosi sveglio di giorno in giorno alle mie porte, essendo a guardia degli stipiti dei miei ingressi. Poiché chi mi trova certamente troverà la vita, e otterrà buona volontà da Geova. Ma chi mi perde fa violenza alla sua anima; tutti quelli che mi odiano intensamente sono quelli che davvero amano la morte” (vv. 32-36, TNM). Nonostante il linguaggio arido e disusato della traduzione, si comprende che a parlare non è la presunta persona spirituale preumana di Yeshùa, ma proprio la sapienza personificata dallo stile letterario. Per nostro insegnamento vale la pena di rileggere il passo in una buona traduzione in italiano corrente: “Ora, figli, ascoltatemi! Beati quelli che seguono le mie direttive. Ascoltate quel che vi insegno; siate saggi e non dimenticate le mie parole. Felice chi mi ascolta, chi sta ogni giorno davanti alla mia porta, e aspetta il momento di entrare! Chi trova me, trova la vita, e il Signore lo proteggerà. Chi mi rifiuta fa male a se stesso, chi mi odia, ama la morte”. – TILC.

Eppure, questa sapienza divina personificata ha a che fare con Yeshùa. Sì, eccome. In Col 1:15,16 Paolo presenta Yeshùa secondo lo schema della sapienza nelle Scritture Ebraiche: “Egli è l’immagine del Dio invisibile, il primogenito di ogni creatura; poiché in lui sono state create tutte le cose che sono nei cieli e sulla terra, le visibili e le invisibili: troni, signorie, principati, potenze; tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui”. Yeshùa è l’“immagine” visibile del Dio invisibile: ci rende visibile Dio quanto al suo amore e alle sue innumerevoli qualità. Yeshùa è il “primogenito” in senso ebraico e biblico: il prediletto. Nella Bibbia il primogenito è l’erede che ha priorità sui fratelli, il prediletto. C’è qui la presentazione di Yeshùa come sapienza, quella sapienza personificata che in Pr 8 parla in prima persona e dice di essere insieme a Dio prima di tutte le cose. Anche Giovanni usò questo schema della sapienza di Dio che identifica con la sua parola creatrice: “Nel principio era la Parola, la Parola era con Dio, e la Parola era Dio. Essa era nel principio con Dio. Ogni cosa è stata fatta per mezzo di lei; e senza di lei neppure una delle cose fatte è stata fatta” (Gv 1:1-3). Non che “la parola” fosse Yeshùa, no, ma “la parola” (la sapienza di Dio che egli impiegò nella sua creazione) “è diventata carne e ha abitato per un tempo fra di noi, piena di grazia e di verità; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre” (v. 14). Quella parola creatrice di Dio, la sua sapienza, è scesa in Yeshùa che è diventato il prediletto, “primogenito”, di Dio.

Anche lo scrittore di Eb usa lo stesso schema: “Dio, dopo aver parlato anticamente molte volte e in molte maniere ai padri per mezzo dei profeti, in questi ultimi giorni ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che egli ha costituito erede di tutte le cose, mediante il quale ha pure creato i mondi. Egli, che è splendore della sua gloria e impronta della sua essenza, e che sostiene tutte le cose con la parola della sua potenza”. – Eb 1:1-3.

C’è qui qualcosa di molto profondo da comprendere. La “parola” di Dio era in principio presso Dio; la “sapienza” era con lui quando creava. Secondo i rabbini, il “principio” (Gn 1:1) era proprio la sapienza. Questa veduta ebraica serve a spiegare l’uso curioso di quell’“in” che Paolo usa: “In [greco ἐν (en), “in”] lui sono state create tutte le cose” (Col 1:16). Cosa mai significa “in lui”? Se fosse vera l’ipotesi di Yeshùa preesistente e artefice, dovremmo trovare ‘da lui’. Perché “in lui”? Se Dio ha creato tutto “nel principio” ossia nella sapienza, e se questa sapienza ora è in Yeshùa, è “in lui” che Dio ha creato tutto. Yeshùa come “primogenito” ovvero prediletto è al di sopra di tutta la creazione (tutto e tutti). È “in lui” e “per lui” che tutto fu creato: il mondo invisibile e l’universo visibile.

Ma come può un uomo, Yeshùa, essere presentato come il mezzo della creazione e come fonte di sussistenza dell’universo? Forse riusciamo a comprendere questo punto così profondo con l’aiuto di una parabola che raccontano i rabbini. Dio voleva creare il mondo ma era incerto perché non vi prevedeva altro che miseria, peccato e morte. Stava per abbandonare il suo intento quando il suo sguardo si posò su Abraamo, di cui contemplò la fede e l’amore. Allora Dio – sia benedetto il suo nome – si disse: “Ora finalmente ho trovato un fondamento su cui poggiare il mondo”. E così ebbe luogo la creazione. C’è da riflettere. Mentre gli ebrei guardavano ad Abraamo come all’uomo della fede in cui il mondo era stato creato da Dio, in cui esso sussiste e per cui o in vista del quale esso venne creato, quanto più dovremmo guardare a Yeshùa per tutto ciò.

Tutto l’universo fu creato da Dio perché egli ne vide la bontà finale, l’amore e l’ubbidienza. Tutto ciò è portato a compimento da Yeshùa. È Yeshùa, nel progetto di Dio, l’apice di tutto. La creazione proviene da Yeshùa in questo senso: ne fu il motivo e lo scopo.

Siccome in Yeshùa dimora la parola di Dio, la sapienza di Dio che entrò in azione quando tutto venne all’esistenza, Paolo – con un pensiero prettamente ebraico – può dire che proprio per mezzo di Yeshùa tutto venne all’esistenza.

Difficile? Di certo, per un occidentale. Per una mente occidentale, estranea al pensiero ebraico espresso nella Bibbia, è molto più che difficile. Per una persona religiosa, poi, forse è impenetrabile. Ma si tratta della sapienza di Dio, sapienza che Paolo aveva: “Paolo vi ha scritto, secondo la sapienza che gli è stata data; e questo egli fa in tutte le sue lettere, in cui tratta di questi argomenti. In esse ci sono alcune cose difficili a capirsi, che gli uomini ignoranti e instabili travisano a loro perdizione come anche le altre Scritture”. – 2Pt 3:15,16.

  • Un altro dato non trascurabile è la pseudonimia, per cui si attribuiscono dei libri sapienziali a un personaggio noto dell’antichità, al quale essi non appartengono. Si tratta di un metodo letterario che non voleva indurre in errore: il contemporaneo lo capiva. Si voleva solo dire che le riflessioni presentate erano sulla linea di quelle che, ad esempio, poteva effettuare un Salomone. Alcuni decenni or sono il dr. Cardirole, in uno scritto su Il Processo di Gesù, si immagina di essere a Petra e di aver scoperto in una grotta un manoscritto con caratteri antichi ebraici. Lo traduce e lo presenta ai lettori: si tratta nientemeno che del processo stenografico tenuto contro Yeshùa. Un lettore sprovveduto potrebbe essere tratto in inganno, ma si tratta di un puro genere letterario, di un artificio per rendere più interessante il racconto ponendo in bocca ad altri le proprie riflessioni sul processo di Yeshùa. Perché non potevano fare qualcosa di simile anche gli autori sacri? Così ad esempio l’Ecclesiaste (meglio noto oggi come Qohèlet) viene messo in bocca a Salomone: “Parole dell’Ecclesiaste, figlio di Davide, re di Gerusalemme”, “Io, l’Ecclesiaste, sono stato re d’Israele a Gerusalemme”, “Io ho detto, parlando in cuor mio: «Ecco io ho acquistato maggiore saggezza di tutti quelli che hanno regnato prima di me a Gerusalemme»” (1:1,12,16). Ma che si tratti di un puro genere letterario appare in alcuni dati che a lui non convengono, come il giudizio circa l’oppressione del re (3:16), la sua ira (10:4 e sgg). Di più, al v. 13 del cap. 12, lo scritto è presentato come parole dei savi: “Le parole dei saggi”, il che implica che sia stato composto molto più tardi di Salomone (forse addirittura nel 200 circa a. E. V.). Perciò non si deve attribuire grande peso alla sua presunta origine salomonica. Lo stesso si ripete per il Cantico dei Cantici (1:1) e per la Sapienza, libro deuterocanonico, ritenuto sacro solo dai cattolici.

Nel vasto genere letterario sapienziale, si trovano in sottordine varie altre espressioni letterarie da intendersi secondo la loro forma specifica. Nei Salmi si possono trovare inni, lamentazioni (qinàh; cfr. Am 5:2; Ez 19:1-14; Lam 1,2,4), epitalami (Sl 45; Cantico). Non mancano le sentenze (mashàl: proverbi), gli enigmi (hiddàh) amati dagli orientali e con cui si rallegravano i banchetti (Gdc 14:12-18; Ec 25:10; Pr 6:16-19;30:15-31). Vi appaiono le favole (Gdc 9:8) e le parabole. – 2Sam 12:1-4; Is 5:1-5; molte se ne trovano nei Vangeli.