In questo studio il termine pathos differisce da quello dell’uso comune. Secondo i dizionari di Greco-Italiano pathos significa emozione, passione, stato o condizione emotiva (sia nel bene che nel male). L’idea classica del pathos includeva tutte le condizioni del sentimento. Secondo le varie epoche, il pathos fu visto diversamente.

   Per gli antichi retori era un mezzo nella tecnica della persuasione per suscitare emozioni (Aristotele, Retorica I, II, 1356A; Cicerone, De Oratore II, 43,185). Mediante il pathos di un discorso appassionato si suscitano certi sentimenti.

   L’idea di suscitare il sentimento passò poi dalla retorica alla poesia. Il poeta era esortato a immedesimarsi nella parte per provare i sentimenti dei suoi personaggi (cfr. Aristotele, Poetica XVII, 1455a) e provare le stesse emozioni. – Cfr. Orazio, Ars Poetica II, 102.

   In inglese, il termine pathos giunse a significare la caratteristica del discorso, dello scritto, della musica o della rappresentazione artistica che provoca un sentimento, sia di compassione sia di tristezza. In rari casi significava anche la sofferenza fisica o mentale. – A New English Dictionary on Historical Principles, Oxford, 1909, VII, 554.

   Nel 18° secolo s’iniziò ad apprezzare il valore estetico delle emozioni e l’effetto emotivo del sublime, anzi si affermò che l’arte più elevata (quella del sublime) è l’espressione della passione più grande. È in questo periodo che il sublime e il patetico vengono abbinati. Per reazione, si affermò anche che le due qualità non erano comparabili: il sublime non agita, ma calma l’animo; il patetico agita le passioni (J. Baillie, An Essay of the Sublime, London, 1747). Il pathos arrivò poi a indicare i sentimenti di terrore e di tristezza.

   All’inizio del 19° secolo Hegel parlava di difficoltà a tradurre il termine pathos. Dato che le passioni erano viste come una cosa gretta e bassa, il pathos andava inteso in senso più nobile, come una potenza della vita emotiva. Egli lo definì “la forza vitale della nostra esistenza umana” (The Philosophy of Fine Art, London, 1920, I, 308). Poi, sempre nel 19° secolo, si evitò di manifestare le emozioni, così il pathos e il patetico furono declassati dal loro nobile significato semantico. Si giunse perfino ad abbinare il pathos alla falsità.

   Nel 20° secolo e nel nostro (ormai il 21°) il pathos viene visto come una strana emozione. Presso gli studiosi il termine mantiene il suo significato semantico collegato alla compassione, ma nell’uso comune presso le masse popolari denota una sofferenza o un dolore causato da una sofferenza non mitigata.

   Il pathos come categoria del pensiero ebraico della Bibbia è la compassione: con + passione, è il sentimento di sentire insieme, provare le stesse emozioni. Questo non ha nulla a che fare con il tardo latino da cui deriva l’attuale senso di “compatire” o commiserare. Ci sono tre termini che si assomigliano nel significato ma che hanno sfumature diverse:

  • Simpatia. Questo termine deriva dal greco συμπάθεια (sümpàtheia), parola composta da συν (sün, “con”) e dal verbo πάσχω (pàscho, “patire”); συμπάσχω (sümpàscho) letteralmente significa “patire insieme”, “provare emozioni con”. L’essenza della simpatia, infatti, consiste nel provare emozioni simili a quelle di un’altra persona, emozioni come la gioia o la sofferenza. Lo stato psicologico della simpatia ha tratti in comune con quello dell’empatia.
  • Empatia. Sebbene il termine venga fatto derivare dall’inglese empathy, l’etimologia della parola è dal greco εν (en, “in”, “dentro”) e παθος (pàthos, “sentimento”), indicando così il sentire interiore che permette la comprensione dell’altro. Si tratta dell’abilità di percepire e sentire direttamente e in modo esperienziale le emozioni di un’altra persona così come lei le sente, indipendentemente dal condividere la sua visione delle cose. È un sapersi mettere nei panni degli altri.
  • Compassione. L’etimologia la fa derivare dal latino cum (“con”) e da passio (“passione”): è il “patire con”, patire insieme.

   Si possono avere questi casi:

  • Empatia, ma non simpatia. Accade quando si sentono interiormente e in modo esperienziale i sentimenti dell’altra persona (empatia), ma non s’intende alleviare le sue sofferenze (simpatia).
  • Simpatia, ma non empatia. Quando si sa che qualcuno sta male e si sente la voglia di aiutarlo (simpatia), ma non proviamo in modo diretto e interiore il suo sentimento di dolore (empatia).
  • Empatia e simpatia. Allorché si percepiscono i sentimenti dell’altra persona (empatia) e si sente la voglia di aiutarla (simpatia).

   Mentre la simpatia ha molto più a che fare con ciò che intercorre esternamente fra due persone, l’empatia è una vera e propria espansione della coscienza; sembra di uscire da se stessi e che nello stesso tempo qualcosa entri in noi. Quando si riesce a percepire le cose dal punto di vista di un’altra persona, allora, al posto del giudizio che separa, c’è la comprensione nel senso letterale ed etimologico del termine: cum (“con”) + prehendere (“prendere”): si prende l’altro con noi, nel nostro mondo psichico. La simpatia crea agio e fluidità di rapporti, stimola perfino il senso dell’umorismo. Tuttavia, esercitando l’empatia, si diventa più ricchi, più vasti e più aperti.

   La categoria biblica del pathos ha a che fare con l’immedesimarsi per provare, comprendere e condividere le stesse emozioni.

   Un esempio, per quanto povero, ci aiuterà a capire. Prendiamo un uomo di una certa età, diciamo un personaggio molto noto nella società per la sua serietà, il suo successo e il suo genio. Diciamo che questo personaggio abbia diverse lauree e parli correttamente più di dieci lingue. È una persona ammirata da tutti, d’ineccepibile rigore morale. Tutti hanno rispetto per lui. È molto rispettato, potente, autorevole, temuto. Ebbene, ora immaginiamo di essere nell’anticamera del suo salotto. Lui è di là, la porta è chiusa. Ad un tratto si sentono strani versi: è la sua voce. Incuriositi, guardiamo dal buco della serratura. È incredibile. È proprio lui. Si è messo un naso rosso da pagliaccio, fa le smorfie e tanti versi da stupido. Ora si rotola addirittura sul tappeto. È forse impazzito? Spalanchiamo allora la porta e lui è lì per terra, fa le capriole e si diverte come un matto. Con lui c’è però la sua amata nipotina di tre anni che si diverte più di lui. Ecco, quello è pathos.

   Possibile, dicono gli increduli che sembrano saperne sempre più di Dio, che un onnipotente creatore dell’universo sia presentato nella Bibbia come qualcuno che si arrabbia, manda punizioni, minaccia cose tremende, soffre, si rattrista e si dispiace? Dio dice: “Quando Israele era un ragazzo io l’ho amato […] perché era mio figlio. Io ho insegnato a Efraim a camminare. Ho tenuto il mio popolo tra le mie braccia, ma non ha capito che mi prendevo cura di lui. L’ho attivato a me con affetto e amore. Sono stato per lui come uno che solleva il suo bambino fino alla guancia. Mi sono abbassato fino a lui per imboccarlo. […] Come posso lasciarti, Efraim? Come posso abbandonarti, Israele? […] Il mio cuore non me lo permette, il mio amore è troppo forte”. – Os 11:1-8, PdS 

   Forse un sapientone illuminato ed erudito miscredente moderno avrebbe preferito leggere così nella Bibbia: ‘Ai tempi della cattività egizia, la popolazione semita del ceppo ebraico riscoprì la propria identità spirituale e maturò tra le sofferenze dell’oppressione straniera (che inducono la psiche a complesse interiorizzazioni con sintomatologia da nevrosi) quell’orgoglio interiorizzato che costituisce la difesa ultima dell’animo sofferente e che attraverso processi sociologici lenti ed ineludibili fece loro riscoprire la dignità nazionale e, appellandosi ad una spiritualità condivisa, attraverso quei processi psicologici che con profonde suggestioni interiori liberano forze potenziali latenti nel subcosciente, giunsero alla rassicurante visione di una realtà ideale da loro percepita come possibile, ancorandosi ai quei convincimenti tipici degli archetipi atavici’. Già. La Bibbia però non dice così. No, proprio per niente.

   Forse un illuminato ed erudito credente religioso avrebbe preferito leggere così nella Bibbia: ‘Ai tempi della cattività egizia, il popolo ebraico sperimentò la Provvidenza divina; le vie del Signore sono infinite, e il popolo seppe riconoscere negli eventi l’aiuto del Cielo; non bisognava essere grati della buona sorte loro concessa?’. La Bibbia però non dice così. Proprio per niente.

   La Bibbia usa la categoria del pathos. Attraverso le parole del profeta ispirato, Dio si fa genitore, anzi, mamma (le espressioni sono più quelle della tenerezza materna che quelle di un padre). Dio, il creatore onnipotente dell’universo, l’Uno e unico, l’Eterno, Colui che nessun uomo ha mai visto né può vedere, l’Altissimo, comunica ad Israele nei sentimenti e nelle emozioni umane degli ebrei. È il pathos, la compassione in senso etimologico: il sentire insieme, l’essere in perfetta sintonia. Un occidentale direbbe: parlare ai sentimenti. Sì, certo, ma con i sentimenti. Come dovrebbe esprimersi Dio per essere compreso dall’uomo? Con la lingua degli angeli (1Cor 13:1)? Quella è riservata a loro; è – per così dire – il pathos angelico.

   Come si esprime l’amore? Descriverlo, parlarne, enunciarlo e definirlo non è per nulla la stessa cosa che amare. L’amore si prova, si sente, si manifesta, si condivide. Si vive. Questo ha a che fare con il pathos.