Yekhesqèl (יְחֶזְקֵאל, “Dio fortifica”), Ιεζεκιηλ (IezekielLXX), Hiezecihel (Vulgata), Ezechiele, è il terzo – in ordine di tempo – dei profeti maggiori.

La persona

   Ezechiele fu contemporaneo di Geremia, essendo nato  nel 627 a. E. V., se – con alcuni esegeti – si insiste sull’indicazione cronologica di Ez 1:1: “Il trentesimo anno, il quinto giorno del quarto mese, mentre mi trovavo presso il fiume Chebar, fra i deportati, i cieli si aprirono, e io ebbi delle visioni divine”, interpretando questo “trentesimo anno” come il trentesimo della sua vita ovvero dalla sua nascita. La sua ultima profezia è datata al 573 a. E. V.; prima non abbiamo ulteriori notizie su di lui.

   Ezechiele era di stirpe sacerdotale: “La parola del Signore fu rivolta al sacerdote Ezechiele” (Ez 1:3). Sin dall’infanzia era abituato alle rigorosità legali: “Io non mi sono mai contaminato; dalla mia infanzia a ora”. – Ez 4:14.

   Della famiglia che si era messo su non abbiamo che una traccia nel commovente accenno alla morte improvvisa di sua moglie, trasformata lei stessa in simbolo: “Con un colpo improvviso io ti tolgo la delizia dei tuoi occhi; ma tu non fare lamento, non piangere, non versare lacrime. Sospira in silenzio; non portare lutto per i morti […]. La mattina parlai al popolo e la sera mia moglie morì. Così parla Dio, il Signore: Ecco, io profanerò il mio santuario, orgoglio della vostra forza, delizia dei vostri occhi, oggetto di venerazione delle vostre anime; i vostri figli e le vostre figlie che avete lasciati a Gerusalemme cadranno per la spada”. – Ez 24:16-18,21.

   Esercitò il suo minitesto continuamente in Mesopotamia, sua terra d’esilio, dove venne deportato dai conquistatori babilonesi nel 597 a. E. V. assieme al re Ioiachin, al fior fiore dell’aristocrazia giudaica e al popolo atto alla guerra. Ciò avvenne dieci anni prima della completa rovina di Gerusalemme. Il libro dei Re non parla della deportazione di sacerdoti leviti: “Ioiachin, re di Giuda, si presentò al re di Babilonia con sua madre, i suoi servi, i suoi capi e i suoi eunuchi. E il re di Babilonia lo fece prigioniero, l’ottavo anno del suo regno. Come il Signore aveva predetto, portò via di là tutti i tesori della casa del Signore e i tesori del palazzo del re, e spezzò tutti gli utensili d’oro che Salomone, re d’Israele, aveva fatti per il tempio del Signore. E deportò tutta Gerusalemme, tutti i capi, tutti gli uomini valorosi, in numero di diecimila, e tutti i falegnami e i fabbri; non vi rimase che la parte più povera della popolazione del paese. E condusse Ioiachin a Babilonia; e deportò da Gerusalemme a Babilonia la madre del re, le mogli del re, i suoi eunuchi, i notabili del paese, tutti i guerrieri, in numero di settemila, i falegnami e i fabbri, in numero di mille, tutta gente valorosa e adatta alla guerra. Il re di Babilonia li deportò a Babilonia” (2Re 24:12-16). Tuttavia, anche se i sacerdoti non sono menzionati nella deportazione, Geremia indirizza le sue parole agli anziani e ai sacerdoti condotti in Babilonia: “Queste sono le parole della lettera che il profeta Geremia mandò da Gerusalemme al residuo degli anziani esiliati, ai sacerdoti, ai profeti e a tutto il popolo che Nabucodonosor aveva deportato da Gerusalemme a Babilonia”. – Ger 29:1.

   Quando Ezechiele ebbe le sue prime visioni, si trovava “presso il fiume Chebar, fra i deportati “ (Ez 1:1). La parola tradotta “fiume” è nell’ebraico נְהַר (neàr), ma la parola era usata anche in senso più ampio, includendo pure i numerosi canali di Babilonia che un tempo attraversavano la fertile zona compresa fra il corso inferiore dell’Eufrate e quello del Tigri. Questo è in armonia col corrispondente termine babilonese che descrive sia un fiume che un canale. È da identificarsi indubbiamente con il grande canale Naàr Kabàri che passava attraverso l’antica Nippùr nella Bassa Caldea. Il Naru Kabaru (o “Canale Grande”, in caldeo) è menzionato sulle tavolette commerciali in caratteri cuneiformi trovate nella città di Nippur, circa 85 km a sud-est di Babilonia. Lo Shatt en-Nil (Naru Kabaru) si separa dall’Eufrate sopra Babilonia e scorre in direzione sud-est, passando attraverso Nippur, per ricongiungersi con l’Eufrate a sud di Ur, circa 240 km più giù di Babilonia.

   Fu nella valle di questo fiume-canale che Ezechiele ebbe la prima comunicazione divina circa nel 595/593 a. E. V.. Il luogo è menzionato in Ez 3:15,16: “Giunsi da quelli che erano deportati a Tel-Abib presso il fiume Chebar, e mi fermai dove essi abitavano; e là abitai sette giorni, triste e silenzioso, in mezzo a loro. Dopo sette giorni, la parola del Signore mi fu rivolta”. “Tel-Abìb” significa “colline delle spighe” ed era il centro di una delle comunità principali degli esuli. Questi esuli, per i loro rapporti interni, avevano potuto nominarsi un numero di anziani che troviamo a volte radunati attorno al profeta per udire da lui le risposte di Dio.

   Anche Ezechiele fu chiamato da Dio alla sua missione come lo furono Geremia (Ger 1) e Isaia (Is 6). Ma Ezechiele, conformemente al suo stile, si diffonde nell’esposizione della grandiosa visione avuta del carro divino trascinato da cherubini e del trono su cui Dio gli apparve. – Ez capitoli 1-3.

   Quella visione lo lasciò impietrito per “sette giorni, triste e silenzioso” (3:15), “attonito” (TNM), “stordito” (PdS). Da quella visione Ezechiele ebbe un indirizzo di vita e uno scopo del tutto nuovo.

   La sua parola divenne solo parola di Dio. Quando non gli fu possibile parlare, annunciò in maniera ancor più impressionante i disegni divini mediante azioni simboliche, gesti espressivi e con le sue stesse vicende personali o familiari.

   Tra i deportati egli godette di una certa libertà che gli permetteva di comunicare con i connazionali rimasti in patria e con i popoli più lontani. All’ottenere tale libertà dovette contribuire la sua perfetta lealtà verso i babilonesi, determinata dal suo rispetto per i patti che erano stati convenuti e giurati: “Il re di Babilonia è venuto a Gerusalemme, ne ha preso il re e i capi, e li ha condotti con sé a Babilonia. Poi ha preso uno di sangue reale, ha stabilito un patto con lui, e gli ha fatto prestare giuramento; ha deportato pure gli uomini potenti del paese, perché il regno fosse tenuto umile senza potersi innalzare, e quegli osservasse il patto stabilito con lui e si mantenesse fedele. Ma il nuovo re si è ribellato a lui; ha mandato i suoi ambasciatori in Egitto perché gli fossero dati cavalli e molti uomini. Colui che fa tali cose potrà prosperare? Scamperà? Ha rotto il patto e potrebbe scampare? Com’è vero che io vivo, dice Dio, il Signore, nel paese di quel re che l’aveva fatto re, e verso il quale non ha rispettato il giuramento, né osservato il patto, vicino a lui, in mezzo a Babilonia, egli morirà” (Ez 17:12-16). E alla sua libertà dovette contribuire anche la costante tradizione politica del profetismo ebraico secondo cui il popolo di Dio doveva vivere isolato nella sua singolarità monoteistica e nella fiducia nell’aiuto divino.

   I profeti sentivano che ogni alleanza con altri popoli era un canale d’infiltrazione di idee e di culti politeistici. A questa preoccupazione spirituale si aggiungeva la visione limpida ed equilibrata delle forze che erano in lotta. Ezechiele, in Mesopotamia, poteva contemplare la grandiosità, l’ordine, la forza dei babilonesi contro i quali non potevano tentare una ribellione. Non solo la Giudea, ma anche città e popoli ben più forti (come Tiro e l’Egitto) non potevano nulla contro i babilonesi.