Il racconto di Lc segue il genere letterario degli annunci o “annunciazione” (cfr. per Isacco, Gn 17:18; per Mosè, Es 3-4; per Gedeone, Gdc 6:12-24; per Sansone, Gdc 13:3-22; per Samuele, 1Sam 1-3). Per Mosè e Gedeone l’annuncio riguarda la missione e non la nascita) e include i seguenti punti:

  1. Apparizione (1:28)
  2. Turbamento (v. 29)
  3. Messaggio (vv. 31,32)
  4. Obiezione (v. 34)
  5. Segno e nome (v. 35)

   1. Annunciazione del battezzatore (Lc 1:9-25).

   Dio si serve per i suoi piani salvifici di persone devote: Zaccaria ed Elisabetta erano due coniugi irreprensibili: “Erano entrambi giusti davanti a Dio e osservavano in modo irreprensibile tutti i comandamenti e i precetti del Signore” (1:6). È nel Tempio che Dio si manifesta, tramite il suo angelo Gabriele, a Zaccaria. I sacerdoti officiavano a turno, da sabato a sabato, succedendosi secondo le ventiquattro classi in cui erano stati ripartiti da Davide e secondo un’estrazione a sorte (1Cron 24:3-18). Tutti i sacerdoti provenivano da Aaronne tramite i due figli Eleazaro e Itamar perché i due maggiori, Nadab e Abiu, erano morti nel deserto senza lasciare eredi (Lv 10:1-3). Al tempo di Davide i rispettivi discendenti erano Sadoc e Abiatar, sostenitori rispettivamente di Salomone e di Adonia. Sadoc s’impose sulla discendenza concorrente sia per il numero (16 famiglie contro le otto di Abiatar) sia per l’appoggio del sovrano, il re Salomone. Siccome metà della discendenza di Abiatar (tra cui anche la famiglia di Alva) rimase in Babilonia durante il ritorno degli ebrei in patria, risultò che le quattro classi rimpatriate furono suddivise in modo da ricostruire le otto famiglie primitive.

 Aaronne

   “Zaccaria, del turno di Abìa” (v. 5), nella successione, fu quindi scelto per offrire l’incenso. Era “in età avanzata” (v. 7), ma questo non va inteso nell’attuale concetto occidentale. Va inteso, in senso ampio, nella durata della vita del tempo e, in senso stretto, nei limiti posti dalla Scrittura all’età massima permessa al sacerdote per il sacrificio: “Dall’età di cinquant’anni si ritirerà dal suo incarico e non farà più il servizio” (Nm 8:25). Zaccaria non aveva figli, a motivo della sterilità della moglie (v. 7). Al momento in cui Zaccaria compiva l’offerta, “tutta la moltitudine del popolo stava fuori in preghiera nell’ora del profumo” (v. 9). Il “profumo” era composto “degli aromi, della resina, della conchiglia profumata, del galbano, degli aromi con incenso puro, in dosi uguali” (Es 30:34) ovvero: ambra, galbano, storace e incenso. Veniva offerto su un altare d’oro posto al centro del Santo (il primo e più grande scompartimento del Tempio, occupava due terzi dell’intero edificio), separato da un velo dal Santissimo (il compartimento più interno). Il profumo posto in una coppa era portato nel Tempio da un sacerdote officiante due volte al giorno; egli lo gettava nel fuoco già pronto, mentre il popolo raccolto nel cortile pregava in silenzio. Poi l’officiante, camminando a ritroso per non voltare le spalle al Santissimo, usciva attraverso una tenda che lo separava dal popolo e benediceva i presenti: “Il Signore ti benedica e ti protegga! Il Signore faccia risplendere il suo volto su di te e ti sia propizio! Il Signore rivolga verso di te il suo volto e ti dia la pace!” (Nm 6:24-26). Nel frattempo i leviti intonavano inni sacri accompagnati da strumenti musicali e il loro suono era talmente forte che si poteva udire fino a Gerico. – Cfr Horae Hebraicae.

   “Gli apparve un angelo del Signore, in piedi alla destra dell’altare dei profumi” (v. 11). Stando alla destra dell’altare indicava la sua dignità in quanto l’altare rappresentava Dio. L’angelo Gabriele dissipò prima il timore di Zaccaria, timore che sempre si manifesta alla comparsa di un essere misterioso (cfr. Dn 10:8). Poi gli promise la nascita di un figlio che avrebbe dovuto chiamare Yokhanàn (יוחנן) ossia “dono/grazia di Yhvh”: “Elisabetta ti partorirà un figlio, e gli porrai nome Giovanni” (v. 13). A questo figlio l’angelo preannuncia la grandezza: “Sarà grande davanti al Signore” (v. 15), grandezza richiamata anche da Yeshùa: “Fra i nati di donna nessuno è più grande di Giovanni” (7:28). In lui appariranno due caratteristiche particolari. La prima: “Non berrà né vino né bevande alcoliche” (v. 15). Questo ha fatto pensare ad alcuni che Giovanni fosse un nazireo: “Quando un uomo o una donna avrà fatto un voto speciale, il voto di nazireato […] si asterrà dal vino e dalle bevande alcoliche (Nm 6:2,3). Ma in Lc non si accenna affatto alla proibizione di tagliarsi i capelli: “Per tutto il tempo del suo voto di nazireato il rasoio non passerà sul suo capo” (Nm 6:5). Non si tratta quindi di nazireato. Si può invece far riferimento all’obbligo sacerdotale di non bere bevande fermentate durante le funzioni: “Tu e i tuoi figli non berrete vino né bevande alcoliche quando entrerete nella tenda di convegno” (Lv 10:9). Questo caratterizzerebbe il battezzatore come il sacerdote che, sempre in funzione, deve presentare Yeshùa al popolo. La seconda caratteristica è che Giovanni “sarà pieno di Spirito Santo” (v. 15). Vi è così l’opposizione tra l’ebbrezza del vino e quella dello spirito santo, tra l’ebbrezza fisica e l’ebbrezza spirituale, che pur si trova nella Bibbia: “Non ubriacatevi! Il vino porta alla dissolutezza. Ma siate ricolmi di Spirito” (Ef 5:18). Giovanni avrà anche la missione di fungere da precursore del messia. Utilizzando la profezia di Malachia che parla del ritorno di Elia, l’angelo mostra che lui sarà il vero Elia che tornerà non di persona ma con la medesima potenza: “Andrà davanti a lui con lo spirito e la potenza di Elia, per volgere i cuori dei padri ai figli e i ribelli alla saggezza dei giusti, per preparare al Signore un popolo ben disposto” (v. 17; cfr. Mal 4:6). Non vi è proprio nessuna ragione per sostenere la trasmigrazione delle anime e la metempsicosi (come alcuni teosofi pretendono) in base a questo passo. L’angelo fa anche notare a Zaccaria che il figlio che avrà è la risposta divina alla preghiera che lui aveva rivolto a Dio: “La tua preghiera è stata esaudita” (v. 13). La preghiera non rimane inascoltata presso Dio.

   Al dubbio di Zaccaria che, opponendo la sterilità della moglie, vuole un segno, l’angelo mostra le sue credenziali: “Io son Gabriele che sto davanti a Dio” (v. 19), come i più grandi ministri delle corti orientali stavano davanti al re. Il quanto al segno, Zaccaria lo avrà, e sarà una punizione per la sua incredulità: “Tu sarai muto, e non potrai parlare fino al giorno che queste cose avverranno, perché non hai creduto alle mie parole che si adempiranno” (v. 20). Pare che oltre che muto divenisse anche sordo, dato che al v. 62 gli si fanno dei segni come se non sentisse.

   “Egli se ne andò a casa sua. Dopo quei giorni, sua moglie Elisabetta rimase incinta” (vv. 23,24). Ella gioiva perché Dio le aveva tolto la sterilità: “Ecco quanto ha fatto per me il Signore, nei giorni in cui mi ha rivolto il suo sguardo per cancellare la mia vergogna in mezzo agli uomini” (v. 25). In Israele il non avere figli era considerata una vergogna e una maledizione: “Rachele, vedendo che non partoriva figli a Giacobbe, invidiò sua sorella, e disse a Giacobbe: ‘Dammi dei figli, altrimenti muoio’. […] Dio si ricordò anche di Rachele; Dio l’esaudì e la rese feconda. Ella concepì e partorì un figlio, e disse: ‘Dio ha tolto la mia vergogna’” (Gn 30:1,22,23); “La rivale mortificava continuamente Anna per amareggiarla perché il Signore l’aveva fatta sterile. […] Elcana si unì ad Anna, sua moglie, e il Signore si ricordò di lei. Nel corso dell’anno, Anna concepì e partorì un figlio, che chiamò Samuele; perché disse, l’ho chiesto al Signore”. – 1Sam 1:6,19,20.

   Da notare è la somiglianza molto accentuata tra questo annuncio e l’annuncio a Miryàm madre di Sansone: “C’era un uomo di Sorea, della famiglia dei Daniti, di nome Manoà; sua moglie era sterile e non aveva figli. L’angelo del Signore apparve alla donna, e le disse: ‘Ecco, tu sei sterile e non hai figli; ma concepirai e partorirai un figlio. Ora guardati dunque dal bere vino o bevanda alcolica e non mangiare nulla di impuro’” (Gdc 13:2-4). È chiaro che Luca usa degli schemi tratti dalle Scritture Ebraiche per presentare i suoi personaggi.

   2. Annunciazione di Yeshùa (Lc 1:26-38).

   Al posto del Tempio abbiamo qui una casetta a Nazaret, località mai nominata nelle Scritture Ebraiche né nel Talmud, che etimologicamente significa “la fiorente” o “città del germoglio” o, forse, “la vedetta” (in quanto dominava la pianura di Izreel).

   Si tratta di una contrada ben piccola, risultante in gran parte di grotte, che godeva di scarsa reputazione, come appare dalle parole di Natanaele: “Può forse venir qualcosa di buono da Nazaret?” (Gv 1:46). “Dio scelse le cose deboli del mondo, per svergognare le forti”. – 1Cor 1:27, TNM.

   Non è così sicuro che Miryàm fosse della tribù di Giuda. Ella era parente di Elisabetta sposata a Zaccaria (1:36). Dato che Zaccaria era un sacerdote, egli era della tribù di Levi. Per spiegare la parentela di Miryàm con Elisabetta, alcuni hanno ipotizzato che esse fossero cugine, figlie di due sorelle giudee che si sarebbero sposate una nella tribù di Giuda e l’altra nella tribù di Levi. Altri pensano che fossero entrambe della tribù di Levi. In effetti sarebbe logico che, essendo Zaccaria un levita, anche la moglie Elisabetta fosse levita. La parentela di Miryàm con Elisabetta deporrebbe a favore di un’appartenenza levita anche per lei. In tal modo Yeshùa avrebbe raggruppato in sé privilegi regali e sacerdotali: sarebbe stato discendente legale di Davide (tribù di Giuda) da parte del padre adottivo Giuseppe che era giudeo di stirpe davidica (1:27) e discendente naturale della classe levitica dei sacerdoti da parte di madre. Questo non ha nulla a che fare con la duplicità del messia ammessa a Qumràn, dove si attendeva un messia giudeo e uno levita. Avrebbe piuttosto a che fare con la duplice funzione di Yeshùa quale re-sacerdote: “Melchisedec, re di Salem, fece portare del pane e del vino. Egli era sacerdote del Dio altissimo” (Gn 14:18); “Il Signore ha giurato e non si pentirà: ‘Tu sei Sacerdote in eterno, secondo l’ordine di Melchisedec’” (Sl 110:4); “Cristo non si prese da sé la gloria di essere fatto sommo sacerdote, ma la ebbe da colui che gli disse: ‘Tu sei mio Figlio; oggi ti ho generato’. Altrove egli dice anche: ‘Tu sei sacerdote in eterno secondo l’ordine di Melchisedec’”. – Eb 5:5,6.

   Luca osserva che Miryàm era emnesteumènen  (ἐμνηστευμένην) a Giuseppe (1:27). Tale verbo greco può significare tanto “fidanzata” (Origène, Ilario, Girolamo) quanto “sposata” (Ambrogio, Crisos). Quando Miryàm era già ormai sposata a Giuseppe viene infatti chiamata sempre emnesteumène (ἐμνηστευμένη, 2:5). Ora si traduce generalmente quel primo emnesteumènen con “fidanzata” (“promessa in matrimonio”, 1:27, TNM) e il secondo con “sposa” (“era stata data in matrimonio”, 2:5, TNM), pur essendo la parola greca la stessa identica. Nella legislazione ebraica il fidanzamento e lo sposalizio erano alquanto simili (Gn 19:14), ma la legislazione distingueva le due fasi. Lo sposalizio avveniva con l’atto di introdurre la sposa nella casa dello sposo (Gn 24:67; Dt 20:7). Questo atto assumeva un nome particolare: haknasà (הכנס), la riunione; in greco si diceva “prendere con sé [la sposa]”, paralambànein (παραλαμβάνειν): “Non temere di prendere con te [παραλαβεῖν (paralabèin)] Maria” (Mt 1:20); “Prese con sé [παρέλαβεν (parèlaben)] sua moglie” (Mt 1:24). Il fidanzamento ebraico aveva un valore ben più decisivo del moderno fidanzamento occidentale che può essere rotto con gran facilità. Il fidanzamento ebraico era paragonato quasi al matrimonio vero, tanto che la fidanzata infedele era punita con la morte al pari della moglie infedele: “Quando una fanciulla vergine è fidanzata e un uomo, trovandola in città, si corica con lei, condurrete tutti e due alla porta di quella città, e li lapiderete a morte” (Dt 22:23,24). Con la morte del fidanzato, la fidanzata era di fatto vedova. La fidanzata non poteva essere lasciata senza una lettera di ripudio (Mt 1:19). Il figlio concepito nel tempo del fidanzamento era considerato legittimo.

   Parlando di Giuseppe, Luca insiste sul fatto che egli era “della casa di Davide” (1:27). Oltre al desiderio – come sua abitudine – di essere preciso, Luca ha pure l’intento di mostrare in quel fatto l’adempimento delle profezie davidiche, come risulta da una successiva dichiarazione: “Era della casa e famiglia di Davide” (2:4). Quando Davide vagheggiò di costruire una “casa” (=Tempio) per Dio, il profeta Natan gli rispose a nome di Dio: “Non sarai tu colui che mi costruirà una casa perché io vi abiti. […] Il Signore ti costruirà una casa. […] Io innalzerò al trono dopo di te la tua discendenza, uno dei tuoi figli, e stabilirò saldamente il suo regno. […] Io lo renderò saldo per sempre nella mia casa e nel mio regno, e il suo trono sarà reso stabile per sempre” (1Cron 17:4,10,11,14). Anche se il trono davidico cadde, la promessa di Dio dura per sempre. Dio aveva previsto l’infedeltà del suo popolo, ma aveva pure garantito che la sua promessa a Davide sarebbe comunque rimasta valida:

 

Renderò eterna la sua discendenza

e il suo trono come i giorni dei cieli.

Se i suoi figli abbandonano la mia legge

e non camminano secondo i miei ordini,

se violano i miei statuti

e non osservano i miei comandamenti,

io punirò il loro peccato con la verga

e la loro colpa con percosse;

ma non gli ritirerò la mia grazia

e non verrò meno alla mia fedeltà.

Non violerò il mio patto

e non muterò quanto ho promesso.

Una cosa ho giurato per la mia santità,

e non mentirò a Davide:

la sua discendenza durerà in eterno

e il suo trono sarà davanti a me come il sole,

sarà stabile per sempre come la luna;

e il testimone ch’è nei cieli è fedele”.

Sl 89:29-37.

   Al tempo di Yeshùa si attendeva il messia o cristo, “il consacrato” di Dio, come “figlio di Davide”: “Che cosa pensate del Cristo? Di chi è figlio? Essi gli risposero: ‘Di Davide’” (Mt 22:42); proveniente dalla stessa città di Davide: “La Scrittura non dice forse che il Cristo viene dalla discendenza di Davide e da Betlemme, il villaggio dove stava Davide?” (Gv 7:42). Yeshùa fu spesso salutato come “figlio di Davide” (Mt 9:27;12:23;15:22;20:31,sgg.;21:9,15), come restauratore del regno davidico (Mr 11:10) e come re d’Israele. – Gv 12:13.

   Si capisce allora l’insistenza con cui Yeshùa fu presentato dalla predicazione primitiva come proveniente da Davide: “Dalla discendenza di lui [Davide], secondo la promessa, Dio ha suscitato a Israele un salvatore nella persona di Gesù” (At 13:23); “Il vangelo di Dio, che egli aveva già promesso per mezzo dei suoi profeti nelle sante Scritture riguardo al Figlio suo, nato dalla stirpe di Davide secondo la carne” (Rm 1:1-3); “Gesù Cristo, risorto dai morti, della stirpe di Davide” (2Tm 2:8); “Io sono la radice e la discendenza di Davide” (Ap 22:16). In questo modo si affermava che in Yeshùa si erano adempiute le antiche promesse rivolte da Dio a Davide tramite il profeta Natan.

   L’angelo apparve a Miryàm in casa; la Scrittura non lo specifica, ma lo si deduce dal verbo greco usato: εἰσελθὼν (eiselthòn), che significa “entrare in”: “L’angelo, entrato  [εἰσελθὼν (eiselthòn)] da lei” (Lc 1:28). Si noti comunque che l’intento di Luca non è quello di descrivere la scena dell’entrata dell’angelo in casa di Miryàm, ma di sottolineare l’importanza del messaggio da lui comunicato. I soliti studiosi che intendono armonizzare la Scrittura con le realtà di tutti i giorni e che fanno fatica a credere agli eventi miracolosi, hanno tentato di sostenere che non ci sarebbe stata una reale apparizione dell’angelo. Essi fanno notare che il testo non dice che Miryàm vide l’angelo e non dice che questi entrasse in casa; essi sostengono che Miryàm ebbe una specie d’illuminazione interiore e tutto si svolse nell’intimo del suo animo. Questi tentativi di spiegare umanamente la Scrittura vanno respinti. Il testo biblico dice, letteralmente, che l’angelo “entrò in” (εἰσελθὼν, eiselthòn); seguendo il pensiero di tali studiosi si dovrebbe concludere che l’angelo sarebbe entrato in lei e ne sarebbe poi uscito! Il racconto di Luca è senza dubbio storico.

   Il saluto porto dall’angelo a Miryàm non fu l’usuale shalom! (!שלום, pace!) che è ancor oggi usato nello stato di Israele, ma fu: Χαῖρε (chàire! – in greco non esiste il punto esclamativo: va sottinteso), che va tradotto: “Esulta!/gioisci!” (Lc 1:28); corrisponde all’ebraico רָנִּי (ronì). È davvero inappropriato svilirlo nel banale “Buon giorno” di TNM. Il verbo “esulta” o “rallègrati” usato dalla Bibbia è un verbo intimamente legato a uno speciale intervento di Dio e, in modo particolare, alla felicità messianica. Sofonia lo usa per rallegrare Gerusalemme e assicurarle che Dio ha revocato le sue sentenze e che continua ad essere il suo Re in mezzo ad essa: “Prorompi in grida di gioia, o figlia di Sion! Alza grida d’esultanza, o Israele! Rallègrati [רָנִּי (ronì); Χαῖρε (chàire) nel greco della LXX] ed esulta con tutto il cuore, o figlia di Gerusalemme! Il Signore ha revocato le sue condanne contro di te, ha scacciato il tuo nemico. Il Re d’Israele, il Signore, è in mezzo a te, non dovrai più temere alcun male” (Sof 3:14,15). Miryàm è invitata a gioire, ad esultare, perché sta per nascere colui che “sarà grande e sarà chiamato Figlio dell’Altissimo, e il Signore Dio gli darà il trono di Davide”. – Lc 1:32.

   Miryàm è chiamata dall’angelo “favorita dalla grazia [κεχαριτωμένη (kecharitomène)]” (1:28): l’uso del participio perfetto indica che Miryàm era stata già eletta gratuitamente per grazia divina (senza suoi meriti personali), Dio lo aveva già stabilito antecedentemente e questa grazia era tuttora perdurante e anzi si realizzava proprio nel momento in cui l’angelo parlava. Qui traduce bene TNM: “altamente favorita”. Questa espressione (“favorita dalla grazia [κεχαριτωμένη (kecharitomène)]” spiega il motivo dell’esultanza cui Miryàm è inviata con quel “rallegrati!” o “gioisci!”. La “grazia” che Miryàm ha ricevuto è una grazia tutta speciale, quella di divenire madre del tanto atteso consacrato di Dio, il messia o cristo. È però del tutto antiscritturale poggiare su questo per fare di Miryàm quella “Santa Maria” o “Madonna” – del tutto fuori dal contesto biblico – che ne hanno fatto i cattolici, passando da una mariologia alla mariolatria. Tutti i credenti sono “gratificati” in Yeshùa (Ef 1:3-6). Il diacono Stefano era “pieno di grazia” (At 6:8). L’espressione usata per Stefano, plères chàritos (πλήρης χάριτος) è una formula molto somigliante a quel kecharitomène [κεχαριτωμένη] usato per Miryàm.

   Per far comprendere a Miryàm che poteva fidarsi di Dio, l’angelo continua assicurandole l’aiuto divino: “Il Signore è con te” (Lc 1:28). Questa frase designa la potenza divina che interviene nei momenti di pericolo. Ad Israele Mosè dice: “Quando andrai alla guerra contro i tuoi nemici e vedrai cavalli, carri e gente più numerosa di te, non li temere, perché il Signore, il tuo Dio, che ti fece salire dal paese d’Egitto, è con te” (Dt 20:1). A Isacco Dio rinnova il patto di Abraamo e gli assicura il possedimento del territorio perché gli dice: “Non temere, perché io sono con te” (Gn 26:24). Quando Giacobbe riceve l’ordine di lasciare la Mesopotamia per tornare in Palestina, Dio gli assicura: “Io sarò con te” (Gn 31:3). A Mosè che ha paura di presentarsi al faraone, Dio dice: “Va’, perché io sarò con te” (Es 3:12). Anche nelle parole rivolte a Miryàm c’è la stessa espressione: ‘Dio sarà con lei’ rendendo possibile ciò che umanamente non può esserlo.

   Da notare è anche l’atteggiamento diverso che l’angelo tiene prima con Zaccaria e poi con Miryàm. A Zaccaria che manifestava dubbi, l’angelo aveva opposto tutta la sua autorevole dignità e aveva detto: “Io son Gabriele che sto davanti a Dio” (Lc 1:19). Ma a Miryàm che chiede spiegazioni, risponde con umile rispetto dandole le spiegazioni (1:35). Alla domanda di Miryàm: “Come avverrà questo”? (1:34), l’angelo risponde rispettosamente fornendo una prova non richiesta: “Elisabetta, tua parente, ha concepito anche lei un figlio nella sua vecchiaia” (1:36). Ma alla domanda di Zaccaria: “Da che cosa conoscerò questo?” (1:18), l’angelo gli dà come segno della prova richiesta una punizione: “Tu sarai muto”. – 1:20.

   Al saluto dell’angelo, Miryàm “fu turbata” (1:19). Ella non si turbò per l’angelo, ma “ella fu turbata a queste parole” ovvero alle parole: “Ti saluto, o favorita dalla grazia; il Signore è con te” (1:28), perché “si domandava che cosa volesse dire un tale saluto” (1:29). Da notare che Miryàm si turba perché cerca di capire, mentre Zaccaria “fu turbato e preso da spavento”. – 1:12.

   L’angelo chiarisce a Miryàm il proprio messaggio preannunciando la nascita di Yeshùa, che significa “Yhvh salva” (1:31). Il nome doveva essere proprio quello: “Gli porrai nome” (1:31). Il nome era per gli ebrei sinonimo di sostanza e natura, per cui dare il nome equivaleva a rendere la persona così come era chiamata, almeno da parte di Dio: “Tu gli porrai nome Gesù [ebraico Yeshùa], perché è lui che salverà il suo popolo dai loro peccati”. – Mt 1:21.

   Occorre riflettere su ciò che Miryàm poté capire dalle parole dell’angelo: “Questi sarà grande e sarà chiamato Figlio dell’Altissimo, e il Signore Dio gli darà il trono di Davide, suo padre. Egli regnerà sulla casa di Giacobbe in eterno, e il suo regno non avrà mai fine” (1:32,32). Come comprese lei quelle parole? Come dovette intendere “trono di Davide” e “regnerà”? Al suo tempo il messia era particolarmente atteso. Il popolo ebraico attendeva però un messia politico che scacciasse gli invasori romani e ristabilisse il regno davidico. Anche quando Yeshùa era risorto, gli apostoli avevano ancora (e forse a maggior ragione lo potevano pensare) questa attesa materiale del regno: “Signore, è in questo tempo che ristabilirai il regno a Israele?” (At 1:6). Questa convinzione poteva indurre Miryàm ad aspettative diverse da quelle che poi si realizzarono. Questo spiegherebbe quel “serbava tutte queste cose nel suo cuore” che così spesso appare nei Vangeli riferito ai pensieri che Miryàm teneva per sé riguardo al figlio. Miryàm dovette essere perplessa circa la vera messianicità del figlio quando lo vide così lontano da quella prospettiva terrena. Fu solo con la discesa dello spirito santo a Pentecoste che fu chiara la spiritualità del regno messianico.

   Miryàm prova una naturale meraviglia di fronte all’annuncio dell’angelo: “Tu concepirai e partorirai un figlio” (1:31). Lei, vergine ma tutt’altro che ingenua, pone la domanda: “Come avverrà questo, dal momento che non conosco uomo?” (1:34). La domanda, che è posta in linguaggio ebraico, suonerebbe così nel nostro linguaggio occidentale: Come può essere, dato che non ho rapporti sessuali con un uomo? “Non conosco uomo” (nel linguaggio biblico significa non ho rapporti sessuali con un uomo) è al presente, perciò: Fino a questo momento non ho avuto e non ho. A questo stato di cose (l’assenza di rapporti sessuali tra lei e Giuseppe) va aggiunta la considerazione che lei era una donna e quindi non poteva decidere nei riguardi del suo promesso sposo. L’annuncio dell’angelo le appariva quindi quanto mai problematico. Casomai doveva essere rivolto a Giuseppe (come nel caso di Zaccaria) e non a lei. È qui pertinente un commento dell’antico esegeta ebreo Rashi su Gn 3:16: “L’atto coniugale potrà essere desiderato dal cuore della donna, l’uomo al contrario può volerlo e con la bocca ordinarlo”. Questa era la realtà maschilista del tempo. Quindi, secondo la mentalità ebraica, l’angelo rivolgendosi direttamente a Miryàm anziché a Giuseppe stava annunciando qualcosa di veramente straordinario. Da qui la domanda di perplessità di Miryàm: come poteva accadere, dato che lei, donna che non poteva decidere, non aveva mai avuto e non aveva tuttora alcun rapporto con un uomo?

   L’angelo elimina la difficoltà di Miryàm: “Lo Spirito Santo verrà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà dell’ombra sua; perciò, anche colui che nascerà sarà chiamato Santo, Figlio di Dio” (1:35). L’”ombra” sta qui ad indicare il potere e la potenza dello spirito santo di Dio; è usato il parallelismo tanto amato dagli ebrei, per cui in una stessa frase si ripete la stessa cosa con due espressioni diverse: lo spirito santo  verrà su di te = la potenza dell’Altissimo con la sua ombra ti coprirà. Quando il Tempio di Gerusalemme fu inaugurato, Dio mostrò la sua presenza con l’“ombra”: “La nuvola riempì la casa del Signore” (1Re 8:10), e quella nuvola è definita “oscurità” al v. 12. Anche al tempo dell’Esodo “la nuvola coprì la tenda di convegno” (Es 40:34), e quel “coprì” dovrebbe essere tradotto “copri con la sua ombra” dato che il verbo greco utilizzato nella LXX è ἐπεσκίαζεν (epeskìazen) che contiene il vocabolo σκιά (skià), “ombra”, appunto.

   “Sarà chiamato Figlio dell’Altissimo” (1:32). “Figlio” non necessariamente indica la natura identica. Indica invece la funzione particolare e il particolare rapporto con Dio. Anche i re e i magistrati sono chiamati “figli di Dio” nelle Scritture Ebraiche, in quanto rappresentanti di Dio sulla terra per dirigere il popolo di Dio e amministrare la giustizia di Dio (Sl 45:6;82:6). Va poi notato che Yeshùa “sarà chiamato Figlio” (1:32) in quanto nato dallo spirito santo (1:35). Questa nascita non riguarda affatto la generazione eterna di un essere spirituale, ma il concepimento e la nascita di Yeshùa uomo che non ha per padre un uomo terreno ma Dio che agì con la sua forza santa. Così, del resto, fece anche con il primo uomo “Adamo, [figlio] di Dio”. – 3:38.

   “Colui che nascerà sarà chiamato Santo” (1:35). In ebraico “santo” significa “separato”, appartato per uno scopo speciale. Come deve essere tradotta questa parte del versetto 35?

 

NR: “Colui che nascerà sarà chiamato Santo, Figlio di Dio”;

CEI: “Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio”

Did: “Ciò che nascerà da te Santo sarà chiamato Figliuol di Dio”

ND: “Il santo che nascerà da te sarà chiamato figlio di Dio”

Lu: “Il santo che nascerà, sarà chiamato Figliuolo di Dio”

TNM: “Quello che nascerà sarà chiamato santo, Figlio di Dio”

Testo originale greco

διὸ καὶ τὸ γεννώμενον ἅγιον κληθήσεται υἱὸς θεοῦ

diò kài to ghennòmenon àghion klethèsetai ϋiòs theù

perciò e ciò che nascente santo sarà chiamato figlio di Dio

 

   Le traduzioni possibili sono due:

  1. Ciò che nascerà santo sarà chiamato figlio di Dio
  2. Ciò che nascerà sarà chiamato santo e figlio di Dio

     In questo secondo caso, come si nota, nella traduzione è stata aggiunta la congiunzione “e”. Non è una libertà dei traduttori. Se fossimo di fronte ad una pagina di greco classico saremmo autorizzati a tradurre “e” solo alla presenza del corrispettivo greco καί (kài), “e”. Ma qui si tratta di greco popolare, koinè, e la congiunzione “e” non è indispensabile. Abbiamo casi ben attestati. Per citarne uno: “Se chiami il sabato una delizia e venerabile ciò che è sacro” (Is 58:13), nel testo greco della LXX la frase è letteralmente: “Se chiami i sabati delizie santi a Dio”; i traduttori mettono una “e” (come NR citata) oppure una virgola (come TNM: “chiamerai il sabato uno squisito diletto, un [giorno] santo”). Difficile dire quale delle due traduzioni sia più corretta nel caso di Lc 1:35.

   L’angelo adduce poi, senza che ne sia richiesto, un segno a conferma della veridicità del suo messaggio: anche la sterile Elisabetta sta per avere un figlio ed è già al sesto mese di gravidanza, “poiché nessuna parola di Dio rimarrà inefficace” (Lc 1:36,37). Si noti il concetto biblico che attribuisce un valore immancabile alla parola di Dio: essa è onnipotente come Dio stesso, essendo la sua parola.

   A Miryàm non resta altro che proclamare la sua pronta ubbidienza, e lo fa con convinzione: “Ecco, io sono la serva del Signore; mi sia fatto secondo la tua parola”. – Lc 1:38.

   Qui Miryàm è un esempio mirabile di fede:

   1. Crede e ubbidisce; non ci può mai essere fede senza ubbidienza. Chi crede davvero non ha una sterile fede intellettuale, ma la mostra nell’ubbidienza. Giacomo dirà: “A che serve, fratelli miei, se uno dice di aver fede ma non ha opere? Può la fede salvarlo? […] La fede senza le opere è morta” (Gc 2:14,26). Miryàm crede e aggiunge: “Mi sia fatto”.

   2. Miryàm ha accettato tutto senza riguardi personali o di tornaconto. Che avverrà poi? Giuseppe mi abbandonerà? Mi crederà, quando gli spiegherò? Penserà male di me? Penseranno male di me gli altri? Ella non si cura affatto di sé e della sua reputazione. Ubbidisce. Dio provvederà. Ci penserà Dio.

   Sembra che Miryàm poi abbia riferito questo fatto a Giuseppe, sia pure in modo delicato. Infatti pare che Giuseppe sapesse qualcosa quando l’angelo gli confermò che il nascituro era veramente stato concepito per virtù divina: “Ciò che in lei è generato, viene dallo Spirito”. – Mt 1:20.

   Non occorre pensare necessariamente che Giuseppe volesse lasciare Miryàm perché non le credeva. Non fu Giuseppe a trovarla incinta, ma ella “si trovò incinta” (Mt 1:18). Si può anche pensare che egli le avesse creduto e si sentisse indegno di convivere con una donna così straordinariamente benedetta da Dio. Infatti “Giuseppe, suo marito, che era uomo giusto e non voleva esporla a infamia, si propose di lasciarla segretamente” (Mt 1:19). Se l’avesse lasciata pubblicamente l’avrebbe esposta a infamia, ma – d’altra parte – se non le avesse creduto, lo avrebbe fatto proprio perché “era uomo giusto”. L’assicurazione dell’angelo che “ciò che in lei è generato, viene dallo Spirito” insieme all’invito di “non temere” di prenderla con sé (Mt 1:20) convinse Giuseppe che “fece come l’angelo del Signore gli aveva comandato e prese con sé sua moglie” (v. 24), pur non avendo per riguardo “con lei rapporti coniugali finché ella non ebbe partorito”. V. 25.