Dopo le due annunciazione a Zaccaria e a Miryàm seguono i due racconti della nascita del battezzatore e di Yeshùa.

   1. Giovanni il battezzatore (Lc 1:57-80).

   Una nascita è sempre occasione di gioia. Anche i parenti di Zaccaria si rallegrano, e in modo particolare perché vi videro la “grande misericordia” (v. 58) divina che aveva rimosso la sterilità di Elisabetta. Lei, forse avvertita da Zaccaria, voleva chiamare quel bambino benedetto da Dio con il nome di Giovanni. Il padre, interpellato con gesti (il che fa pensare che doveva essere al momento anche sordo, oltre che sicuramente muto), scrisse su una tavoletta il nome “Giovanni”, suscitando la meraviglia generale. Riavuta poi la facoltà di parlare si diede a magnificare Dio. Queste meravigliose notizie si diffusero. Luca, che ama finire un racconto prima di passare al successivo, anziché spezzare il racconto della nascita introducendovi l’inno di ringraziamento (attribuito a espressa ispirazione divina: “Zaccaria, suo padre, fu pieno di Spirito Santo e profetizzò”, v. 67), lo aggiunge come sua conclusione. Ecco il tema delle sue strofe:

 

Vv. 68-75

Descrizione

del Salvatore

“Ci ha suscitato un potente Salvatore [letteralmente “un corno di salvezza”]

nella casa di Davide”.

v. 69

“Uno che ci salverà”.

v. 71

Dio ci rende possibile di servirlo

“in santità e giustizia”.

(Trasformerà quindi spiritualmente

anche gli animi).

v. 75

vv. 76-79

La missione

di Giovanni

“Andrai davanti al Signore

per preparare le sue vie,”

v. 76

“per dare al suo popolo conoscenza della salvezza mediante il perdono dei loro peccati”.

(Il battezzatore insegnerà dunque che la salvezza non viene da una rivoluzione politica, ma dal condono dei peccati),

v. 77

“L’Aurora dall’alto ci visiterà”.

(Compito di Giovanni è annunciarlo).

v. 78

“Per risplendere su quelli che giacciono in tenebre e in ombra di morte, per guidare i nostri passi verso la via della pace”.

(Il salvatore annunciato da Giovanni sarà luce e vita e serenità; solo lui dispenserà queste cose).

v. 79

 

   Sempre per il fatto che Luca ama terminare i racconti, con una pennellata meravigliosa presenta la crescita di Giovanni nel deserto: “Il bambino cresceva e si fortificava nello spirito; e stette nei deserti fino al giorno in cui doveva manifestarsi a Israele”. – V. 80.

   È probabile che proprio “nei deserti” il battezzatore venisse in contatto con gli esseni che vivevano ritirati a Qumràn. Questo spiegherebbe il tenore di vita di Giovanni il battezzatore, l’abito strano che indossava e la sua predicazione così affine agli scritti qumramici. Anche i discepoli del battezzatore – tra cui l’apostolo Giovanni (Gv 1:35,36,40-42) – sono quelli che più di altri presentano affinità con espressioni essene. Ciò non deve stupire. Dio si serve infatti per i suoi fini di mezzi umani e, anche sotto l’aspetto dell’ispirazione, lascia l’uomo figlio del suo ambiente.

   2. La nascita di Yeshùa (Lc 2:1-38).

   Dai dati biblici risulta che Yeshùa nacque al tempo di Erode (Mt 2:1; Lc 1:5) in occasione di un censimento ordinato dall’imperatore romano Cesare Augusto. È storico tale dato? Sì. È risaputo che Cesare Augusto amava conoscere le risorse del suo impero. Dal documento di Ancira risulta che egli fece tre censimenti nei territori della repubblica romana il 28, l’8 a. E. V. e il 14 E. V., riservati ai cittadini romani. In Egitto i censimenti si attuavano regolarmente ogni 14 anni nei primi tre secoli dell’èra volgare; si ignora tuttavia se avessero avuto inizio prima. In censimento compiuto nelle Gallie il 27 E. V. vi suscitò dei veri tumulti (Livio, Ep. 136,137). Secondo un’indicazione piuttosto vaga dello storico Dione, esso si sarebbe esteso anche alla Spagna (53,1,8). In Palestina se ne compì uno il 6/7 E. V. quando tale regione, con la destituzione di Archelao (esiliato a Vienne), passò in mano di Roma che vi prepose il suo procuratore Coponio. In tale occasione divampò la rivolta del galileo Giuda di Gamala che acquietò solo per intervento dei sadducei (Giuseppe Flavio, Antichità Giudaiche 20,1,1;12,9,1 n. 277; 17,5,2 n. 89). Di ciò è conservata traccia anche nella Bibbia: “Sorse Giuda il Galileo, ai giorni del censimento, e si trascinò dietro della gente” (At 5:37). Di questo censimento parla anche l’iscrizione di Apamea, città palestinese, da cui risulta che l’incaricato romano Q. Emilio Secondo censì lì 117 persone. – Inscriptiones CIL Suppl. I n. 6687.

   Dati questi precedenti si comprende come Dione potesse scrivere che “Augusto fece il censimento, recensendo quanto aveva a disposizione, come avrebbe fatto un privato qualsiasi” (Ibidem 54,35 e sgg.). Si comprende allora come all’inizio del regno di Tiberio, successore di Augusto, abbia potuto leggersi una memoria “contenente l’inventario delle risorse imperiali, il numero dei cittadini, degli alleati d’armi, delle flotte, dei regni, delle province, la situazione tributaria e redditizia, le spese obbligatorie. Tutti questi particolari Augusto li scrisse di proprio pugno”. – Tacito, Annales I,11.

   Poté l’imperatore attuare un censimento al tempo in cui Erode era a capo della Giudea? Pur mancando una documentazione esplicita, si può propendere per la risposta affermativa in quanto Erode di fatto era semplicemente un suddito romano che aveva ricevuto il suo potere dal senato. Naturalmente tale censimento non dovette consistere nella denuncia dei beni (come nel 6/7 E. V. in cui ci fu la reazione degli estremisti), ma solo in una attestazione di fedeltà a Roma. Ad esso può alludere un brano di Giuseppe Flavio in cui un certo Nicola così parla dei farisei: “Essi sono gente capace di tenere testa anche ai re; sono previdenti, testardi, pronti a combatterli e a nuocere loro apertamente. Infatti, quando tutto il popolo giudaico aveva con giuramento confermato la sua devozione all’imperatore e al governo regio, questi uomini, in gruppo superiore a seimila, non vollero affatto giurare. Avendo il re inflitto loro un’ammenda, la moglie di Pherora la pagò tutta al loro posto”. – Antichità Giudaiche 16,2,4 n. 42; corsivo aggiunto per enfasi.

   Da questo si deduce che al tempo di Erode vi fu una specie di plebiscito generale che può benissimo identificarsi con il censimento di cui parla Luca. Più di così non si può dire. Il fatto poi che nel censimento siano stati inclusi anche i galilei, tra cui Giuseppe e Miryàm che dovettero recarsi a Betlemme (luogo di origine della famiglia davidica; cfr. 1Sam 16:1: “Ti manderò da Isai di Betlemme, perché mi sono provveduto un re tra i suoi figli”), fa capire che a quel tempo il regno non era ancora diviso. Ciò avvenne solo al tempo di Erode il Grande. È infatti molto inverosimile che nel 6/7 E. V. anche i sudditi del re Antipa siano stati obbligati a recensirsi assieme a quelli dell’ex regno di Archelao. – Giuseppe Flavio, Antichità Giudaiche 17,5,2 n. 89.

   Siccome Erode, per ragioni di salute, trascorse l’ultimo anno della sua vita a Gerico e non a Gerusalemme, e dato che egli fece uccidere i bambini dai due anni in giù, si può supporre che Yeshùa sia nato al massimo circa tre anni prima della morte di Erode.

   I giudei ellenistici contavano il tempo secondo l’èra seleucida che ebbe inizio il 1° ottobre del 312 a. E. V.. Ma i discepoli di Yeshùa, provenienti dai gentili, computavano gli eventi seguendo l’èra di Roma con inizio al 1° gennaio del 753 a. E. V. (Varrone) o del 754 (Cicerone). L’attuale èra volgare o “cristiana” fu stabilita dal monaco scita Dionigi il Piccolo, per unificare i vari calendari esistenti e per indicare che Yeshùa fu l’iniziatore di un’èra nuova e il centro della storia.

   Secondo alcuni moderni studiosi, Dionigi avrebbe commesso l’errore di ancorare l’èra “cristiana” al 1° gennaio 754 a. E. V. senza accorgersi che alla data stabilita per la nascita di Yeshùa il re Erode era già morto. Questi studiosi ritengono quindi che la nascita di Yeshùa vada anticipata come minino di sei o sette anni e collocata probabilmente al 6/7 a. E. V.. Secondo loro, ovviamente.

   Secondo Luca il censimento si attuò durante il governatorato di Quirino sulla Siria: “Fu il primo censimento fatto quando Quirino era governatore della Siria” (2:2). Questa notizia biblica ha suscitato un non piccolo problema storico perché Quirino, proconsole della Siria, fu sì incaricato di svolgere un censimento in tutto il suo territorio (che includeva anche la Palestina), ma solo nel 6 E. V..

   I dati biografici di Quirino si possono riassumere cronologicamente come segue (fonte: Strabone, 12,6,5):

   • 12 a. E. V.

          elezione a console

   •  6-5 (?) a. E. V.

          vittoria sugli omonadi, briganti della Cilicia, che avevano ucciso il re Aminta   

   •  2-3 E. V.

          andata in Asia, dove fu consigliere di Caio Cesare (nipote di Augusto)

   •  6 E. V.

          proconsole della Siria e censimento in Giudea

   •  21 E. V.

          sua morte

   Di Quirinio parla assai bene anche lo storico Tacito: “Fu indefesso nella milizia e nei servizi più duri, ottenne il consolato sotto il divino Augusto, e subito espugnati i castelli degli omonadi per tutta la Cilicia, ottenne le insegne del trionfo; fu poi dato come capo a Caio Cesare che espugnava l’Armenia”. – Annales III,48.

   Prescindendo dall’ipotesi che il censimento cui partecipò Giuseppe, anteriore a questo di Quirino, sia stato erroneamente confuso con questo ben più noto, si è cercato di risolvere il problema in uno dei tre modi seguenti:

   1. Quirino fu proconsole due volte.

   2. Due proconsoli ressero contemporaneamente la Siria.

   3. Il testo biblico va tradotto: ‘prima del censimento di Quirinio’.

   In quanto alla prima ipotesi (Quirino proconsole due volte), si porta a testimonianza una frammentaria iscrizione di Tivoli in cui si parla di una persona (di cui purtroppo manca il nome) che dopo essere stato “legatus divi Augusti iterum Syriam et Phoe obtinuit” (“Legato del divino Augusto ottenne per la seconda volta la Siria e la Fenicia”). Dato che poi vi si parla della vittoria sugli omonadi, l’iscrizione viene riferita a Quirino. La sua prima legazione siriana si dovrebbe collocare tra gli anni 11-9 a. E. V., ossia nell’intervallo tra Tizio e Senzio Saturnino. Il censimento della Siria iniziato da Quirino sarebbe poi stato ultimato da Senzio Saturnino, dato che Quirino dovette andare a combattere gli omonadi. Per questo Tertulliano attribuisce il censimento di Quirino di cui parla Luca a Saturnino: “Consta pure che ci sia stato un censimento sotto Augusto nella Giudea per mezzo di Senzio Saturnino, da cui si può ricercare la sua [di Yeshùa] origine” (Adv. Marc. 4,19). Tuttavia, l’iscrizione di Tivoli può essere intesa diversamente senza dover concludere a una duplice legazione di Quirino in Siria. Infatti l’“iterum” (“di nuovo” o “una seconda volta”) non necessariamente implica che Quirino fosse già stato in Siria; si può intendere: Essendo già stato legato (altrove), di nuovo ottenne di divenire legato anche della Siria e della Fenicia. Né Giuseppe Flavio né Tacito parlano di un suo duplice proconsolato in Siria. Per di più, è proprio sicuro che l’iscrizione di Tivoli parli proprio di Quirino? Potrebbe benissimo trattarsi di qualcun altro, dato che il nome non appare. Questa ipotesi lascia quindi aperto il problema in quanto non lo risolve in maniera soddisfacente. Non ne segue affatto, però, che Luca si sia inventato di far nascere Yeshùa a Betlemme e fargli così attuare le profezie: Luca, infatti, non menziona nemmeno tali profezie.

   La seconda ipotesi dei due proconsoli contemporanei cerca di trovare una conferma nell’iscrizione di Antiochia di Pisidia, in cui risulta che P. Sulpicio Quirino fu diùmviro ad Antiochia con M. Servilio (H. Dessau, Qu den nenen inscrhipten das des Sulpicius Quirinius, in “Klio” 17 pagg. 252-258). Questa iscrizione manca di ogni indicazione cronologica, per cui non è di nessun valore per nostro problema. Anche se possono essere addotti altri casi di due consoli contemporanei, come Saurnino e Volumnio (Giuseppe Flavio, Antichità Giudaiche 16,9,1), Varo e Sabino (idem, 16,9,1), non vi è tuttavia alcuna documentazione sicura che attesti la stessa cosa per Quirino.

   La terza ipotesi poggia su una soluzione filologica. Si attribuisce un valore particolare al πρώτη (pròte) lucano traducendolo con “prima di” anziché che con “primo”: “Questo fu prima del [πρώτη, pròte] censimento fatto quando Quirino era governatore della Siria” (2:2). Questa ipotesi è senz’altro possibile. Questo uso di pròte nel greco popolare delle Scritture Greche appare in Gv 1:15,30: “Colui che viene dopo di me mi ha preceduto, perché era prima di [πρῶτός  (pròtòs)] me”, “egli era prima di [πρῶτός (pròtòs)] me”. Così anche in Gv 15:18: “Se il mondo vi odia, sapete bene che prima di [πρῶτον (pròton)] voi ha odiato me”. Ci sono casi così anche nel greco della LXX che traduce le Scritture Ebraiche. Mentre le due precedenti ipotesi non sono storicamente accertate, la terza è un’ipotesi possibile. Questo non la rende certa, ma solo possibile.

   Giuseppe si recò per il censimento “alla sua città” (Lc 2:3), il che lascia supporre che egli avesse abbandonato non da molto Betlemme. Giuseppe viene detto “della casa e famiglia di Davide” (v. 4) o “della casa e della famiglia di Davide” (TNM); qui le traduzioni sembrano scambiarsi i termini come fossero sinonimi; il passo andrebbe tradotto: “Era del casato [o “famiglia”] e della stirpe di Davide [ἐξ οἴκου καὶ πατριᾶς Δαυείδ (ecs òiku kài patria Dauèid)]”. Israele era suddivisa in 12 tribù originate dai 12 figli di Giacobbe (detto poi Israele). Ogni tribù era poi suddivisa in stirpi derivanti dai vari figli avuti dai capostipiti delle tribù. Queste stirpi erano a loro volta suddivise in “famiglie” o casati. Giuseppe non solo apparteneva alla stirpe davidica, ma alla sua stessa famiglia.

   Al censimento Giuseppe partecipò con Miryàm, detta “sua sposa, che era incinta” (v. 5), in quanto così doveva essere dichiarato all’anagrafe presso di cui erano andati “per farsi registrare [ἀπογράψασθαι (apogràpsasthai); il verbo al medio indica l’azione compiuta dal soggetto a proprio riguardo]” . – V. 5.

   Il v. 7 di Lc 2 viene tradotto di solito come se gli sposi non avessero trovato posto nel caravanserraglio [ἐν τῷ καταλύματι (en to katalΰmati)] per la loro povertà o per altre ragioni e avessero dovuto ripararsi in una grotta usata come stalla: “Lo [il neonato Yeshùa] coricò in una mangiatoia, perché non c’era posto per loro nell’albergo”; “Lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché nell’alloggio non c’era posto per loro” (TNM). Ma nel Medio Oriente l’ospitalità è così sacra che un tale comportamento sarebbe stato inconcepibile. Alcuni pensano che il caravanserraglio (che era costituito da un cortile per gli animali circondato da portici aperti per le persone) era troppo esposto agli sguardi indesiderati e quindi inadatto ad una partoriente. Ma la situazione è ben diversa e mette in miglior luce i betlemmiti che come sempre furono ospitali e cordiali. Il “mentre erano là” (v. 6) ci indica che i due coniugi erano già arrivati a Betlemme, dove si erano stabiliti forse presso parenti o amici; Giuseppe era infatti di Betlemme ed è probabile che avesse lì parenti e amici. Solo più tardi, quando già erano là, giunse per Miryàm il tempo del parto. È a Betlemme e non in una qualche grotta dei dintorni che i maghi si recano per trovare Yeshùa. – Lc 2:11,15.

   Il bimbo fu posto en fatne (ἐν φάτνῃ), in una “fàtne” – v. 6. Questo termine greco può indicare una “mangiatoia” ma anche una “stalla”. Questo risulta da diversi passi biblici: “Stalle [greco φάτνας (fàtnas); LXX]  per ogni sorta di bestiame” (2Cro 32:28); “Non ci saranno più buoi nelle stalle [greco φάτναις (fàtnais); LXX]” (Ab 3:17). Probabilmente lo stesso valore di “stalla” si rinviene in Is 1:3 (“L’asino [conosce] la greppia del suo padrone”; “L’asino [conosce] la mangiatoia [greco φάτνην, fàtnen; LXX] del suo proprietario”, TNM). E forse lo stesso senso di “stalla” si ha in Lc 13:15: “Ciascuno di voi non scioglie, di sabato, il suo bue o il suo asino dalla mangiatoia [greco φάτνης (fàtnes)] per condurlo a bere?”, tanto che TNM traduce: “Ciascuno di voi non scioglie di sabato il suo toro o il suo asino dalla stalla e non lo conduce a bere?”. Nel passo di Lc che stiamo considerando, il senso di “stalla” si impone in quanto è in rapporto con κατάλυμα (katàlüma, “luogo di sosta”, “caravanserraglio”): al posto di una stanza vi è una stalla. Sarebbe inappropriato dire che al posto di una stanza c’era una mangiatoia.

   Che cosa è il κατάλυμα (katàlüma)? Etimologicamente indica un luogo dove si sciolgono gli animali (come i caravanserragli), luogo di una tappa, luogo dove si toglie il basto agli animali; ma anche un ripostiglio per il grano. La parola è composta da κατά (katà) che significa “da”, “giù”, e dal verbo λύω (lΰo) che significa “sciogliere”. Questo è il suo valore in Es 4:24: “Mentre Mosè era in viaggio, il Signore gli venne incontro nel luogo dov’egli pernottava [greco ἐν τῷ καταλύματι (en to katalΰmati); LXX]”. Altrove indica però “stanza” di casa, come in 1Sam 1:18 (“La donna se ne andò per la sua via”; “La donna se ne andava per la sua via”, TNM) in cui il testo greco della LXX aggiunge εἰς τὸ κατάλυμα αὐτῆς (èis to katàlüma autès, “verso casa sua”). “Samuele prese Saul e il suo servo, li introdusse nella sala [greco κατάλυμα (katàlüma); che era certo una “sala” e non una “stalla”; LXX]” (1Sam 9:22). Lo stesso senso lo ha pure nel Vangelo di Luca: “Dov’è la stanza [greco κατάλυμα (katàlüma); e certo non era una “stalla”) nella quale mangerò la Pasqua con i miei discepoli?”. – 22:11.

   Mancando il posto adatto nella “stanza”, Giuseppe e Miryàm furono accolti in una “stalla”, dove Yeshùa venne alla luce. Egli nacque così, uomo tra gli uomini, in mezzo agli strumenti della fatica umana. Questo fatto della “stalla” spiega tutte le varie tradizioni che parlano della nascita di Yeshùa. Giustino nel 2° secolo parla di una “grotta” perché a Betlemme, cittadina molto piccola (Mic 5:1), le case risultavano di un vano in muratura addossato ad una grotta. – Contro Trifone 70 PG 6,640.

   Luca parla di “stalla” perché usualmente le grotte di Betlemme erano adibite a ripostigli e stalle. Matteo parla di “casa” in quanto la grotta costituiva una parte integrante della casa costruita di fronte ad essa. Ancora oggi nei pressi di Betlemme i beduini piantano spesso le loro tende all’imbocco delle grotte naturali.

   Accanto alla grotta che i primi credenti indicavano come quella della nascita di Yeshùa, Adriano fece erigere – per odio verso i discepoli di Yeshùa – un tempio dedicato a Tammuz, l’Adone dei greci e l’amante di Venere, con il relativo boschetto nero. Costantino vi eresse invece la prima basilica che in seguito fu trasformata da Giustiniano in uno dei più bei templi d’Oriente, formato da cinque navate e detto “Basilica della Natività”. L’originale grotta, che misura 12 m per 3,5 m vi è conservata all’interno.

   Per meglio sottolineare l’umiliazione di Yeshùa, la devozione popolare tramandò l’idea che il bambino, privo di pannolini, dovette essere riscaldato dall’alito di un bue e di un asinello. Ma Luca spiega bene che Miryàm “diede alla luce il suo figlio primogenito, lo fasciò, e lo coricò” (2:7), la qual cosa costituisce pure un segno per i pastori: “Questo vi servirà di segno: troverete un bambino avvolto in fasce e coricato in una mangiatoia” (v. 12). Qualche esegeta vorrebbe vedere nelle fasce un’allusione al detto di Salomone riferito alla sapienza e presente nell’apocrifo Sapienza: “Anch’io appena nato ho respirato l’aria comune e sono caduto su una terra uguale per tutti, levando nel pianto uguale a tutti il mio primo grido. E fui allevato in fasce e circondato di cure” (7:3,4). Qualcuno si spinge oltre affermando che Luca presenterebbe Yeshùa come nuovo Salomone. È invece più probabile che le affermazioni lucane siano da porsi in contrasto con l’attesa messianica dei giudei: Yeshùa non si presenta come il re vittorioso che aspettavano gli ebrei, ma come un bimbetto bisognoso e dipendente dalla madre, visitato non da re ma da pastori. Così appariva il paradosso evangelico: Yeshùa, il re consacrato, deve trionfare mediante la debolezza e l’umiltà.

   La stessa tradizione popolare, divenuta tradizione “cristiana” (ma non biblica) afferma che Yeshùa sarebbe nato tra un bue e un asinello. Certo questi due animali non mancavano quasi mai nelle famiglie contadine dei giudei: “Non scioglie forse, di sabato, ciascuno di voi il bue o l’asino dalla mangiatoia, per condurlo ad abbeverarsi?” (Lc 13:15). Il particolare del bue e dell’asinello è quindi possibile, ma la Bibbia lo tace. Probabilmente esso deriva da un Vangelo apocrifo che così scrive: “Il terzo giorno della nascita del Signore, Maria uscì dalla grotta ed entrò in una stalla, ponendo il bambino nella mangiatoia. Il bue e l’asino lo adorarono. S’adempì allora quel che era stato detto dal profeta Isaia che dice: ‘Il bue ha conosciuto il suo padrone e l’asino il presepe del suo Signore’. E questi animali, avendolo nel mezzo, lo adoravano senza posa. S’adempì allora ciò che era stato detto dal profeta Ababuc che dice: ‘In mezzo a due animali ti farai conoscere’. In quel medesimo luogo Giuseppe e Maria restarono con il bambino tre giorni” (Pseudo Matteo 1:14). Questa è pura leggenda creata da un apocrifo. Per di più, le due profezie sono intese erroneamente. Infatti, la prima citazione (da Is 1:3) dice: “Il bue conosce il proprietario e l’asino la greppia del padrone” e qui non si parla affatto di messia ma si vuole stabilire un confronto tra l’istinto dei due animali che sono riconoscenti verso il proprio padrone che li ciba e l’ingratitudine di Israele che manca di riconoscenza verso Dio; il passo isaiano conclude: “Ma Israele non conosce e il mio popolo non comprende”. La seconda citazione è tratta da Ab 3:2: “Signore, ho ascoltato il tuo annunzio, Signore, ho avuto timore della tua opera. Nel corso degli anni manifestala, falla conoscere nel corso degli anni”; la citazione però non è altro che una traduzione latina mal riuscita che nel testo ebraico ha tutt’altro significato. Il testo dell’apocrifo ha: “In medio duorum animalium innotesceris” (“In mezzo a due animali ti farai conoscere”) al posto dell’ebraico “Nel corso degli anni manifestala”. La traduzione latina della Vulgata ha però la traduzione giusta: “In medio annorum vivifica illud” (“Nel corso degli anni manifestala”). Ciò che il profeta Abacuc intendeva era la preghiera che la redenzione divina si attuasse al più presto, nella sua stessa generazione. Lo scrittore dello Pseudo Matteo ha interpretato male il testo greco della LXX di Abacuc: ἐν μέσῳ δύο ζῴων (en meso dΰo zòon; letteralmente: “entro pochi anni”), scambiando lo zòon (“età”, “anni”) con zòon inteso come “viventi”, “animali”. Da qui l’errata interpretazione e la pessima traduzione: il greco “entro pochi anni” è diventato nel latino “tra due animali”.

   Quello di Miryàm fu un parto miracoloso? In Luca non v’è alcuna allusione alla nascita straordinaria di Yeshùa senza la rottura dell’imène in modo da conservare la perpetua verginità di Miryàm. L’ipotesi del parto nella perpetua verginità di Miryàm si vorrebbe sostenerlo con il fatto che lei stessa fasciò il bambino (Lc 2:7). Ma il parto nel mantenimento della verginità viene escluso dalla “purificazione secondo la legge di Mosè” (Lc 2:22) a cui Miryàm si sottopose e che era legata alla perdita di sangue con la rottura della placenta. Nei primi secoli della chiesa o congregazione vi fu libera discussione sulla verginità di Miryàm durante il parto. Mentre si sosteneva (biblicamente) che il concepimento era stato verginale, non si sosteneva affatto che il parto fosse stato verginale. Tertulliano (morto verso il 200), nel suo commento alle parole del Sl 22:9 (“Tu m’hai tratto dal grembo materno”), usa delle espressioni fin troppo crude: “Ora che cosa è ciò che è stato tratto se non ciò che aderisce, ciò che è fermamente legato a qualcosa da cui è stato tratto purché ne venga separato? Gesù era legato al grembo come alla sua origine mediante il cordone ombelicale che gli comunicava la crescita della matrice. Anche quando una cosa differente si amalgama con un’altra, essa diviene del tutto incorporata con quella con cui è amalgamata e quando ne viene tratta porta con sé alcune arti del corpo da cui è stata tratta” (De Carme Christi 20, CC II, 909 PL 2,785). Anche Girolamo usò espressioni assai realistiche come: “Ella attese nove mesi per la sua nascita, ne sopportò le sofferenze ed egli uscì con sangue” (Epist. 22,39 PL 22,423). Come si nota, i primi “padri” non erano difensori di un parto verginale. La verginità a essi importava ben poco. Chiamavano vergini le martiri che avevano fatto voto di verginità, anche se prima di morire dovevano essere deflorate, essendo impossibile per la legge romana uccidere una vergine. Fu solo il Concilio Laterano del 649 E. V. tenuto da alcuni vescovi occidentali (non fu un concilio ecumenico) che così affermò: “Chiunque non crede al parto di Gesù da Maria senza corruzione, mentre ella ebbe la sua verginità inviolata anche dopo il parto, sia scomunicato”. – Ephes. Symb. 256.