Nota: tutte le citazioni bibliche di questo studio – se non altrimenti specificate – sono tratte dalla versione TILC.


 

Il salmista pose questa domanda a Dio: “Chi è mai l’uomo perché ti ricordi di lui?”. – Sl 8:4.

   Per una lettura spiritualmente davvero efficace dovremmo intendere ogni frase della Scrittura come diretta a noi personalmente oggi. La domanda del salmista diventa allora una nostra domanda rivolta a Dio:

Chi sono mai io perché Tu mi prenda in considerazione?

   Ancora prega il salmista: “Chi è l’uomo, Signore, perché tu ne abbia cura?” (Sl 144:3). E di nuovo, applicandolo a noi stessi, domandiamo:

Chi sono io, Signore, perché tu ne abbia cura?

   Lo scrittore di Eb deve essere stato colpito da questo passo, perché egli lo rammenta:

“In una pagina della Bibbia qualcuno ha dichiarato:

Che cos’è l’uomo, o Dio, perché tu ti ricordi di lui?

che cosa è un essere umano, perché ti curi di lui?

L’hai fatto di poco inferiore agli angeli,

l’hai coronato di gloria e di onore,

gli hai dato potere su tutte le cose”. – Eb 2:6-8.

   “Di poco inferiore agli angeli”. Eppure, molto simile agli animali. “Gli uomini e le bestie hanno lo stesso destino: tutti devono morire. Tutti hanno lo stesso spirito vitale ma l’uomo non è superiore agli animali. Tutto è come un soffio. Tutti vanno allo stesso luogo. Tutti vengono dalla polvere e tutti alla polvere ritorneranno” (Ec 3:19,20). Tuttavia, nonostante ciò che ci accomuna con gli animali, tra noi e loro c’è un abisso. L’essere umano è “di poco inferiore agli angeli”. Solo gli esseri umani sanno misurare se stessi secondo ideali di motivazione e azione. Noi occupiamo una posizione superiore rispetto a tutte le altre creature, siamo ‘di poco inferiori agli angeli’. Ciò è dovuto al fatto che Dio ci ha donato la ragione, ci ha dotato di senso etico, ci ha insegnato che cos’è giusto e che cosa è sbagliato. Non solo. Noi sentiamo il bisogno di dare un significato alla nostra vita. Noi dimostriamo l’umanità che Dio ci ha donato: attribuiamo ai nostri comportamenti un obbligo nei confronti dei diritti e dei doveri. Gli esseri umani – noi – sono le uniche creature sulla terra che sanno trarre gioia dal resistere alle tentazioni e alle gratificazioni facili e immediate della costante ricerca del piacere puramente egoistico.

   Sarà anche un paradosso, ma le stesse scuse che si accampano per aver fatto qualcosa di male o non aver fatto qualcosa di bene, queste stesse giustificazioni tradiscono il riconoscimento e l’accettazione dei principi di giusto e sbagliato.

   Ogni volta che il clima morale si fa eccessivamente permissivo e relativistico, le abitudini morali sono perse, e la soddisfazione personale diminuisce. Noi siamo creature razionali e morali, e la moralità prevede valori che vanno oltre le emozioni. La moralità trascende le circostanze e le debolezze individuali. La moralità implica una scelta. Dove non esiste la scelta, il problema della moralità è puramente retorico.

   C’è una differenza profonda tra fare ciò che appare positivo e fare ciò che si sa essere moralmente corretto. Il primo comportamento reca un entusiasmo temporaneo, ma la sensazione non è duratura. Il secondo comportamento, invece, anche se a volte causa una frustrazione temporanea, suscita una sensazione positiva di sé nel lungo periodo.

   Il tragitto che conduce a relazioni davvero solide e sane, che porta alla stima di sé e a una vita di qualità inizia con la decisione – spesso non facile, a volte dolorosa – di fare la cosa giusta. Anzi, le decisioni che si basano su comportamenti che non rendono necessariamente la vita più facile sono quelle che conferiscono maggiore dignità. Queste azioni possono non servire a soddisfare la nostra esigenza di una gratificazione personale immediata, ma servono al nostro io spirituale.
È il comportamento che scegliamo nelle situazioni difficili che rivela chi siamo. Sono i nostri comportamenti e i nostri pensieri a dirci chi siamo, non la nostra idea su noi stessi in circostanze immaginarie.

   In genere la gente usa due unità di misura. Siamo in grado di mostrarci comprensivi, tolleranti e pronti a perdonare finché le vittime siamo noi, altrimenti ci accorgiamo immediatamente dell’importanza della giustizia e sentiamo che nell’indulgenza c’è qualcosa di troppo permissivo.

   Le persone si attendono in genere chissà quali eccezionalità che capitino nella loro vita, allora – pensano – potranno essere felici. Anziché attendere dall’esterno utopisticamente un fato benevolo che dispieghi chissà quali meraviglie, dovremmo riflettere sul fatto che intanto la vita passa e che quindi è qui e ora che dobbiamo ripensare il nostro atteggiamento. Il poeta e filosofo indiano Rabindranath Tagore ha posto in versi questa riflessione:

 “Ho dormito e sognato che la vita era Gioia.
Mi sono svegliato e visto che la vita era Dovere.
Ho agito, e notato, che il Dovere era Gioia”.

   Il nostro destino lo scegliamo. È la formazione del nostro carattere che determina la nostra vita. Recita un proverbio ebraico: “Se non sono io a pensare a me, chi lo farà? Ma se penso solo a me, chi sono?”. C’è qualcosa di più grande dell’io. Con un gioco di parole, potremmo dire che per la nostra piena realizzazione occorre il passaggio dall’io a Dio.

   Chi sono io? Tentando di rispondere a questa domanda cosa possiamo indicare come “io”? Il nostro corpo? Così la pensava il neurologo austriaco Sigmund Freud, fondatore della psicanalisi, che sosteneva che perfino le manifestazioni dell’io più elevate (come il pensiero e le arti) andrebbero ricondotte a pulsioni biologiche. Guardandoci in uno specchio, però, ci osserviamo e non sempre tutto ci piace: sembra esserci a volte qualcosa che ci appare estraneo e che vorremmo diverso. Il corpo ci appartiene e lo usiamo, ma abbiamo la sensazione che l’“io” non sia tutto lì, nel nostro corpo che vediamo. Lo stesso Freud richiamò l’attenzione sull’inconscio quale sede degli aspetti motivazionali della personalità. Il medico austriaco sostenne che va esplorato ciò che non si sa, ciò che è nascosto, perché è lì che si determina la condotta affettiva, intellettuale e sociale. L’io, per Freud, è solo la parte consapevole della persona, è solo una piccola parte della sua psiche; in più, questa subirebbe inibizioni e pressioni da parte del “super-io” (che comanda, castiga e affligge con i sensi di colpa); come se non bastasse, il povero “io” sarebbe anche in balia di “lui” (“es”, in tedesco), che è inconscio e sarebbe l’insieme caotico e turbolento delle pulsioni, governato dallo scopo del piacere ad ogni costo.

   Per il filosofo e matematico francese René Descartes (noto come Cartesio), l’“io” è la somma dei pensieri che la persona ha interiormente. Per lui, la certezza del pensiero è l’unica realtà e il dubbio può mettere in discussione ogni cosa. La sua conclusione è: Se io dubito, allora io penso, e se penso, esisto (“cogito ergo sum”). Per il pensatore francese il corpo può essere ingannato dai sensi, per cui l’identità della persona coinciderebbe con il pensiero prima di tutto. Tuttavia, sebbene la consapevolezza sia prova della nostra esistenza, la domanda rimane: Chi sono io? Per Cartesio, la coscienza coincide con la consapevolezza, ma questa mi dice solo che io esisto, non chi sono. Tutto il resto, infatti, per Cartesio viene meno per via della critica demolitrice del dubbio. Per lui c’è un solo modo per impossessarsi autorevolmente del proprio io: dominare le passioni attraverso la ragione. – Cfr. Cartesio, Le passioni dell’anima.

    La via indicata da Cartesio è quella che tentarono vanamente di seguire i farisei. Sull’impossibilità umana di imporre al nostro corpo il dominio completo della ragione, Paolo realisticamente osserva: “So infatti che in me, in quanto uomo peccatore, non abita il bene. In me c’è il desiderio del bene, ma non c’è la capacità di compierlo. Infatti io non compio il bene che voglio, ma faccio il male che non voglio . . . Io scopro allora questa contraddizione: ogni volta che voglio fare il bene, trovo in me soltanto la capacità di fare il male. Nel mio intimo io sono d’accordo con la legge di Dio, ma vedo in me un’altra Legge: quella che contrasta fortemente la Legge che la mia mente approva, e che mi rende schiavo della legge del peccato che abita in me. Eccomi dunque, con la mente, pronto a servire la legge di Dio, mentre, di fatto, servo la legge del peccato” (Rm 7:18,19,21-14). Tuttavia, non per questo si abbandonò al libertinaggio. Piuttosto, adottò l’autodisciplina, come lui stesso afferma: “Mi sottopongo a dura disciplina e cerco di dominarmi”. – 1Cor 9:27.

 

 

Chi sono io?

 

   Sebbene le persone non amino ricordarlo e preferiscano far finta di niente, è un fatto reale che – come si dice – la vita è un conto alla rovescia verso la morte, conto che scatta al momento della nascita e continua implacabilmente con matematica precisione. A nulla vale la propria pozione, la nostra ricchezza o la propria autorità per fermare il conto alla rovescia. “Ogni uomo è come un soffio, va e viene come un’ombra” (Sl 39:6,7). “E chi di voi con tutte le sue preoccupazioni può vivere un giorno in più di quello che è stabilito?” (Lc 12:25). Pur nell’ironia umoristica, Antonio De Curtis, descrisse una gran verità:

“’A morte ‘o ssaje ched’è? …è una livella.

‘Nu rre, ‘nu maggistrato, ‘nu grand’ommo,
trasenno stu canciello ha fatt’o punto
c’ha perzo tutto, ‘a vita e pure ‘o nomme:
tu nu t’è fatto ancora chistu cunto?”.

[La morte, sai cos’è? … È una livella.

Un re, un magistrato, un grand’uomo,

passando questo cancello (del cimitero) ha realizzato

che ha perso tutto, la vita e anche il nome:

tu non ti sei ancora fatto questo conto?]

– Totò, ‘A livella.

   C’è chi poco s’interessa della tragica realtà della morte. L’atteggiamento, alquanto stolto, di queste persone è come quello che Paolo descrive in 1Cor 15:32: “Mangiamo e beviamo perché domani moriremo”, che ricalca Is 22:13:

“Voi invece vi siete dati alla pazza gioia.
Avete scannato vitelli e capretti
per far festa,
vi siete riempiti di carne e di vino
e avete gridato:
‘Mangiamo e beviamo perché domani
morremo!’”.

   Quest’atteggiamento, lo stesso Paolo lo giustifica, a una condizione: “Se i morti non risuscitano” (Ibidem). La vita umana deve pur avere un senso. Ciò che conta è quindi per noi sapere il significato della nostra vita. Non può ridursi tutto a 70-80 anni di vita su un piccolo pianeta di uno sperduto sistema solare in una delle numerosissime galassie nel vastissimo universo. Non possiamo ignorare la domanda: Chi sono io? Noi vogliamo sapere che cosa significa essere umani, vogliamo sapere qual è lo scopo per cui esistiamo e quale sarà il nostro destino.

   Nel domandarci “chi sono io?”, nella domanda stessa facciamo una scoperta. Scopriamo la nostra unicità e acquisiamo la consapevolezza di essere una persona speciale, unica, la sola a essere com’è, diversa da qualunque altra. In tutto l’universo non c’è, né mai c’è stata né mai ci sarà una persona come noi. Ciascuno di noi è irripetibile. Così, possiamo dirci: A me e a me soltanto spetta fare ciò che mai nessuno potrà fare al posto mio.

   È ciò che facciamo della nostra vita a definire sempre meglio chi siamo, a distinguerci da chiunque altro. E non solo. Ogni nostra azione influisce in qualche modo su tutto il resto: l’universo non è più lo stesso da quando ci sono io perché le conseguenze delle mie scelte – che me ne renda conto o no – si ripercuotono ovunque.

   Scopriamo così che è più importante riconoscere la nostra unicità che sapere veramente che cosa sia questo io con cui ci identifichiamo. Alla fine conta di più cosa faremo con il nostro io. Avremo allora la consapevolezza delle nostre scelte, imparando che ogni scelta è colma di responsabilità perché partecipa a formare, ogni volta, la nostra sorte.

   Alla domanda “chi sono io?”, può rispondere soltanto ciascuno di noi, personalmente. Chi sono io?

Noi siamo ciò che risulta dai nostri desideri, dalle nostre speranze, dalle nostre vittorie e perfino dalle nostre sconfitte. Noi sono il risultato di tutte le nostre scelte.

 

 

Diventare ciò che si è

   Il mistico ebreo Meshulam Sussja di Hanipol, in punto di morte, disse: “Non mi si domanderà: Perché non sei stato Mosè? Mi si domanderà invece: Perché non sei stato Sussja?”. Pare che, scioccamente, molti siano d’accordo nell’asserire che tutti gli esseri umani siano uguali. Sembra una così gran bella frase! Si confonde però la parità con l’eguaglianza. Che tutti abbiano pari dignità è indubbio. Ma – per fortuna (o meglio, per volontà divina) – è falso che tutti siamo uguali. È solo dopo aver avuto consapevolezza della nostra unicità, che possiamo scoprire l’intima relazione che c’è tra il nostro io unico e irripetibile e il nostro destino. Potremo iniziare allora a realizzarci, facendo ciò che potrebbe essere espresso con le parole di un detto degli antichi greci: Diventa ciò che sei.

   Diventare ciò che siamo significa vivere la nostra vita personale da protagonisti, in prima persona, identificandoci con il nostro ruolo o, se si preferisce, destino. Se ciò non lo facciamo accadere, non saremo liberi né tantomeno felici. Insoddisfazioni e inquietudini esistenziali nascono dalla mancata realizzazione di se stessi.