Yeshùa stesso usò l’umorismo. Erode era un marpione, un imbroglione, un furbacchione, era quello che noi oggi definiremmo una vecchia volpe. Quando Erode tentava di far fuori Yeshùa, alcuni farisei “gli dissero: «Lascia questi luoghi e vattene altrove, perché Erode vuol farti uccidere»” (Lc 13:31, TILC). Yeshùa non perse per questo il suo buon umore, anzi rispose umoristicamente: “Andate da quel volpone e ditegli . . .” (v. 32, TILC). Yeshùa seppe usare ironia anche nelle sue parabole. Narrando la parabola del buon samaritano, il suo racconto suscitò ansiosa attesa: “Un uomo scendeva da Gerusalemme verso Gèrico, quando incontrò i briganti. Gli portarono via tutto, lo presero a bastonate e poi se ne andarono lasciandolo mezzo morto. Per caso passò di là un sacerdote; vide l’uomo ferito, passò dall’altra parte della strada e proseguì. Anche un levita del Tempio passò per quella strada; lo vide, lo scansò e prosegui. Invece un uomo della Samaria, che era in viaggio, gli passò accanto, lo vide e ne ebbe compassione” (Lc 10:30-33, TILC). Alla sua domanda finale: “Chi di questi tre si è comportato come prossimo per quell’uomo che aveva incontrato i briganti?” (v. 36, TILC), la risposta scontata (ovvero che era stato il samaritano) suonava come una scossa, perché i samaritani erano invisi ai giudei. Tant’è vero che nella risposta viene perfino fatto un giro di parole per evitare la parola “samaritano”: “Quello che ha avuto compassione di lui” (v. 37, TILC). Pur nell’insegnamento, seppe giocare un brutto tiro (uno scherzo derisorio) a quel ‘maestro della Legge che voleva tendere un tranello’ (v. 25, TILC). Gli spettatori che prima ridevano sotto i baffi, divertiti, ora – a bocca aperta – stavano zitti.

   Il profeta Ezechiele aveva annunciato il ristabilimento della gloria di Israele quando i giudei erano ancora esiliati in Babilonia: “Queste sono parole di Dio, il Signore: «Io prenderò un ramoscello dalla cima del cedro dall’estremità dei rami, e lo pianterò sopra una montagna molto alta, su un monte alto in Israele. Metterà i rami, darà frutti, diventerà un cedro magnifico. Uccelli di ogni genere cercheranno rifugio all’ombra dei suoi rami. Tutti gli alberi della foresta riconosceranno che io sono il Signore. Abbatto gli alberi alti e innalzo i piccoli. Faccio seccare gli alberi verdi e germogliare quelli secchi. Io, il Signore, dichiaro che lo farò»” (Ez 17:22-24, TILC). Yeshùa parafrasò questa immagine profetica: “Il regno di Dio è simile a un granello di senape che un uomo prese e seminò nel suo campo. Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, quando è cresciuto, è più grande di tutte le piante dell’orto: diventa un albero tanto grande che gli uccelli vengono a fare il nido tra i suoi rami” (Mt 13:31,32, TILC). Anche se qui non c’è nulla d’umoristico, si noti il modo divertente e piacevole con cui Yeshùa seppe adattare quell’immagine profetica, volutamente fraintesa, al suo insegnamento.

   C’è della fine ironia nella parabola del lievito. “Il regno di Dio è simile a un po’ di lievito che una donna ha preso e ha mescolato in una grande quantità di farina, e a un certo punto tutta la pasta è lievitata!” (Mt 13:33, TILC). In Israele il lievito era considerato una sostanza contaminante perché la Toràh vietava le offerte di cereali che fossero lievitate (Lv 2:11). Anche le donne erano considerate dagli ebrei contaminanti perché soggette alle mestruazioni (Lv 12:2; Ez 22:10;36:17). Yeshùa, con tacita ironia, unì sorprendentemente lievito e donne, in un’immagine non così gradita agli ebrei, per simboleggiare nientemeno che il Regno di Dio. La parabola contiene anche un’iperbole ovvero un’esagerazione. Il testo originale greco dice che la donna mescola il lievito con ἀλεύρου σάτα τρία (alèuru sàta trìa), con “di farina staia tre” ovvero con tre staia di farina. La staia equivaleva a un terzo di efa (Gn 18:6; 1Sam 25:18; 1Re 18:32; 2Re 7:1,16,18) che corrispondeva a circa 22 litri, per cui la staia equivarrebbe a più di 7 litri. La massa impastata era quindi di oltre 21 litri, una quantità considerevole.

   Nella parabola del figliol prodigo (Lc 15:11-32) il padre raffigura Dio. Eppure, Yeshùa lo fa agire in modo sorprendente: alla richiesta del figlio di avere la sua parte d’eredità per andarsene a realizzarsi a modo suo, non pone obiezioni e la concede. Dopo aver sperperato tutto, il giovane torna a casa ed è riaccolto a braccia aperte dal padre. Per certi versi, è sconcertante. A differenza degli eminenti esempi biblici in cui i figli disubbidienti e ingrati non la passano liscia, qui parrebbe che questo figlio scapestrato alla fine avesse la meglio. Ovviamente, non è questo l’insegnamento di Yeshùa ma è piuttosto quello dell’amore incondizionato di Dio. Nella vita reale le cose, generalmente, non vanno a finire così: un giovane che agisse in quel modo non sarebbe trattato con trionfo come accade nella parabola. Ma Dio agisce così con il peccatore pentito. Un’attenta analisi delle parabole di Yeshùa svela che quasi tutte non raccontano storie con conclusioni morali ovvie, scontate e prevedibili.

   Yeshùa era, a suo modo, un umorista. Mentre oggi gli studiosi seriosi della Bibbia compilano voluminosi e complicati trattati di “teologia cristiana” ricavati dalle loro austere riflessioni sui Vangeli, Yeshùa diceva: “Il regno di Dio è già in mezzo a voi” (Lc 17:21, TILC). Con il suo buon umore, Yeshùa affrontava le situazioni della vita, già di per sé dure e a volte dolorose.

   I bacchettoni e le beghine delle religioni si domandano a che mai serva l’umorismo. Per loro, persone serie delle religioni, è fuori luogo. Meglio abbassare la testa e lavorare, pensano. Eppure, Yeshùa seppe condire le cose serie con l’umorismo. Due suoi discepoli, Giacomo e Giovanni, avevano ovviamente i loro propri nomi, come tutti, ma Yeshùa volle scherzosamente dar loro un soprannome, tanto che a questi “pose nome Boanerges, che vuol dire figli del tuono” (Mr 3:17). Il soprannome Βοανηργές (boanerghès) è anche onomatopeico: richiama il boato del tuono. Questi due, insomma, erano “fumini”, come direbbero i fiorentini, in altre parole persone focose cui il sangue andava subito alla testa. Furono loro che, quando alcuni samaritani furono poco ospitali con il loro maestro, proposero: “Signore, vuoi che diciamo al fuoco di scendere dal cielo e di distruggerli?”. – Lc 9:54, TILC.

   L’umorismo di Yeshùa può essere desunto indirettamente anche dalle accuse che i suoi detrattori gli imputavano: “Ecco un mangione e un beone, amico degli agenti delle tasse e di altre persone di cattiva reputazione” (Lc 7:24, TILC). Mangiando e bevendo, anche in compagnia di prostitute e di gente malvista, Yeshùa non doveva essere così serioso com’è solitamente dipinto, ma gioviale e allegro.