Sembrerebbe, a prima vista, che un’offerta fatta Dio e la preghiera stessa siano iniziative umane. Se ciò può valere per le religioni, così non è nella Bibbia. In Israele non ci sarebbero state offerte nel culto né preghiere se il Dio di Israele non si fosse manifestato nelle sue gesta e nelle sue parole. A chi mai gli ebrei avrebbero fatto offerte e chi mai avrebbero pregato se Dio non si fosse manifestato? Sarebbero stati simili ai pagani che per loro iniziativa facevano sacrifici e rivolgevano preghiere a dèi da loro immaginati.

   Le offerte nel culto e le preghiere che troviamo nella Scrittura non sono quindi iniziative umane: sono risposte a Dio. Da questa verità ne scaturisce un’altra: ciò che Dio fa e dice richiede una risposta.

  Da subito, dalle sue prime pagine, la Bibbia contiene risposte fatte di parole. Quando gli esseri umani ancora non esistevano, il riconoscimento alle azioni di Dio fu dato da lui stesso. Così, troviamo che ad ogni nuova fase creativa Dio si commenta: “Dio vide che questo era buono” (Gn 1, passim). Gli angeli, presenti alla creazione, rispondevano: “Tutti i figli di Dio alzavano grida di gioia” (Gb 38:7). La creazione stessa, a modo suo, risponde: “I cieli raccontano la gloria di Dio e il firmamento annuncia l’opera delle sue mani. Un giorno rivolge parole all’altro, una notte comunica conoscenza all’altra. Non hanno favella, né parole; la loro voce non s’ode, ma il loro suono si diffonde per tutta la terra, i loro accenti giungono fino all’estremità del mondo” (Sl 19:1-4). Nel Salmo 148 le creature nel cielo e quelle sulla terra sono chiamate a raccolta per lodare Dio.

   La lode. Con la cacciata dei nostri primogenitori dall’Eden per il loro peccato, il rapporto con Dio fu compromesso. Eppure, Eva, partorito il suo primo figlio, lo chiama קַיִן (qàyn). Sebbene alcuni dizionari ricolleghino questo nome a un significato originario che indicherebbe una lancia che colpisce velocemente, è Eva stessa che ci dà il significato di questo nome: “Essa partorì Caino e disse: ‘Ho prodotto [קָנִיתִי (qanìytiy)] un uomo con l’aiuto di Geova [Yhvh, nel testo biblico]’” (Gn 4:1, TNM), così che il nome viene a significate “(qualcosa di) prodotto”. Lei ha “prodotto” un essere umano “con l’aiuto di Yhvh”, il Dio d’Israele; lo riconosce e, in certo qual modo, lo loda. Spesso, nella Bibbia ebraica troviamo che i nomi dati ai bambini ebrei contengono una esplicita lode al Creatore. Ciò ci mostra come la lode al loro Dio, era per gli ebrei parte integrante della loro vita. Nella vita del popolo d’Israele e nella vita di ogni singolo ebreo la lode non era qualcosa di riversato ai momenti del culto, come accade oggi in modo puramente formale nelle funzioni delle religioni. Il libro dei Salmi, che contiene le preghiere ebraiche, non è l’unico libro biblico in cui è espressa la lode a Dio. Questa si trova lungo tutta la Sacra Scrittura. Perfino il povero Giobbe, alla notizia che ha perso tutto, compresi i figli, esclama: “Il Signore ha dato, il Signore ha tolto; sia benedetto il nome del Signore” (Gb 1:21). Girolamo, il traduttore della Bibbia in latino, che visitò la Palestina e morì a Betlemme nel 419/420, così annotò: “Dovunque ti volti, il contadino tenendo l’aratro canta alleluia” (Ep. 46 a Marcella). Nella Bibbia l’essere una creatura e lodare Dio sono un binomio. “Il vivente, il vivente è quello che ti loda”. – Is 38:19.

   La lode come risposta a Dio si trova nella Scrittura in contesti diversi che ne identificano i diversi tipi.

   La forma più semplice di lode è quella in cui viene collegata a un’azione compiuta da Dio. Il cap. 15 di Es contiene un canto trionfale di lode a Dio che ha appena liberato il suo popolo dall’inseguimento degli egiziani che lo avevano messo in una situazione senza scampo. Questa forma di lode, molto semplice, investe le lodi collettive, come nel Sl 124, che è un canto riservato ai pellegrinaggi a Gerusalemme. Riguarda però anche la lode individuale, in cui il fedele ringrazia Dio per una sua azione che lo ha liberato, come nel Sl 32 con cui Davide loda Dio per averlo perdonato. In questo tipo di lode compaiono necessariamente diverse forme verbali che esprimono le azioni. Qui il riferimento a Dio non riguarda il suo essere ma il suo agire. Chi loda ha fatto esperienza diretta di qualche azione di Dio, ne è stato toccato, e ciò ha suscitato sentimenti gioiosi che spingono non solo a lodare Dio ma a dire ciò che Dio ha fatto. Chi loda, vuole farlo pubblicamente, e inviata altri a unirsi a lui, tanto che troviamo spesso in queste lodi l’invito: “Lodate il Signore con me”.

   Un altro tipo di lode, che troviamo negli inni, va oltre la singola azione ed esalta Dio per tutto ciò che ha fatto e continua a fare. Qui Dio è lodato ricordando l’interezza del suo operare e la completezza del suo essere. Questo tipo di lode è specifica del culto e richiede la partecipazione di tutti. L’assemblea loda il suo Dio che salva, la sua santità e la sua maestà. La lode innica non concerne solo l’agire di Dio ma anche il suo essere. “Chi è simile al Signore, al nostro Dio, che siede sul trono in alto, che si abbassa a guardare nei cieli e sulla terra?” (Sl 113:5,6). Dio è in alto, per cui può guardare a tutto ciò che avviene negli eventi terrestri, può con un solo sguardo abbracciare tutte le cose, e può quindi notare anche la sofferenza di chi alza con speranza gli occhi a lui. L’uso della lode innica nella liturgia d’Israele è testimoniato dagli imperativi “lodate”. La parola stessa “alleluia” significa “lodate Yah”. Si tratta dell’appello che l’officiante fa all’assemblea riunita per il culto. “E tutto il popolo dica: «Amen!» Alleluia” (Sl 106:48). L’invito può estendersi al re e perfino a tutta la creazione. Dio è così grande e meraviglioso che tutti e tutto devono lodarlo; la lode diventa universale. “Ti lodino i popoli, o Dio, tutti quanti i popoli ti lodino!” (Sl 67:3); “Lo lodino i cieli e la terra, i mari e tutto ciò che si muove in essi!” (Sl 69:34); “Lodatelo, voi tutti i suoi angeli; lodatelo, voi tutti i suoi eserciti! Lodatelo, sole e luna; lodatelo voi tutte, stelle lucenti! Lodatelo, cieli dei cieli, e voi acque al di sopra dei cieli!”. – Sl 148:2-4.

   La lode costituisce nella Bibbia ebraica ciò che nelle Scritture Greche sarà chiamato fede. Si tratta di un convinto “sì” a Dio, che è un sì di risposta al suo essere e al suo agire misericordioso.

   La lamentazione. Basta dare una scorsa al salterio per rendersi conto come i salmi di lode e quelli di lamentazione non solo convivono ma abbiamo all’incirca la stessa importanza. Nella risposta a Dio la lode è una faccia della medaglia e la lamentazione è l’altra faccia della medaglia. Sembra proprio che la lode senza lamentazione non possa esistere. In verità, come la lode è la risposta umana a Dio che salva e protegge, così la lamentazione è la risposta a Dio che giudica e punisce ma – ancora di più – a Dio che vede la sofferenza umana. La lode impiega il linguaggio della gioia, la lamentazione usa quello della sofferenza. Gioia e sofferenza fanno parte della nostra vita.

   La storia stessa del popolo ebraico con il suo Dio inizia nella sofferenza. In Dt 26:5-9 è contenuto il credo ebraico che riassume tale storia con Dio e che doveva essere pronunciato quando il sacerdote deponeva l’offerta delle primizie davanti all’altare. Questo credo recita:

“Mio padre era un Arameo errante; scese in Egitto, vi stette come straniero con poca gente e vi diventò una nazione grande, potente e numerosa. Gli Egiziani ci maltrattarono, ci oppressero e ci imposero una dura schiavitù. Allora gridammo al Signore, al Dio dei nostri padri, e il Signore udì la nostra voce, vide la nostra oppressione, il nostro travaglio e la nostra afflizione, e il Signore ci fece uscire dall’Egitto con potente mano e con braccio steso, con grandi e tremendi miracoli e prodigi, ci ha condotti in questo luogo e ci ha dato questo paese, paese dove scorrono il latte e il miele”.

   Tutto inizia con il grido di dolore che Israele innalza a Dio. Questo credo è basilare, molto importante, per cui anche il grido di dolore in esso ricordato è importante. Nella Bibbia ebraica la lamentazione con il suo grido di dolore è parte integrante e inevitabile di ciò che accade tra Dio e l’essere umano. Lungo tutto l’Esodo il popolo ebraico continuò a lamentarsi. La lamentazione accompagnò sempre Israele. Anche nella Terra Promessa, al tempo dei Giudici, quando “ognuno faceva quello che gli pareva meglio” (Gdc 21:25), era un continuo gridare a Dio quando si trovavano in grave difficoltà, e ogni volta “i figli d’Israele gridarono al Signore” (Gdc 4:3). Dopo la catastrofe con la distruzione di Gerusalemme nel 587 a. E. V., durante l’esilio babilonese, il lamento continuò, dando origine a un libro biblico, chiamato appunto Lamentazioni.

   “Dal profondo dell’angoscia grido a te,  Signore; Signore, ascolta il mio pianto!  Le tue orecchie siano attente alla voce della mia preghiera”. Così prega il salmista disperato in Sl 130:1,2 (PdS). Queste lamentazioni sono parte integrante del libro dei Salmi. A ben vedere, i salmi di lode contengono anche una eco del fatto che Dio ha udito il lamento e ha ascoltato il grido di dolore.

   C’è ovviamente differenza tra il lamento per l’afflizione e il lamento per la morte. Potremmo dire che la lamentazione dell’afflitto guarda avanti, quella per la morte guarda all’indietro. L’unica speranza dell’afflitto è in Dio; chi soffre si aggrappa alla vita e grida a Dio perché lo mantenga in vita facendogli superare la situazione attuale. Perfino Yeshùa pregò in tal senso nella preghiera più dolorosa che rivolse a Dio: “Si gettò con la faccia a terra e si mise a pregare. Diceva: ‘Padre mio, se è possibile, allontana da me questo calice di dolore! … Per la seconda volta si allontanò e cominciò a pregare, e disse: ‘Padre mio, se proprio devo bere di questo calice di dolore, sia fatta la tua volontà’ … Per la terza volta Gesù si allontanò e andò a pregare ripetendo le stesse parole’” (Mt 26:39,42,44, PdS). Nella lamentazione per la morte non ci si rivolge a Dio, ma il lamento avviene in termini meno sacri: “Davide prese le sue vesti e le stracciò, lo stesso fecero tutti gli uomini che erano con lui. Fecero cordoglio e piansero e digiunarono fino a sera, a motivo di Saul, di Gionatan, suo figlio”. – 2Sam 1:11,12.

   La Bibbia ebraica, dalla cacciata dall’Eden in poi, pone l’essere umano sempre entro due limiti: la sua transitorietà e la sua peccaminosità. Anzi, ciò è già adombrato nel gad-beèden (גַּנ־בְּעֵדֶן, Gn 2:8), il “giardino di delizia”: “Dell’albero della conoscenza del bene e del male non ne mangiare; perché nel giorno che tu ne mangerai, certamente morirai” (Gn 2:17). La situazione umana entro questi due confini rende naturale la lamentazione. Il lamento è espresso anche con gli stessi termini, perché è sentimento comune che riguarda tutti. Così, riguardo agli ebrei oppressi in Egitto è detto: “Gridammo al Signore … e il Signore udì la nostra voce” (Dt 26:7) e, riguardo ad Agar e suo figlio, nello stesso modo: “Seduta così di fronte, alzò la voce e pianse. Dio udì la voce del ragazzo” (Gn 21:16,17). La lamentazione consiste nell’implorare Dio affinché abbia compassione per la sofferenza che si sta provando. Nell’afflizione, nel pericolo, nell’ansietà e in ogni altra situazione di sofferenza, il lamento è un’invocazione a colui che solo è in grado di intervenire per alleviare la sofferenza.

   Nei salmi di lamentazione c’è una struttura particolare che si riscontra in tutti. Prima di tutto c’è un appello, un’invocazione a Dio; segue il lamento; c’è poi un’espressione di fiducia con la promessa di lode oppure una qualche anticipazione dell’intervento salvifico di Dio. Prendiamo a caso un salmo di lamentazione:

Quand’io grido, rispondimi, o Dio della mia giustizia;

quand’ero in pericolo, tu m’hai liberato;

abbi pietà di me ed esaudisci la mia preghiera!

O figli degli uomini, fino a quando si farà oltraggio alla mia gloria?

Fino a quando amerete vanità e andrete dietro a menzogna? [Pausa]

Sappiate che il Signore si è scelto uno ch’egli ama;

il Signore m’esaudirà quando griderò a lui.

Tremate e non peccate;

sui vostri letti ragionate in cuor vostro e tacete. [Pausa]

Offrite sacrifici di giustizia,

e confidate nel Signore.

Molti van dicendo: «Chi ci farà vedere la prosperità?»

O Signore, fa’ risplendere su di noi la luce del tuo volto!

Tu m’hai messo in cuore più gioia di quella che essi provano

quando il loro grano e il loro mosto abbondano.

In pace mi coricherò e in pace dormirò,

perché tu solo, o Signore, mi fai abitare al sicuro”. – Sl 4.

   In questa struttura dei salmi di lamentazione si trova una testimonianza biblica dell’esperienza che gli ebrei facevano dell’azione di Dio. La struttura è tridimensionale: lamento rivolto a Dio, contro un nemico, espresso da chi prega. C’è qui l’intera realtà dell’essere umano: chi supplica è minacciato da un pericolo, ma non solo personalmente, perché è minacciato come membro del popolo di Dio, e perfino nel suo rapporto con Dio. Un’esistenza di chi prega sganciata dal popolo è impensabile e ancora di più è inconcepibile come staccata dal rapporto con Dio. Potremmo dire che qui la psicologia, la sociologia e la teologia sono un tutt’uno. Ciò corrisponde perfettamente al progetto di Dio per l’essere umano sin dagli inizi, quando creò l’uomo come persona che doveva avere comunione con altre persone e doveva mantenere il suo rapporto con il Creatore. In uno dei drammi di massima sofferenza, il libro di Giobbe, troviamo la stessa struttura tridimensionale: il supplizio di Giobbe è vissuto con se stesso, con gli amici e con Dio.

   C’è comunque distinzione tra la lamentazione collettiva e quella della singola persona. Il rapporto tra il singolo e Dio è diverso dalla relazione che il popolo ha con Dio.

  Lo illustriamo con il Sl 80, che è un salmo di lamentazione collettiva. “Porgi orecchio, o Pastore d’Israele” (Sl 80:1); qui si ha l’invocazione a Dio, come nei salmi di lamentazione individuale. Si notino ora i vv. 9-11: “Portasti fuori dall’Egitto una vite; scacciasti le nazioni per piantarla; tu sgombrasti il terreno ed essa mise radici e riempì la terra. I monti furono coperti della sua ombra e i suoi tralci furono come cedri altissimi. Stese i suoi rami fino al mare e i suoi germogli sino al fiume”. Qui il salmista sta ricordando a Dio in preghiera le sue antiche gesta in favore del suo popolo. Ora si noti il contrasto con la situazione attuale: “Perché hai rotto i suoi recinti e tutti i passanti la spogliano? Il cinghiale del bosco la devasta, le bestie della campagna ne fanno il loro pascolo”. – Vv. 12,13.

   Questo contrasto segna il risveglio della coscienza: ci si rende conto della storia di Israele guardandola panoramicamente; non c’è l’oblio di ciò che fu per fossilizzarsi solo nel lamento per la situazione presente: prima non era così! L’invocazione a Dio è indispensabile: “O Dio degli eserciti, ritorna” (v. 14) e si cerca di smuovere la sua compassione: “Proteggi quel che la tua destra ha piantato, e il germoglio che hai fatto crescere forte per te” (v. 15). Non manca però la presa di coscienza del motivo del cambiamento dall’antico splendore alla tragica situazione presente: “Noi non ci allontaneremo da te” (v. 18), che significa “mai più ti abbandoneremo”. – V. 19, PdS.

   La lamentazione individuale è espressione della sofferenza personale che assume dignità perché umana e quindi degna di essere presentata a Dio.

   Il popolo e le singole persone sono i protagonisti più frequenti delle lamentazioni che troviamo nella Bibbia ebraica. Si prenda però, ad esempio, la situazione in cui il popolo ebraico si costruì al Sinày un idolo da adorare mentre Mosè era sul monte al cospetto divino. Dio dice a Mosè: “Ho considerato bene questo popolo; ecco, è un popolo dal collo duro. Dunque, lascia che la mia ira s’infiammi contro di loro e che io li consumi, ma di te io farò una grande nazione” (Es 32:9,10). Di fronte a quel triste spettacolo, Mosè ebbe davvero di che lamentarsi, e sua reazione fu violenta: “L’ira di Mosè s’infiammò ed egli gettò dalle mani le tavole e le spezzò ai piedi del monte” (v. 19), “’Ciascuno uccida il fratello, ciascuno l’amico, ciascuno il vicino!’. I figli di Levi eseguirono l’ordine di Mosè, e in quel giorno caddero circa tremila uomini” (vv. 27,28). Ai vv. 11-13 si ha il lamento di Mosè. È personale? Indubbiamente, ma è anche il lamento di un mediatore. Possiamo quindi distinguere tra lamentazione del popolo, della singola persona e del mediatore. Quest’ultimo tipo di lamentazione, più raro, ha il suo culmine nel grido del mediatore Yeshùa sulla croce.

   In verità, nella Bibbia troviamo anche un altro lamento: il lamento di Dio. È con la lamentazione divina che inizia il libro di Isaia: “Ho nutrito dei figli e li ho allevati, ma essi si sono ribellati a me” (Is 1:2). Il lamento di Dio lo troviamo anche in Ger 8:5-7. In Os 6:4-11 Dio si lamenta del suo popolo e soffre per la punizione che deve arrecargli. Nel lamento e nella sofferenza di Dio si tocca un culmine che potrebbe apparire incomprensibile. Dio giudica, punisce, ma Dio soffre nel farlo. Ciò ci dice di Dio molto più di qualsiasi trattano teologico.