Nelle ripetute trasgressioni degli israeliti e nei loro successivi pentimenti, la storia si ripeté ai tempi dei Giudici: “Allora i figli d’Israele gridarono al Signore, e dissero: ‘Abbiamo peccato contro di te, perché abbiamo abbandonato il nostro Dio e abbiamo servito i vari Baal’” (10:10). Istruttiva, bella e giusta la risposta di Dio, che ricorda loro: “Non vi ho liberati dagli Egiziani, dagli Amorei, dai figli di Ammon e dai Filistei? Quando i Sidoni, gli Amalechiti e i Maoniti vi opprimevano e voi gridaste a me, non vi liberai dalle loro mani? Eppure, mi avete abbandonato e avete servito altri dèi; perciò io non vi libererò più. Andate a gridare agli dèi che avete scelto; vi salvino essi nel tempo della vostra angoscia!’” (Gdc 10:11-14). Gli ebrei ripeterono allora la supplica, liberandosi degli dèi pagani (10:15,16) e Dio “si addolorò per l’afflizione d’Israele” (v. 16). Siamo nel periodo in cui i Giudici governavano Israele. – Si veda, al riguardo, lo studio intitolato Dal primo governo ai Giudici, nella categoria La storia d’Israele della sezione Israele.

   E “lo Spirito del Signore venne su Iefte” (Gdc 11:29). Iefte fece un voto a Dio: “Se tu mi dai nelle mani i figli di Ammon, chiunque uscirà dalla porta di casa mia per venirmi incontro, quando tornerò vincitore sugli Ammoniti, sarà del Signore e io l’offrirò in olocausto” (11:30,31). È inutile girarci attorno: fu un voto sconsiderato. La prima persona che uscì, dopo la sua vittoria, fu la sua unica figlia: “Ecco uscirgli incontro sua figlia, con timpani e danze. Era l’unica sua figlia; non aveva altri figli né altre figlie”. – Gdc 11:34.

   La questione non si supera – come fanno alcuni – ipotizzando che Iefte avesse in mente un animale da sacrificare in olocausto. Ciò non è possibile. Si noti la chiara espressione: “Chiunque uscirà dalla porta di casa mia per venirmi incontro”. Gli ebrei non tenevano in casa gli animali destinanti ai sacrifici, né questi erano lasciati liberi di scorrazzare per casa. Inoltre, l’offerta di un animale che cosa mai avrebbe avuto di speciale? Gli ebrei facevano sacrifici animali normalmente. Un sacrificio animale non sarebbe stato un segno di devozione particolare per un voto a Dio. Iefte, quindi, aveva in mente proprio una persona. Egli fu davvero molto sconsiderato. Fu abominevole. Iefte era “un uomo forte e valoroso, figlio di una prostituta” (Gdc 11:1); fu poi cacciato dai suoi fratelli (v. 2). Era un uomo per nulla scrupoloso e dedito alle razzie: “Iefte se ne fuggì lontano dai suoi fratelli e si stabilì nel paese di Tob. Degli avventurieri si raccolsero intorno a Iefte e facevano delle incursioni con lui” (Gdc 11:3). Fa sorridere l’ingenuo tentativo di TNM di indorare la pillola traducendo: “Si raccoglievano intorno a Iefte uomini oziosi, e uscivano con lui”, come se andassero a fare delle passeggiate. La sua indole era quella, e non la nascose: “Se mi fate ritornare da voi per combattere contro i figli di Ammon e il Signore li dà in mio potere, io sarò vostro capo” (11:9). Il fatto che Dio scegliesse quest’uomo per liberare Israele non lo deve trasformare in uno stinco di santo. A modo suo era devoto, ma essendo “forte e valoroso” agiva anche d’impulso. D’altra parte, Dio usò perfino il re pagano Ciro: addirittura lo chiamò il “suo unto”, ovvero il “suo messia” (ebraico) o il “suo cristo” (greco), come detto in Is 45:1; neppure Ciro era uno stinco di santo, ma servì alla causa di Dio (Is 44:28).  Non occorre difendere a tutti i costi la propria idea su Iefte, insistendo sulla frase “sarà del Signore” per ipotizzare una dedicazione a Dio della persona che gli sarebbe corsa incontro. Il “sarà del Signore” è seguito da “io l’offrirò in olocausto” (Gdc 11:31). E non c’è davvero modo di interpretare la parola ebraica “olocausto” (עֹולָה, olàh) in senso metaforico. Nella Scrittura questa parola è sempre riferita a un vero e proprio olocausto, perfino nei Salmi. Che lo sconsiderato Iefte avesse in mente proprio un olocausto è pure evidente dal verbo ebraico usato (e che non traspare nelle traduzioni): haalytìhu olàh (הַעֲלִיתִהוּ), letteralmente: “Farò salirlo [in] olocausto”. Il verbo “far salire” è tipico degli olocausti, intendendo il far salire il fumo degli olocausti a Dio; lo troviamo nello stesso libro di Giudici, in 6:26, tradotto: “Prendi il secondo toro e offrilo come olocausto”, dove l’ebraico haהַעֲלִיתָ עֹולָה  (haalìta olàh): Fallo salire [in] olocausto”. Forse Iefte pretendeva di fare – nella sua sconsiderata impulsività – un sacrificio simile a quello di Abraamo (Gn 22:2). Anche nel passo genesiaco il verbo ebraico è lo stesso: הַעֲלֵהוּ, haalèhu, “fallo salire”. Il sacrificio umano era un antico costume pagano orientale (Mic 6:7), come dimostra anche la stele di Mesha. Che Iefte fosse stato del tutto sconsiderato nel fare quel voto insensato, lo dimostra la sua reazione nel vedere la figlia venirgli incontro: “Come la vide, si stracciò le vesti e disse: ‘Ah, figlia mia! tu mi riempi d’angoscia! tu sei fra quelli che mi fanno soffrire! Io ho fatto una promessa al Signore e non posso revocarla’” (11:35). La traduzione addolcisce, ma Iefte dice: “Ho aperto la mia bocca al Signore” (Con), che nell’ebraico è letteralmente: “Ho dilatato da bocca sconsideratamente”. Il verbo è פצה (patzàh), lo stesso di Gb 35:16: “Giobbe stesso spalanca la bocca semplicemente per nulla [verbo פצה (patzàh)]”. – TNM.

   Il finale non piace a nessuno: “Egli fece di lei quello che aveva promesso” (v. 39). È un tentativo inutile cercare di interpretare che il voto fu adempiuto facendo dedicare la verginità della figlia a Dio. La figlia di Iefte disse: “Trattami secondo la tua promessa” e aggiunse: “Mi sia concesso questo: lasciami libera per due mesi, affinché vada su e giù per i monti a piangere la mia verginità con le mie compagne” (11:36,37). Sarebbe un controsenso – se si trattasse della verginità – che lei prima accettasse l’adempimento del voto e poi la piangesse. Al voto del padre si rassegnò, pensando che dovesse essere mantenuto, ma volle piangere la sua sorte prematura prima di aver goduto la gioia e la benedizione della maternità. La chiusa dice: “Tornò da suo padre, il quale adempì verso di lei il voto che aveva fatto. Ed essa non aveva conosciuto uomo, tanto che ne nacque una consuetudine: ogni anno le figlie di Israele vanno a piangere la figlia di Iefte, il gaaladita, per quattro giorni all’anno” (Gdc 11:39,40, Con). Cercare di riferire la frase “essa non aveva conosciuto uomo” a dopo il suo ritorno (per sostenere il voto di verginità) può forse riuscire in una traduzione, ma non è sostenibile con il testo originale ebraico. Infatti, non si può separare la frase da quella seguente (“ne nacque una consuetudine”): le frasi sono legate dalla congiunzione “e” (ebraico ו, ve). Anzi, sono tre le frasi legate tra loro. Ecco il testo:

 

וַיַּעַשׂ לָהּ אֶת־נִדְרֹו אֲשֶׁר נָדָר וְהִיא לֹא־יָדְעָה אִישׁ וַתְּהִי־חֹק בְּיִשְׂרָאֵל

vayàas lah et-nidrò ashèr nadàr vehiy lo-yadàh iysh vathy-khòq beisraèl

e fece a lei suo voto che fece voto e lei non conobbe uomo e fu usanza in Israele

   La sequenza è chiara: quando lei tornò, il padre “le fece secondo il voto” e – in conseguenza di quello che le fece – “lei non conobbe uomo” e per tutto questo nacque l’”usanza in Israele” di… . – Gdc 11:39.

   La figlia di Iefte “non conobbe uomo”: queste parole non si riferiscono al tempo precedente l’adempimento del voto, perché era già stato precisato che lei era vergine; infatti, si dice prima: “Mi sia concesso . . . piangere la mia verginità”. – Gdc 11:37.

   La dichiarazione “e lei non conobbe uomo” va riferita alla conseguenza dell’adempimento del voto. Infatti, essa non solo viene dopo la frase: “Egli fece di lei quello che aveva promesso” (v. 39), ma è legata da un “e”. In pratica: “Egli fece di lei quello che aveva promesso [adempì il suo voto] e [in conseguenza di ciò] lei non conobbe uomo”. Come ulteriore conseguenza del tutto, “di qui venne in Israele l’usanza che”.

   Tale usanza è ulteriormente esplicativa sulla fine che fece la figlia di Iefte. Di che usanza si tratta? Il testo biblico non dice affatto che la figlia di Iefte veniva visitata “di anno in anno” – come se fosse ancora viva – dalle compagne che ‘la lodavano’, come sembra voler far intendere TNM che traduce: “Di anno in anno le figlie d’Israele andavano a lodare la figlia di Iefte”. – Gdc 11:40, TNM.

   Il testo biblico dice: “Di qui venne in Israele l’usanza che le figlie d’Israele vadano tutti gli anni a celebrare la figlia di Iefte”. Il verbo tradotto “celebrare” (e tradotto da TNM con “lodare”) è nell’ebraico תַנֹּות (tanòt), voce del verbo תנה (tanàh). Questo verbo, in Gdc è usato due volte: qui nel nostro passo e in 5:11. Ora, in Gdc 5:11 – noi sospettiamo per tentare di armonizzare i significati – TNM traduce in maniera incomprensibile, in un italiano strano: “Alcune delle voci dei distributori d’acqua fra i luoghi per attingere acqua, là raccontavano i giusti atti di Geova, i giusti atti di quelli che in Israele dimoravano nella campagna”. Dove è mai qui, in questa bizzarra traduzione, il soggetto? Forse il soggetto sono le “voci”? Ma se le voci sono il soggetto, come mai si mette una virgola dopo “acqua”? La frase, così spezzata, è monca, manca del verbo: “Alcune delle voci dei distributori d’acqua fra i luoghi per attingere acqua”. Ma che vuol dire? Dopo la virgola che separa la frase si legge: “là raccontavano”, ma chi sono che raccontavano? Le voci? Forse i “distributori d’acqua”? In ogni caso le frasi sono ingarbugliate e senza senso, in un italiano completamente scorretto. È davvero il caso di far chiarezza. Il passo è inserito nel canto di Debora che è una lode a Dio (5:1). Il cantico invita a benedire Dio (5:9). Al v. 10 si dice: “Voi che cavalcate asine bianche, voi che sedete su ricchi tappeti, e voi che camminate per le vie, cantate!”. Il contesto è qui: “Voi che”… ovvero tutti quelli che cavalcano asine, siedono su tappeti e camminano per strada. Tutti costoro sono invitati a cantare con Debora. Il verbo שִׂיחוּ (sìykhu), “cantate”, potrebbe anche essere reso “meditate”. Ma non è questo il punto. In ogni caso, tutte queste persone sono invitate a unirsi. E cosa devono fare? Lo dice il v. 11, che nell’ebraico ha letteralmente: “Da [מִ (mi)] voci dividenti tra abbeveratoi”. I “dividenti” (מְחַצְצִים, mekhatzetzìym) non sono altro che gli arcieri, che con i loro strali dividono o tagliano in due il bersaglio. La frase significa: “Lungi dalle grida degli arcieri, là tra gli abbeveratoi”. E si comprende allora il non senso di TNM: “Alcune delle voci dei distributori d’acqua fra i luoghi per attingere acqua”, frase sconnessa in cui la preposizione “da” (מִ, mi) è stata del tutto ignorata. E poi, chi sarebbero mai questi presunti “distributori d’acqua”? Come se ci fossero agli abbeveratoi dei camerieri che distribuivano acqua! Debora sta dicendo: Voi tutti meditate/cantate, ora, “essendo lo strepito degli arcieri venuto meno” (Did), e aggiunge: “Si celebrino [verbo תנה (tanàh)] gli atti di giustizia del Signore”. CEI traduce con il verbo “proclamare”. Tanàh ha anche in senso di “ripetere” o “narrare” con l’intento di celebrare (A Hebrew and Chaldee Lexicon, a cura di B. Davies, 1957, pag. 693). Il significato è ricco, ma il senso è quello di celebrare commemorativamente. “Ogni anno le fanciulle d’Israele vanno a piangere la figlia di Iefte il Galaadita, per quattro giorni” (11:40, CEI). “Piangere” è la traduzione esatta del verbo greco usata dalla LXX. La Bibbia del re Giacomo rende con “lamentare” e nella nota a margine ha “parlare insieme”. Le ragazze israelite si ritiravano annualmente per “celebrare”, piangere, lamentare, per “parlare insieme” ricordando la figlia di Iefte. In pratica, commemoravano per quattro giorni all’anno la morte di lei ripetendo i lamenti che la vergine e le sue compagne avevano fatto sulle montagne.

   Come ultima cosa, per chiudere il ragionamento, si notino i tempi dei verbi usati. Sono ovviamente tutti al passato, dato che narrano avvenimenti accaduti nel passato, ma quando si parla dell’usanza sorta in Israele compare il presente. Vediamo prima il testo biblico, poi trarremo la conclusione. Diamo un confronto tra l’ebraico e TNM del passo di Gdc 11:

 

V.

Ebraico

Tempo

Italiano

TNM

39

וַתָּשָׁב  (vatàshav)

passato

Tornò da suo padre”

“tornò da suo padre”

39

יַּעַשׂ

(yàas)

passato

fece a lei suo voto”

“egli adempì il voto”

39

לֹא־יָדְעָה

(lo-yadàh)

passato

“e non conobbe uomo”

“non ebbe mai relazione con uomo”

39

תְּהִי

(tehiy)

passato

“e [ci] fu usanza in Israele”

“divenne un regolamento in Israele”

40

תֵּלַכְנָה

(tlachnàh)

presente

“le figlie d’Israele vadano

“andavano a lodare”

 

   Ora ragioniamo. Secondo gli editori della TNM Iefte fu “giudice verso il 1173 a.E.V.” (Perspicacia nello studi delle Scritture Vol. 1, pag. 1244) e il libro di Giudici “fu completato: ca. 1100 a.E.V.” (Tutta la Scrittura è ispirata da Dio e utile, pag. 46). Anche se attribuissimo – per pura ipotesi – alla figlia di Iefte un’età di soli 15 anni al tempo dei fatti, avremmo che quando il libro fu completato – se fosse stata ancora in vita – avrebbe avuto 88 anni. Se ne avesse avuti 20, ne avrebbe poi avuto 93. Il punto è che “l’usanza” è riferita al presente e quindi continuava a perdurare al tempo in cui, secondo TNM, il libro fu completato. In ogni caso – ammesso e non concesso che la ragazza fosse sopravvissuta -, probabilmente sarebbe morta nel frattempo. Ma “l’usanza che le figlie d’Israele vadano tutti gli anni a celebrare la figlia di Iefte” perdurava. “le figlie di Israele”, poi, sono diverse dalle “compagne” con cui lei si recò sui monti prima che suo padre adempisse il voto. Non c’è dubbio che si trattasse di una celebrazione commemorativa. Se tutto l’artificio dei traduttori è dovuto al fatto di voler evitare che compaia un sacrificio umano, è sforzo inutile. I sacrifici umani sono assolutamente condannati dalla Scrittura:

“Quando sarai entrato nel paese che il Signore, il tuo Dio, ti dà, non imparerai a imitare le pratiche abominevoli di quelle nazioni. Non si trovi in mezzo a te chi fa passare suo figlio o sua figlia per il fuoco . . . perché il Signore detesta chiunque fa queste cose”. – Dt 18:9-12.

   In più, il libro di Giudici si chiude con queste chiare parole: “In quei giorni non c’era re in Israele. Ciascuno era solito fare ciò che era retto ai suoi propri occhi”. – Gdc 21:25, TNM.