I soliti critici hanno voluto accusare lo scrittore ispirato del libro di Ecclesiaste di gravi errori, come lo scetticismo, l’epicureismo e il pessimismo.

   Scetticismo. Sembrerebbe raggiungere il suo vertice nella constatazione che la sorte degli umani non si distingue da quella delle bestie. Agli uni e alle altre tocca la medesima fine: come muore una bestia, così muore un essere umano. Tutti hanno un medesimo soffio, tutti vengono dalla polvere e tutti alla polvere tornano.

“Infatti, la sorte dei figli degli uomini è la sorte delle bestie; agli uni e alle altre tocca la stessa sorte; come muore l’uno, così muore l’altra; hanno tutti un medesimo soffio, e l’uomo non ha superiorità di sorta sulla bestia; poiché tutto è vanità. Tutti vanno in un medesimo luogo; tutti vengono dalla polvere, e tutti ritornano alla polvere. Chi sa se il soffio dell’uomo sale in alto, e se il soffio della bestia scende in basso nella terra?”. – Ec 3:19-21.

   Questo passo ha suscitato molte controversie tra gli studiosi. Fu inteso nei modi più disparati.

   Scartiamo subito l’ipotesi sostenuta da non pochi padri e dottori medievali che pensavano che qui il Qohèlet non facesse altro che ripetere un’obiezione dei malvagi. Tutto ciò non ha fondamento nel contesto biblico. Scartiamo anche l’interpretazione del Cornely e del Vigouroux, che danno una risposta alla domanda del v. 21: “Chi conosce lo spirito dei figli del genere umano, se sale verso l’alto; e lo spirito della bestia, se scende verso il basso alla terra?” (TNM); secondo costoro coloro che ‘conoscono’ saprebbero che l’anima umana sale a Dio e quella della bestia svanisce. Questa ipotesi va rifiutata per due ragioni: 1. Il contesto vuole proprio affermare l’identità tra essere umano e bestia in quanto al morire; 2. Lo “spirito” nella Bibbia non viene mai identificato con l’anima (che, comunque, è l’essere carnale intero, sia animale sia umano).

   Prendiamo ora in considerazione le ipotesi più aderenti al testo. Alcuni esegeti pensano che il dubbio non riguardi la sopravvivenza della persona (attestata in 9:10: “Nel soggiorno dei morti dove vai, non c’è più né lavoro, né pensiero, né scienza, né saggezza”), ma il modo di questa sopravvivenza. Così la pensano Condamin, Zapletal, Fillion; tutti costoro seguono Girolamo, Alcuino e Caro. Va detto che ai tempi biblici si poneva comunemente lo sheòl o soggiorno dei morti in luogo sotterraneo. L’autore esprimerebbe quindi il dubbio se lo spirito (inteso erroneamente da questi esegeti come anima) non abbia a salire in una regione più elevata per trascorrervi un’esistenza più serena. Questa ipotesi si richiama alla prima parte del libro apocrifo di Enoc (scritto verso il 2° o il 1° secolo a. E. V.) in cui, in 22:1,2, si afferma che le anime dei giusti sono collocate in alto, nella caverna di un’alta montagna posta nelle regioni occidentali, dove attendono il giudizio universale. Di certo questa era la convinzione degli ebrei. Anche il ricco epulone della parabola supponeva così (Lc 16:19-31). Dobbiamo però obiettare che nel passo discusso di Ec il confronto non sta tra le anime dei giusti e quelle dei malvagi, ma tra lo spirito dell’uomo e quello della bestia. Inoltre – e lo ribadiamo -, mai nella Bibbia lo “spirito” indica un’anima separata al corpo.

   Con più ragione altri esegeti intendono lo “spirito” di Ec 3:21 (רוּחַ, rùakh), tradotto “soffio” da NR, non come l’anima ma come “soffio vitale”. Questo “soffio vitale” è comune tanto agli esseri umani quanto agli animali (Gn 2:7; Gb 17:1; Sl 104:29,30). Secondo l’ipotesi di questi studiosi l’autore si farebbe interprete di una nuova idea, lasciata un po’ nell’ombra. Egli direbbe che lo spirito viene da Dio, sia per gli animali sia per gli esseri umani (spirito inteso come soffio vitale, respiro, alito), ma alla morte – qui starebbe la novità – ogni spirito (animale e umano) che prima era fatto risalire a Dio (Sl 104:29,30; Gb 34:14,15), ora – al tempo dell’Ecclesiaste –  si iniziava a pensare che salisse in alto se umano e scendesse in basso se animale. L’Ecclesiaste affermerebbe la sua ignoranza in merito, ponendo appunto la domanda con la formula “Chi sa se …” (3:21). Ma anche di fronte a questa ipotesi dobbiamo obiettare. Nel passo di Ec, infatti, non si rinviene proprio nessuna allusione alla persistenza di un quid o di un qualcosa di umano. Nella Bibbia questo qualcosa era chiamato “spettro” od “ombra” (רְפָאִים, refaìm): “Davanti a Dio tremano le ombre [רְפָאִים (refaìm); TNM: “Quelli impotenti nella morte”]” (Gb 26:5); “Rivivano i tuoi morti [רְפָאִים (refaìm); letteralmente: “I tuoi spettri”]! . . . Svegliatevi ed esultate, o voi che abitate nella polvere!” (Is 26:19). “Spettro” o “ombra” o – nel linguaggio particolare e tutto strano di TNM – ‘quello impotente nella morte’ (רְפָאִים, refaìm) è cosa ben diversa dallo “spirito” (rùakh) di Ec. Gli ebrei che ignoravano “la via dello spirito” (Ec 11:5, TNM), vale a dire il mistero della nascita, ignoravano pure il mistero della morte. Si noti:

“Le tue proprie mani mi hanno formato così che mi hanno fatto

Per intero all’intorno, eppure mi inghiottiresti.

Ricorda, ti prego, che mi hai fatto dall’argilla

E che mi farai tornare nella polvere.

Non mi versavi come il latte stesso

E mi rapprendevi come il formaggio?

Mi vestivi di pelle e carne

E mi intessevi di ossa e tendini”. – Gb 10:8-11, TNM.

“Le mie ossa non ti furono occultate

Quando fui fatto nel segreto,

Quando fui tessuto nelle parti più basse della terra”. – Sl 139:15, TNM.

   Ad ogni modo, l’Ecclesiaste afferma (in 12:7) molto chiaramente, secondo la tradizione ebraica, che lo “spirito” umano torna a Dio: “La polvere torna alla terra proprio come era e lo spirito stesso torna al [vero] Dio che l’ha dato” (TNM). La Scrittura è ben lontana dalla speculazione così cara agli egizi, ai greci e a molti altri popoli pagani che sostenevano l’immortalità dell’anima. Sbagliava completamente il Descartes quando scriveva: “La nostra [anima] è di natura totalmente indipendente dal corpo, e di conseguenza non può morire con esso” (Discours de la Méthode). La vita d’oltretomba non è affatto un prolungamento della vita sublunare, ma un qualcosa di totalmente nuovo: “Ecco, io faccio nuove tutte le cose”. – Ap 21:5.

   Come sarà la nostra vita futura? Dovremmo affermare, insieme all’Ecclesiaste: Non lo sappiamo (“Chi sa se …”). Ma noi viviamo dopo che il Messia è venuto, e una certezza ora l’abbiamo: “Ora è stata resa chiaramente evidente per mezzo della manifestazione del nostro Salvatore, Cristo Gesù, che ha abolito la morte, ma ha fatto luce sulla vita e sull’incorruzione [ἀφθαρσίαν (aftharsìan)]”. – 2Tm 1:10, TNM.

   Solo Yeshùa il consacrato, uomo morto e resuscitato dai morti, è caparra d’immortalità. Senza di lui saremmo morti definitivamente e perennemente. Con la sua obbedienza fino alla morte, Yeshùa, “risuscitato dai morti, non muore più” (Rm 6:9). Non esiste l’anima immortale: questa è solo una credenza pagana. Se avessimo un’anima immortale, la venuta di Yeshùa sarebbe superflua. Ma Yeshùa è la risposta al problema della morte. Senza la risposta che Dio ha dato tramite Yeshùa, tutto sarebbe posto a discussione, proprio come fa l’Ecclesiaste. Il Qohèlet ci dà una lezione sublime: mentre egli osserva che uomini e animali muoiono tutti alla stessa maniera, pone una domanda: “Chi sa se …”. Lui non ha una risposta, ma la lezione che ci dà sta nel porci la domanda. La risposta di Dio arriva con Yeshùa: “Benedetto sia il Dio e Padre del nostro Signore Gesù Cristo, che nella sua grande misericordia ci ha fatti rinascere a una speranza viva mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti, per una eredità incorruttibile, senza macchia e inalterabile. Essa è conservata in cielo per voi” (1Pt 1:3,4). L’Ecclesiaste ci impedisce ogni disperazione, ma nel contempo rimuove ogni ipocrisia; è il cosiddetto candore biblico: “Chi sa se … ”.

   L’epicureismo nell’Ecclesiaste? Non sarà male rammentare che Epicuro (341-271 a. E. V.), fondatore della scuola epicurea, non riponeva il piacere nei godimenti materiali, ma piuttosto nell’assenza dei dolori fisici e delle inquietudini dello spirito. Egli raccomandava la virtù, ma non la virtù per se stessa, la virtù per i piaceri che essa procura e per i suoi vantaggi. Epicuro insegnava in tal modo un egoismo raffinato e voleva che il sapiente cercasse la felicità nei diletti spirituali, nella cultura intellettuale, nell’amicizia e nei piaceri semplici e naturali del corpo. Furono i suoi discepoli a rendere questa dottrina sempre più grossolana e materiale. Già Metrodoro, discepolo prediletto di Epicuro, riponeva la felicità nei piaceri del ventre. L’eresia continuò. Potremmo dire che dal ventre passò al basso ventre, tanto che oggi “epicureismo” è sinonimo di piaceri sensuali. La domanda è: Queste tracce di epicureismo degenerato sussistono veramente in Ecclesiaste?

   Il godimento cui il Qohèlet invita è un godimento ovvio e comune. Non deriva per niente dall’epicureismo, poiché già si legge in un frammento babilonese del poema epico di Ghilgamesh (anteriore alla Bibbia):

“Giacché gli dèi crearono l’uomo,

disposero che l’uomo dovesse morire

e tennero nelle loro mani la vita.

Tu, o Ghilgamesh, suvvia empiti il ventre,

sta allegro giorno e notte,

datti alla gioia tutto il giorno,

fa’ baldoria giorno e notte, e divèrtiti.

Goditi tua moglie

E il tuo lavoro in pace”.

Epopea di Ghilgamesh 10,3; ANET pag. 90.

   Se si confronta questo testo babilonese con quello di Ec, si trova lo stesso concetto. Ma Ec lo espone in modo molto più sano:

“Godi la vita con la moglie che ami, per tutti i giorni della vita della tua vanità, che Dio ti ha data sotto il sole per tutto il tempo della tua vanità; poiché questa è la tua parte nella vita, in mezzo a tutta la fatica che sostieni sotto il sole”. – Ec 9:9.

   Si noti che per l’Ecclesiaste anche i piaceri di questa vita sono vanità. Lo esprime qui, quando parla dei “giorni della vita della tua vanità”, ma lo esprime anche in 2:1,2: “Io ho detto in cuor mio: ‘Andiamo! Ti voglio mettere alla prova con la gioia, e tu godrai il piacere!’. Ed ecco che anche questo è vanità. Io ho detto del riso: ‘È una follia’; e della gioia: ‘A che giova?’”. Dato che “non c’è sulla terra nessun uomo giusto che faccia il bene e non pecchi mai” (7:20), l’autore suggerisce la moderazione: “Non essere troppo giusto, e non farti troppo saggio: perché vorresti rovinarti? Non essere troppo empio [= “non moltiplicare la tua empietà”], e non essere stolto; perché dovresti morire prima del tempo?” (7:16,17). L’Ecclesiaste loda la vita e ci esorta ad amarla: “Bandisci dal tuo cuore la tristezza, e allontana dalla tua carne la sofferenza” (12:2). Per il Qohèlet occorre vivere la vita oggi, accoglierla nella sua pienezza: la vita è unica e non va sprecata.

   Il godimento di questa vita, cui invita l’Ecclesiaste, è ben lontano dall’invito del Blake, del Nietsche e dell’Altizer che negano l’esistenza di Dio e che vedono la liberazione da ogni infelicità nel dire di sì a ogni proposta della carne e della vita senza limitazione alcuna. No, niente affatto. L’invito dell’Ecclesiaste è l’invito di un uomo spirituale la cui spiritualità si caratterizza nel comando: “Temi Dio!” (5:7). Egli raccomanda: “Pensa bene a quello che fai quando vai nella casa di Dio. Ci devi andare per ascoltare l’insegnamento di Dio piuttosto che fare come gli stolti”. – 4:17, PdS.

   Pessimismo dell’Ecclesiaste? Secondo il Leopardi il mondo ha due cose belle: l’amore e la morte. Non ci sono dubbi che nella vita umana l’Ecclesiaste veda soprattutto ombre. Il suo libro è pervaso da malinconia. Ma è una malinconia mossa principalmente da profonda compassione per le umane sofferenze. La sua malinconia rende le sue pagine efficacemente simpatiche: simpatiche nel vero significato della parola (συμπάτεια, sümpàteia, da cui il nostro “simpatia”, indica la conformità di sensazioni e di sentimenti).

   Nelle parole dell’Ecclesiaste non vibra un animo abbattuto, come nel pessimismo genuino, ma una tranquilla rassegnazione di fronte alle realtà della vita, e non senza vigoria di spirito. Ci troviamo del tutto d’accordo con la dichiarazione dello studioso Mc Neile: “L’Ecclesiaste fu spesso chiamato pessimista, ma questo è un malinteso, perché egli ha la convinzione interiore che l’umanità dev’essere e potrebbe essere migliore se le circostanze fossero più favorevoli. La sua tristezza non sarebbe così profonda se non stimasse le risorse umane volte al bene”.

   Il Qohèlet non suggerisce la morte come rimedio, ma il godimento sereno dei beni terreni: mangiare e bere, unirsi alla propria moglie. Di certo tutto ciò non ha nulla a che fare con il pessimismo.

   Tutto sommato, la morale dell’Ecclesiaste non è perfetta: la perfezione non era possibile (Eb 7:11). La sua morale non è neppure elevata, ma non è neanche malsana. Il livello morale e spirituale di Ec non è al di sotto di quello degli altri libri delle Scritture Ebraiche. Mostra però che al tempo dell’Ecclesiaste si viveva in un periodo di profonda crisi in cui l’antica fede ebraica più non bastava a risolvere i problemi del tempo e a soddisfare i profondi bisogni dello spirito umano. Dopo che in Israele aveva dominato il concetto della retribuzione collettiva, riuscì a imporsi il concetto del premio o della punizione individuale:

 

Retribuzione collettiva

Retribuzione individuale

“Che significa per voi che esprimete questo detto proverbiale sul suolo d’Israele, dicendo: ‘I padri mangiano l’uva immatura, ma ai figli si allegano i denti’?”. – Ez 18:2.

“In quei giorni non si dirà più: ‘I padri hanno mangiato uva acerba e i denti dei figli si sono allegati’, ma ognuno morirà per la propria iniquità; chiunque mangerà l’uva acerba avrà i denti allegati”. – Ger 31:29,30.

 

   Ma questa retribuzione era pur sempre concepita nel quadro dell’esistenza terrestre e perciò in continuo confronto con le contraddizioni della vita (cfr. la diatriba di Giobbe). Bisognava pervenire al concetto delle sanzioni eterne, che in quel tempo costituiva un terreno del tutto inesplorato. Ai tempi di Ec l’aldilà si riduceva solo all’ingresso nello sheòl, zona d’ombra, d’inattività, di silenzio e di morte. A operare questo sganciamento dai premi terreni si dedicò proprio l’Ecclesiaste. Pur accordando il suo favore ai piaceri terreni, egli ne afferra la vanità e si orienta di più verso una nuova visione centrata sull’eternità. Tuttavia, l’attività dell’Ecclesiaste è stata solo negativa. La parte positiva non poteva venire da lui, e nemmeno poteva venire dalle Scritture Ebraiche. I tempi intanto maturavano, il proposito di Dio si attuava man mano, e “quando giunse la pienezza del tempo, Dio mandò suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare quelli che erano sotto la legge”. – Gal 4:4,5.