Circa i generi letterari di Dn vediamo ora l’opinione intermedia più sfumata. Noi crediamo che in Dn vi siano tre generi letterari: la profezia, il genere didattico e quello apocalittico.

  1. Il libro è una vera profezia. La profezia, in senso biblico, non è tanto l’annuncio di cose future (come popolarmente si pensa) quanto piuttosto la comunicazione del messaggio di Dio. Il profeta è colui che parla a nome di Dio, sia che annunci il futuro sia che dia un insegnamento divino ai contemporanei. Il libro di Dn cerca di incoraggiare i giudei, perseguitati per la loro fede da Antioco IV Epifane, a rimanere fedeli e leali al vero unico Dio. Il messaggio di Daniele vuole anche infondere speranza e sicurezza: Dio è il Signore della storia, controlla lo svolgersi degli eventi, ha già fissato il momento in cui verrà il tempo della fine cui succederà il periodo di pace e di gioia universale. In nome di Dio, Daniele (e, ancora di più, l’ispirato autore anonimo che ha dato la forma definitiva al libro) esorta i credenti ad avere fiducia nel Signore, a resistere al persecutore, a evitare compromessi di ogni genere, a essere pronti anche al martirio con cui arriveranno alla resurrezione e alla gloriosa corona a essi riservata. Il profeta assicura pure una giusta condanna ai persecutori del suo tempo. Il profeta presenta tale suo insegnamento utilizzando due generi letterari particolari: il didattico e l’apocalittico.
  2. Il genere didattico. Questo genere appare nei racconti in forma storica che prevalgono nella prima parte del libro. Per mezzo d’essi l’autore riferisce un episodio particolare che si ricollega a fatti simili del tempo di Antioco Epifane. Pur utilizzando del materiale storico preesistente – e che in parte risale allo stesso periodo persiano e babilonese – il profeta rielabora il tutto in funzione di un insegnamento pratico per i lettori del 2° secolo. Indichiamo i paralleli, distinguendo i riferimenti al 6° secolo e i riferimenti al 2° secolo:
  • Antioco voleva obbligare i giudei a mangiare il cibo dei pagani, anche quello proibito dalla Legge (si pensi, ad esempio, alla carne di maiale), ma Daniele e i suoi compagni rifiutavano il cibo non puro (non kashèr, כשר) e prosperano in salute. – Dn 1:12-15.
  • Antioco eresse un altare e ordinò di adorare Zeus, ma i tre giovani per aver rifiutato rendere culto alla statua del dio pagano sono gettati in una fornace surriscaldata e ne sono miracolosamente salvati. – Dn 3:13-27.
  • Antioco si crede un dio e si esalta al pari di Nabucodonosor che per un’improvvisa pazzia è costretto a nutrirsi d’erba come fanno i buoi, fino al suo pentimento. – Dn 4.
  • Antico profanò il Tempio di Gerusalemme così come fece anche Baldassar quando volle adoperare in modo dispregiativo e per uso profano i vasi sacri sottratti al Tempio, ma per questo perisce miseramente. – Dn 5.
  • Antioco si proclama un essere divino e come tale vuole essere adorato, ma Daniele che rifiuta di adorare Dario è gettato nella fossa dei leoni da cui il suo Dio prodigiosamente lo libera. – Dn 6.

   I paralleli sono troppi e così precisi da non potersi ritenere puramente fortuiti.  Il narratore rilegge gli eventi del passato in funzione del presente.

   Non si tratta quindi di una pura storia aneddotica, ma di un insegnamento spirituale e profetico in forma storica. Si tratta di vero e proprio midràsh aggadico. Esso non è però pura leggenda, perché poggia su reali nuclei storici. Non è però la storia quella che interessa lo scrittore quanto piuttosto l’insegnamento spirituale che se ne ricava. Siamo quindi alla presenza di racconti aggadici in cui il nucleo storico è abbellito ad arte per meglio enunciare l’insegnamento spirituale.

   In questa parte l’autore non usa la prima persona, per cui non si può e non si deve concludere che il racconto sia stato composto da Daniele. Daniele e i compagni sono solo l’oggetto della narrazione. Proprio come Giosuè è il protagonista del suo libro, senza per questo dover concludere che lo abbia scritto lui.

  1. Testi apocalittici. Si distinguono dai profetici per il loro contenuto. È un dato indiscusso che uno scrittore (salvo che non sia specializzato in ricerche storiche sul passato) conosca meglio il tempo a lui contemporaneo che il passato. È per questo che dall’esame dei particolari storici a lui noti si può dedurre con sufficiente rigore l’epoca in cui visse.

   Segnaliamo ora i tratti distintivi e le differenze tra i profeti e gli apocalittici:

  • I profeti (se i loro scritti solo abbastanza lunghi) presentano particolari precisi per l’epoca a essi contemporanea, mentre sono poco minuziosi e più generici per tutto ciò che riguarda il passatoGli apocalittici, al contrario, sono poco precisi per il tempo in cui visse il profeta da essi indicato, mentre sono molto minuziosi per un periodo determinato a lui posteriore.  Si deve perciò concludere che il profeta visse realmente nell’epoca da lui indicata, mentre il profeta apocalittico visse non nel tempo in cui si pone la persona che ha le visioni ma nel periodo del suo annuncio profetico.
  • Nel primo caso si tratta di vera profezia, nel secondo caso di una descrizione di fatti già avveratisi ed espressi in forma di profezia.
  • Nel primo caso il profeta, che era conosciuto, non ha bisogno di nominarsi; nel secondo, lo scrittore (che è il vero profeta) deve indicare per nome la persona a lui anteriore che sceglie per mettergli in bocca l’annuncio di ciò che in parte si è già avverato. Quando nei libri profetici s’indica il nome del profeta, si tratta di aggiunte posteriori compiute dai discepoli che ne hanno raccolto gli scritti oppure della tradizione posteriore.
  • Mentre il profeta di solito (eccetto Ezechiele, contemporaneo di Daniele) parla in nome di Dio usando l’espressione “così dice il Signore”, l’apocalittico presenta invece delle visioni enigmatiche che devono essere spiegate da un angelo.

   Ora, il libro di Dn presenta dei particolari tra loro contraddittori. Si mostra assai bene al corrente dei dati babilonesi (ricorda, ad esempio, Baldassar, personaggio ignoto fino a poco tempo fa; conosce particolari propri di Nabonide, l’ultimo re caldeo babilonese dal 556 al 539 a. E. V.; usa la terminologia babilonese e menziona costumi propri degli ultimi re della Babilonia), per cui si dovrebbe pensare a un autore del 6° secolo a. E. V.. Ma nel medesimo tempo per quanto concerne la profezia sorvola sui primi tre regni mentre è minuziosissimo per il periodo dei re seleucidi di Antiochia.

   Abbiamo quindi due periodi ben chiari: il 6° secolo per la parte storica e il 2° secolo per le visioni profetiche. Non possiamo dunque fare a meno di concludere che si tratta di due autori: uno del periodo babilonese e persiano, e uno del secondo secolo.

   La parte propriamente apocalittica, che svela in forma profetica i fatti storici già avveratisi, si presenta particolarmente nei capitoli 10 e 11, i quali sono diversi dagli altri testi profetici per abbondanza di particolari assai minuziosi. Questi mostrano che il suo redattore (ispirato, non si dimentichi), che ha poi rivisto tutto il resto dandogli la sua espressione finale oggi esistente, visse nel 2° secolo prima della nostra èra. È vero che Dio poteva rivelare anche questo a Daniele alcuni secoli prima, ma si tratterebbe di un caso unico nel genere profetico, che quindi dovrebbe essere documentato con serietà.

   Sarebbe poi curioso che Daniele, vissuto nel 6° secolo, avesse a interessarsi così tanto dei problemi del 2° secolo, dimenticando i suoi contemporanei e gli immediati suoi successori. Bisognerebbe avere ragioni davvero molto serie per ammettere un tale comportamento divino, che mai si riscontra in altre profezie.

   Quest’autore fa parlare Daniele in prima persona, per cui ci rimane ignoto; neppure si presenta con uno pseudonimo. Si presenta come Daniele mentre Daniele non è. Per questa pseudonimia possiamo fare le considerazioni seguenti:

  • Al tempo non v’era la proprietà letteraria come vige oggigiorno. L’attribuire la propria esperienza a un personaggio antico appare anche nel caso di Ecclesiaste, che fa parlare Salomone per dar maggior rilievo al suo insegnamento. Solo i creduloni delle religioni prendono tutto alla lettera senza fare indagini critiche.
  • Anche noi parliamo di Donazione di Costantino, pur sapendo che Costantino non ha mai donato nulla al papa. Parliamo di Omero, di Shakespeare e di Tommaso da Kempis come autori rispettivamente dell’Iliade e dell’Odissea, delle tragedie e dell’Imitazione di Cristo; queste opere ci sono state tramandate con quelle paternità e così le accettiamo, anche se gli studiosi hanno seri dubbi al riguardo.
  • Anche Yeshùa doveva parlare del “profeta Daniele” perché il vero profeta anonimo si era celato nei panni di Daniele. Quel che importa è il fatto della profezia e non il nome genuino di chi la presenta.

   Tuttavia, se accogliamo l’ipotesi prima riferita, che spiega l’origine del libro con un nucleo storico risalente davvero a Daniele (sia pure inizialmente in forma orale), si capisce in modo ancora più chiaro l’attribuzione di tale preannuncio al profeta Daniele. Anche se il suo insegnamento fu attualizzato dall’ultimo anonimo redattore, egli avrebbe davvero preannunciato qualcosa della restaurazione messianica.

   Concludendo, si può dire che il libro di Daniele è uno scritto profetico che assieme alla profezia accoglie alcuni elementi didattici e apocalittici, presentando così una complessità di generi letterari, bellamente intrecciati tra loro per l’edificazione del lettore. Anche se essi riguardano problemi esistenziali del 2° secolo a. E. V., di fatto possono applicarsi a situazioni simili in tutti i secoli. In queste situazioni il credente viene a trovarsi nel pericolo di compromettere la sua fede per esigenze socio-politiche.

   Nessun compromesso tra il bene e il male, tra la luce e le tenebre, tra Dio e satana.