Nelle Scritture Greche il battesimo di Yeshùa ha una grande importanza: esso segna l’inizio di una nuova èra, tanto è vero che la buona notizia prende l’avvio dal battesimo di Yeshùa ad opera di Giovanni. Il sostituto del traditore Giuda dovrà essere scelto tra coloro che sono stati con Yeshùa “a cominciare dal battesimo di Giovanni” (At 1:22). Yeshùa prese ad agire “dopo il battesimo predicato da Giovanni” (At 10:37). Al battesimo di Yeshùa tende l’attività del battezzatore. Tale sua attività non è narrata come storia a sé stante, ma perché prepara il battesimo di Yeshùa.

   Per la sua importanza, il battesimo di Yeshùa è narrato da tutti e tre i sinottici; il quarto evangelista, pur non descrivendo il rito, riporta le parole del battezzatore. Perfino gli apocrifi ne parlano (Vangelo degli ebioniti 4; Vangelo degli ebrei 2). Va notato che i racconti evangelici, più che narrare il battesimo di Yeshùa, intendono sottolinearne la teofania (= rivelazione di Dio) successiva in cui Yeshùa viene presentato da Dio come suo “figlio”. La teofania è, infatti, l’apice cui tende l’intero racconto.

   Esamineremo dapprima il racconto di Mr (quello più primitivo), per poi ricordare – nei prossimi studi – le principali differenze degli altri evangelisti.

 

Mr 1:9-11

   La forma, tipicamente ebraica e concreta al massimo, narra in modo scheletrico il battesimo di Yeshùa e la successiva teofania. Questa sembra riservata a Yeshùa, assumendo quindi un’apparenza d’intimità. Il chiasmo è una figura narrativa. Prende nome dalla lettera greca chi: χ (ch aspirato). La geometria di questa lettera greca collega idealmente due frasi in cui la prima parte della prima frase è collegata alla seconda parte della seconda frase e la seconda parte della prima frase è collegata alla prima parte della seconda frase. Come, ad esempio:

 

Nella mia angoscia ho invocato il Signore,

X

ed egli m’ha risposto”.

(Sl 120:1)

 

La simmetria del chiasmo si ottiene anche facendo corrispondere la prima parte alla quarta e la seconda alla terza, con un perno centrale. È il caso del brano marciano qui trattato. Ecco lo schema:

Mr 1:

Testo

9a

Gesù venne da Nazaret di Galilea

9b

e fu battezzato da Giovanni nel Giordano.

10a

A un tratto, come egli usciva dall’acqua,

10b

vide aprirsi i cieli e lo Spirito scendere su di lui come una colomba.

11

Una voce venne dai cieli: ‘Tu sei il mio diletto Figlio; in te mi sono compiaciuto’”.

In questo schema vi è una simmetria chiastica. Tale forma è ben visibile nel greco:

1

 salente

ἀναβαίνων

anabàinon

2

dall’acqua

ἐκ τοῦ ὕδατος

ek tu ΰdatos

perno

vide

εἶδεν

èiden

3

lo spirito

τὸ πνεῦμα

to pnèuma

4

scendente verso

καταβαῖνον εἰς

katabàinon èis

   Il perno è dato da “vide”, che ha per soggetto Yeshùa. Il primo verbo (“salente”) richiama l’ultimo (“scendente”); ”acqua” si oppone a “spirito”. Letteralmente, il testo ha “salente” (opposto a “scendente”, letteralmente). La particella ek (“da”) è opposta alla particella èis (“verso”). La traduzione “scendere su di lui” (adottata anche da TNM) non è precisa: èis significa “verso”. TNM peggiora il senso, proponendo in una nota in calce: “O, ‘dentro’, cioè per entrare in lui”; il greco ha, letteralmente: “scendente verso”. I due verbi (“salente” e “scendente”) hanno il senso primario di moto locale di Yeshùa che sale dall’acqua e dello spirito che scende dal cielo verso di lui.

    “Cielo” nella Bibbia è sinonimo di “Dio”. Biblicamente, il cielo è il trono di Dio e la terra è sgabello dei suoi piedi: “Il cielo è il mio trono e la terra è lo sgabello dei miei piedi” (Is 66:1); “La terra l’ha data agli uomini” (Sl 115:16). Per visitare gli uomini, biblicamente, Dio deve scendere: “Il Signore discese per vedere la città e la torre che i figli degli uomini costruivano” (Gn 11:5); “Il Signore esce dal suo luogo, scende, cammina sulle alture della terra” (Mic 1:3); “Signore, abbassa i tuoi cieli e scendi” (Sl 144:5); e poi risalire: “Quando ebbe finito di parlare con lui, Dio lasciò Abraamo, levandosi in alto” (Gn 17:22). Anche lo spirito inviato da Dio scende: “Su di noi sia sparso lo Spirito dall’alto” (Is 32:15); “Mediante lo Spirito Santo inviato dal cielo” (1Pt 1:12). Scendono anche gli angeli che abitano con Dio: “Vidi uno dei santi veglianti scendere dal cielo” (Dn 4:13); “Un angelo del Signore, sceso dal cielo” (Mt 28:2). Biblicamente, anche se l’uomo sale non può mai raggiungere Dio, per cui l’incontro avviene sui monti dove l’uomo sale e Dio scende: “Il Signore dunque scese sul monte Sinai, in vetta al monte; e il Signore chiamò Mosè sulla vetta del monte, e Mosè vi salì” (Es 19:20); “Venite, saliamo al monte del Signore” (Is 2:3). Il “salire” (ἀναβαίνω, anabàino) divenne perciò un termine cultuale (ossia legato al culto) sia nelle Scritture Ebraiche che nella letteratura rabbinica (cfr. “anabàino” nel Grande Lessico di Kittel). “Salire” significa il salire al Tempio o a un altro luogo di culto, come Betel (Gn 35:1-8), Silo (1Sam 1:7), Gerusalemme (1Re 19:14;20:5,8). Anche oggi, nell’ebraico moderno, quando un israeliano espatria da Israele e va in un’altra nazione e poi torna in Israele, si dice che “scende” da Israele verso quella nazione e poi “sale” di nuovo in Israele. Haàrets, “la terra” (Israele) è ritenuta idealmente in alto e le altre nazioni in basso.

   Salire e scendere indicano nella Bibbia i legami tra cielo e terra: “Una scala poggiava sulla terra, mentre la sua cima toccava il cielo; e gli angeli di Dio salivano e scendevano per la scala”. – Gn 28:12.

   L’apertura dei cieli (“Vide aprirsi i cieli”, Mr 1:10) è un mezzo espressivo tradizionale per presentare una visione. Questo modo di esprimersi appare per la prima volta in Ez 1:1: “Mentre mi trovavo presso il fiume Chebar, fra i deportati, i cieli si aprirono, e io ebbi delle visioni divine”. Si presenta anche nelle Scritture Greche: “Vi dico che vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sul Figlio dell’uomo” (Gv 1:51); “Ecco, io vedo i cieli aperti, e il Figlio dell’uomo in piedi alla destra di Dio” (At 7:56); “Vide il cielo aperto, e scenderne un oggetto simile a una gran tovaglia” (At 10:11). L’Apocalisse (Rivelazione) esprime la stessa cosa con il simbolo della porta aperta: “Vidi una porta aperta nel cielo” (Ap 4:1). Il verbo usato in Mr 1:10 è σχίζω (schìzo), numero Strong 4977, che significa “fendere, fendere a pezzi, lacerare, dividere lacerando”; si parla quindi di una “rottura” del cielo: εἶδεν σχιζομένους τοὺς οὐρανοὺς, èiden schizomènus tus uranùs, “vide lacerarsi i cieli” (Mr 1:10). Inappropriato, dunque, l’“aprirsi i cieli” di NR, ND e CEI; debole il “separarsi i cieli” di TNM; bene Did: “vide fendersi i cieli”. Il verbo σχίζω (schìzo), “lacerare, rompere”, è più forte del verbo ἀνοίγω (anòigo), “aprire”, usato da Mt e Lc nei passi paralleli.

   Lo “spirito” indica la potenza di Dio che scende su Yeshùa per abilitarlo a compiere la sua missione, che ha appunto inizio proprio con questa potenza. Si noti, in Lc 1:35, il parallelo tra lo spirito di Dio e la potenza di Dio: “Lo Spirito Santo verrà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà”; allo stesso modo TNM: “Lo spirito santo verrà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra”. Lo spirito divino è presentato, per l’aspetto della visione, in forma di colomba. Gli ebrei rappresentavano lo spirito proprio con tale uccello; “spirito” (רוּחַ, rùakh) in ebraico è un nome femminile. Nel Targum sul Cantico dei Cantici la voce della colomba (2:12) è interpretata come la voce dello spirito santo. Dato che presso i rabbini esso riunisce e guida Israele, anche Israele è talora paragonata nei Salmi a una colomba: delle tende policrome di Israele accampata si dice: “Si coprono d’argento le ali della colomba e d’oro le sue piume” (Sl 68:13); una colomba che posa il volo su grossi alberi, i “terebinti lontani” (Sl  56:1). Efraim è paragonata ad una colomba ingenua che chiede aiuto all’Egitto e all’Assiria, ma che finisce nella rete dell’uccellatore: “Efraim è come una colomba stupida e senza giudizio; essi invocano l’Egitto, vanno in Assiria. Mentre andranno, io stenderò su di loro la mia rete; ve li farò cadere, come gli uccelli del cielo; li castigherò, come è stato annunziato alla loro comunità”. – Os 7:11,12.

   In relazione a Gn 1:2 dove lo “Spirito di Dio aleggiava sulla superficie delle acque” e si preparava a trarre la creazione dall’oceano primordiale, si può vedere nello spirito che scende su Yeshùa in forma di colomba la sua attività per preparare la nuova Israele, il nuovo popolo di Dio.

   Mr 1:11 riferisce di “una voce venne dai cieli” e che dice: “Tu sei il mio diletto Figlio; in te mi sono compiaciuto”. La parola “figlio” è nel testo greco υἱός (üiòs); questo termine è usato dalla LXX greca per tradurre l’ebraico בן (ben) che indica non solo la relazione (in senso generativo) con il padre terreno, ma anche l’affetto verso chi è chiamato “figlio”. Questo secondo aspetto passa in prima linea quando è Dio che parla. Il popolo di Israele, che Dio ama dopo averlo scelto per puro amore, è chiamato “figlio”: “Così dice il Signore: Israele è mio figlio” (Es 4:22; cfr. Is 1:2; Ger 31:18,sgg.; Os 11:1). Il re davidico è chiamato lui pure “figlio”: “Io sarò per lui un padre ed egli mi sarà figlio” (2Sam 7:14). Il “servo” messianico (Is 42:1), nonostante sia presentato come una creatura amata da Dio, non è mai tradotto con υἱός (üiòs) dalla LXX, ma con “schiavo” (δοῦλος, dùlos) o con “ragazzo” (παῖς, pàis). Similmente anche Yeshùa, negli Atti e una volta nei Vangeli, è chiamato “servo”: “[Dio] ha glorificato il suo servo Gesù” (At 3:13); “Dio, avendo suscitato il suo Servo [Yeshùa]” (At 3:26); “Ecco il mio servitore che ho scelto” (Mt 12:18). Per sottolineare l’amore di Dio verso Yeshùa, questi è anche chiamato “l’amato”. In Mt 12:18 il greco ha ὁ ἀγαπητός (o agapetòs), “l’amato”; non il “diletto”, come traduce TNM e NR. Così anche in Mt 17:5: “Questo è il mio figlio, l’amato [ὁ ἀγαπητός (o agapetòs)]”, e non “diletto” (TNM, NR). Did traduce: “Questi è il mio amato Figlio”. Stessa cosa in Mr 9:7 e Lc 20:13: si tratta sempre dell’“amato” (ὁ ἀγαπητός, o agapetòs), e non semplicemente del “diletto” (TNM, NR). È un peccato che queste versioni bibliche non si attengano al testo greco originale: questo termine (ὁ ἀγαπητός, o agapetòs), usato come sostantivo, è infatti riservato nelle Scritture Greche solo a Yeshùa. L’uomo Yeshùa è “l’amato” di Dio. TNM usa il termine “amato” riferito a Yeshùa solo in Ef 1:6, traducendo ἐν τῷ ἠγαπημένῳ (en to egapemèno) con “mediante il [suo] amato”; traduzione giusta, ma qui si tratta del verbo: “che è stato amato”. Negli altri casi, ὁ ἀγαπητός (o agapetòs) è un aggettivo sostantivato. Quest’aggettivo traduce nella LXX l’ebraico יחיד (iakhìd) che può anche assumere il valore di “unigenito” e talora di “primogenito”. È naturale che il figlio unico sia particolarmente amato dal padre; per gli ebrei, poi, il primogenito era preferito agli altri figli perché doveva possedere l’eredità del padre (due terzi spettavano a lui, il rimanente terzo era suddiviso tra gli altri figli). Yeshùa è quindi un figlio tutto particolare, amato da Dio come suo unigenito: “Abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre”. – Gv 1:14.

   L’amore di Dio è frutto di compiacenza divina: è Dio stesso che gratuitamente sceglie una persona piuttosto che altre per affidargli una missione specifica. Dio scelse dunque Yeshùa come suo Consacrato o Messia. In Mr 1:11 vi è una chiara allusione a Is 42:1: “Ecco il mio servo, io lo sosterrò; il mio eletto di cui mi compiaccio; io ho messo il mio spirito su di lui”. “Il mio servo” del testo ebraico di Is è tradotto nella LXX ὁ παῖς μου (o pàis mu), “il mio ragazzo”: espressione che può significare anche “mio figlio”. Mr 1:11 ha:

Σὺ εἶ ὁ υἱός μου ὁ ἀγαπητός, ἐν σοὶ εὐδόκησα

Sü èi o üiòs mu o agapetòs, en sòi eudòkesa

Tu sei il figlio di me l’amato, in te mi sono compiaciuto

   Il verbo εὐδοκέω (eudokèo) non significa solo “compiacersi”, ma anche “decidere”, “ritener bene”, “preferire”: “Preferiamo [εὐδοκοῦμεν (eudokùmen)] piuttosto essere assenti dal corpo e fare la nostra casa presso il Signore” (2Cor 5:8, TNM); “Ritenemmo bene [ηὐδοκήσαμεν (eudokèsamen)] di essere lasciati soli ad Atene”. – 1Ts 3:1, TNM.

   Com’è sorto il brano del battesimo di Yeshùa in Mr? Qualche esegeta ha sostenuto che il racconto sia sorto in due fasi: quella giudaica legata ai discepoli di Yeshùa e quella ellenistica sempre legata ai discepoli di Yeshùa. La prima versione palestinese risulterebbe dall’aprirsi del cielo, dall’apparizione dello spirito e dalla voce dal cielo, che richiamano elementi tipicamente giudaici. In questa versione sarebbe stata usata la parola παῖς (pàis), “ragazzo”, anziché “figlio”, con evidente richiamo ad Is. Nella successiva fase ellenistica, la parola pàis sarebbe stata sostituita con υἱός (üiòs), “figlio”. Lo spirito (nella fase ellenistica), al v. 10, sarebbe divenuto un dono permanente di Yeshùa, che per sempre lo avrebbe reso figlio di Dio; mentre (nella fase palestinese), al v. 12, lo spirito sarebbe stato solo una forza passeggera che sospinge Yeshùa nel deserto. Questa è l’ipotesi di F. Hahn in Christologiste Heleitstitel im Neuen Testament, Göttingen 1963, pagg. 340-346.

   Gli argomenti per questa ipotesi sono alquanto deboli. Si tratta di un’idea puramente ipotetica, mancando i manoscritti che sostengano le due fasi. Inoltre, al v. 10 non è chiaro se lo spirito sia presentato come una forza permanente.