Mt 3:13-17

   Quella mattaica è la narrazione del battesimo di Yeshùa più estesa perché presenta il dialogo in cui Giovanni non vorrebbe immergere Yeshùa riconoscendone la superiorità. Mt si accosta poi a Mr nel dire che “subito” (greco εὐθὺς, euthΰs), dopo la sua uscita dall’acqua, “i cieli si aprirono ed egli vide lo Spirito di Dio scendere” (3:16); “Appena fu battezzato” (NR); TNM è caratterizzata dalla consueta mancanza di eleganza, che qui crea – certo involontariamente – una situazione quasi umoristica: “Dopo essere stato battezzato, Gesù salì immediatamente fuori dell’acqua”, quasi stesse annegando.

   “I cieli si aprirono” (3:16): Luca lo afferma senza dire che ciò avvenne in visione come fa Marco che ha “vide aprirsi i cieli” (Mr 1:10). Lc ha di proprio la presentazione in terza persona delle parole di Dio: “Questo è il mio diletto Figlio” (3:17). Gli altri due sinottici hanno la seconda persona: “Tu sei il mio diletto Figlio” (Mr 1:11); “Tu sei il mio diletto Figlio”. – Lc 3:22.

   La discussione tra il battezzatore e Yeshùa sottolinea la superiorità di Yeshùa. Alcuni esegeti hanno visto questa cosa come un procedimento redazionale proprio di Matteo, dato che, secondo Giovanni, il battezzatore dice di Yeshùa: “Io non lo conoscevo, ma colui che mi ha mandato a battezzare in acqua, mi ha detto: ‘Colui sul quale vedrai lo Spirito scendere e fermarsi, è quello che battezza con lo Spirito Santo’” (Gv 1:33). Tali esegeti hanno argomentato: se non lo conosceva (come messia), come poteva opporsi al suo battesimo? Hanno quindi concluso che la discussione sia solo un procedimento letterario per evitare questa obiezione: Se Giovanni ha battezzato Yeshùa, è segno che gli era superiore. La prima comunità – argomentano sempre questi esegeti – doveva sentire la difficoltà che Yeshùa privo di peccati si facesse battezzare da Giovanni, e questo fatto era utilizzato dai discepoli del battezzatore per esaltare Giovanni al di sopra di Yeshùa. Così, secondo questi esegeti, Matteo mette in bocca a Giovanni la risposta che si doveva dare a quell’obiezione.

   Possiamo accettare questa spiegazione? Sì. Questa spiegazione risolve la grave difficoltà dell’incongruenza che si verrebbe a creare tra Mt e Gv se ritenessimo la discussione tra il battezzatore e Yeshùa realmente accaduta. Significa questo che saremmo disposti ad accettare un artificio letterario per salvare l’armonia della Bibbia? Le cose non stanno esattamente così. Questo è un caso classico in cui la mentalità occidentale ha enorme difficoltà a capire la Scrittura. All’argomentazione che se Giovanni ha battezzato Yeshùa significa che Giovanni è superiore, uno scrittore occidentale avrebbe opposto un ragionamento per confutare la tesi e dimostrare che ciò non è vero. Ma Matteo era ebreo, era un orientale. Gli orientali sono concreti. Al ragionamento astratto degli occidentali essi sostituiscono un dialogo concreto che dimostri meglio le cose. Matteo era ispirato, non lo si dimentichi. Egli, da ebreo, utilizza le sue categorie per dire ciò che un occidentale avrebbe detto in modo molto diverso. Non ci si deve scandalizzare. Chi si scandalizza non sa leggere la Bibbia come va letta. La legge alla sua maniera: occidentale, appunto. Per capire bene questo concetto (così sempre difficile per un occidentale) si pensi al discorso fatto da Yeshùa circa il ricco e Lazzaro:

“C’era un uomo ricco, che si vestiva di porpora e di bisso, e ogni giorno si divertiva splendidamente; e c’era un mendicante, chiamato Lazzaro, che stava alla porta di lui, pieno di ulceri, e bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; e perfino i cani venivano a leccargli le ulceri. Avvenne che il povero morì e fu portato dagli angeli nel seno di Abraamo; morì anche il ricco, e fu sepolto. E nell’Ades, essendo nei tormenti, alzò gli occhi e vide da lontano Abraamo, e Lazzaro nel suo seno; ed esclamò: ‘Padre Abraamo, abbi pietà di me, e manda Lazzaro a intingere la punta del dito nell’acqua per rinfrescarmi la lingua, perché sono tormentato in questa fiamma’. Ma Abraamo disse: ‘Figlio, ricòrdati che tu nella tua vita hai ricevuto i tuoi beni e che Lazzaro similmente ricevette i mali; ma ora qui egli è consolato, e tu sei tormentato. Oltre a tutto questo, fra noi e voi è posta una grande voragine, perché quelli che vorrebbero passare di qui a voi non possano, né di là si passi da noi’. Ed egli disse: ‘Ti prego, dunque, o padre, che tu lo mandi a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli, affinché attesti loro queste cose, e non vengano anche loro in questo luogo di tormento’. Abraamo disse: Hanno Mosè e i profeti; ascoltino quelli’. Ed egli: ‘No, padre Abraamo; ma se qualcuno dai morti va a loro, si ravvedranno’. Abraamo rispose: ‘Se non ascoltano Mosè e i profeti, non si lasceranno persuadere neppure se uno dei morti risuscita’”. – Lc 16:19-31.

   Ora, chi legge la Bibbia letteralmente (precludendosene la comprensione), vede qui la conferma di un insieme di dottrine tutte pagane ed estranee alla Bibbia: l’inferno di fuoco, il purgatorio, l’immortalità dell’anima, la vita dopo la morte. Per costoro – occidentali – il testo è chiaro: non si descrivono forse tutte quelle cose?

   Altri – ma sempre occidentali – rispondono che si tratta di una parabola e che quindi non va presa alla lettera. Al che, i primi rispondono: se pur si tratta di un’illustrazione, è stata presa dalla convinzione  religiosa ebraica, e – dato che il Messia non avrebbe mai usato invenzioni pagane per i suoi insegnamenti – i contenuti devono essere corrispondenti a verità bibliche. E, di fronte a questa risposta, i secondi non sanno più come argomentare. Chi ha ragione? Nessuno.

   Si tratta di insensate argomentazioni tutte occidentali. Si entra così in un circolo vizioso lontanissimo dalla realtà biblica. Se si vuole capire davvero come stanno le cose, occorre fare il non facile sforzo di liberarsi della propria mentalità religiosa occidentale e domandarsi: L’ebreo che ascoltava Yeshùa cosa capiva?

   Capiva forse che Abraamo viveva in una dimensione paradisiaca? Ma no. Credeva davvero che il povero Lazzaro chiedesse sul serio una goccia d’acqua? Certo che no. Cosa credeva, allora? Non credeva proprio alcunché, ma capiva il significato delle parole di Yeshùa. Era il loro modo (orientale) di parlare, di capirsi, di farsi capire. La Bibbia è piena di questi modi molto concreti di esprimersi.

   Comunque, una domanda rimane: Ma perché Yeshùa si fece battezzare? Gli esegeti hanno dato varie risposte. Vediamole e mettiamole alla prova con la Scrittura.

   F. Strass, J. Weiss e J. M. Murray sono tra quelli che vedono in Yeshùa un uomo peccatore come gli altri; secondo loro, egli si pentì e si convertì confessando pubblicamente i propri peccati. Questa è un’ipotesi blasfema che va decisamente respinta: “Egli è stato tentato come noi in ogni cosa, senza commettere peccato” (Eb 4:15); “Colui che non conobbe peccato” (2Cor 5:21, TNM); “Separato dai peccatori” (Eb 7:26, TNM); “Egli non commise peccato”. – 1Pt 2:22, TNM.

   Secondo il Bultmann, il Dibelius e il Gogull, Yeshùa sarebbe stato un discepolo di Giovanni il battezzatore. Al suo battesimo si sarebbe sottoposto proprio per divenire suo discepolo. In seguito, poi, si sarebbe messo a capo di un movimento indipendente. Senza perderci ad argomentare troppo su questa strana e fantasiosa ipotesi, rispondiamo con le parole di un altro studioso: “Non una sola parola dei nostri vangeli suggerisce che vi siano stati antichi rapporti di discepolato tra il Cristo e il Battista”. – A. Feuillet, La personnalité de Jésus entrevue à partir de sa soumission au rite de repentance au précurseur, in Revue Biblique 77 51970, pag. 36; corsivo aggiunto.

   Per i testimoni di Geova “in quell’occasione [al battesimo] Gesù fece qualcosa di più di quanto non fosse richiesto da lui sotto la Legge. Si presentò al Padre suo Geova per fare la ‘volontà’ del Padre suo […]. Per Gesù la volontà del Padre richiedeva inoltre un’attività in relazione al Regno, e Gesù si presentò anche per svolgere questo servizio. (Lu 4:43; 17:20, 21) Geova accettò questa presentazione di suo Figlio e ne diede conferma ungendolo con spirito santo” (Perspicacia nelle Studio delle Scritture, volume 1, pagina 298, voce “Battesimo”, sottotitolo “Il battesimo in acqua di Gesù”; il corsivo è  aggiunto). Per i predicatori di casa in casa si tratta quindi di un battesimo di presentazione. Sarebbe l’unico caso nella Bibbia di questo tipo di battesimo.

   Cosa dice la Scrittura? Perché Yeshùa si fece immergere? Matteo stesso afferma il motivo per cui Yeshùa si fece battezzare: “Sia così ora, poiché conviene che noi adempiamo in questo modo ogni giustizia” (3:15). Che valore dare al vocabolo “giustizia”? Vediamo il testo originale:

πληρῶσαι πᾶσαν δικαιοσύνην

pleròsai pàsan dikaiosΰne

compiere ogni giustizia

   Alcuni intendono “giustizia” in senso di “uso”: Yeshùa starebbe dicendo che conviene seguire gli usi, pur non essendo lui un peccatore. Dato che il battesimo di Giovanni era un comando divino per tutto il popolo, secondo certi esegeti Yeshùa si attenne a ciò che la gente doveva fare. Con questa interpretazione il peso teologico della parola “giustizia” (greco δικαιοσύνη, dikaiosΰne) verrebbe affievolito e reso equivalente a “precetto” (greco δικαίωμα, dikàioma). Il battesimo sarebbe così ridotto ad un gesto puramente formale, compiuto solo perché era comandato. Il contesto del dialogo, però, sembra conferirgli un valore sostanziale: “Ma questi vi si opponeva dicendo: ‘Sono io che ho bisogno di essere battezzato da te, e tu vieni da me?’” (3:14). Il battezzatore non prende affatto alla leggera quel battesimo, vi si oppone addirittura: cosa che non lo fa ritenere per nulla un semplice precetto. No, la dikaiosΰne (“giustizia”) non è dikàioma (precetto).

   La “giustizia” non è semplicemente “ciò che è giusto” (TNM per Mt 3:15). La giustizia è per la Bibbia ubbidire a Dio, obbedire alla sua Legge, ai suoi comandamenti.

   Yeshùa si fece battezzare per compiere la volontà di Dio, che era l’unica “giustizia” valida per l’ebreo. Secondo l’uso del tempo, chi si battezzava si rivestiva di una responsabilità di fronte al pubblico, s’impegnava ad osservare in modo scrupoloso la Legge, ad essere di esempio agli altri. Il battezzato era conseguentemente considerato una persona nuova, che nell’acqua aveva deposto ogni legame con la vita precedente. I rabbini, parlando del pagano o gentile che si faceva battezzare per divenire giudeo, dicevano che perfino i vincoli familiari potevano venire considerati sciolti.

   Il battesimo di Giovanni era un atto messianico con cui la persona si dichiarava pubblicamente pronta a seguire gli indirizzi che il Messia (il Cristo, il Consacrato) gli avrebbe dato. Se questo valeva per ogni credente, ancor più valeva per lo stesso Messia, inviato – appunto – per compiere la volontà di Dio.

   Perciò, con il suo battesimo, Yeshùa sottolineava il fatto di volere iniziare pubblicamente la missione che Dio gli aveva affidata. Dato che questa missione doveva culminare con la sua morte per ubbidienza, il battesimo di Yeshùa tendeva già ad essa. Yeshùa stesso si riferisce a questo battesimo nella morte: “Vi è un battesimo del quale devo essere battezzato” (Lc 12:50). Chi si battezzava e chi si battezza è come se lasciasse i propri peccati nell’acqua; Pietro parla del “battesimo, che non è eliminazione di sporcizia dal corpo, ma la richiesta di una buona coscienza verso Dio” (1Pt 3:21). Yeshùa non aveva peccati, ma immergendosi nell’acqua (dove erano lasciati simbolicamente i peccati) si immerse nei peccati altrui:

 

“Colui che non ha conosciuto peccato, egli [Dio] lo ha fatto diventare peccato per noi, affinché noi diventassimo giustizia di Dio in lui”. – 2Cor 5:21.

 

   Come un pagano si aggregava con il battesimo al popolo amato da Dio, così Yeshùa con il suo battesimo si aggregò al popolo peccatore, all’umanità peccatrice. Divenne uno di noi, per salvarci, per portarci a Dio “affinché noi diventassimo giustizia di Dio in lui”. – 2Cor 5:21.

  Le parole di Dio sono espresse in modo da designare l’intronizzazione di Yeshùa nella sua opera messianica. Esse, infatti, si rifanno al Sl 2:7 e ad Is 42:1.

 

Mt 3:17

Sl 2:7

Is 42:1

“Questo è il mio diletto Figlio, nel quale mi sono compiaciuto”.

“Tu sei mio figlio,

oggi io t’ho generato”.

“Ecco il mio servo, io lo sosterrò;

il mio eletto di cui mi compiaccio;

Lo spirito scende su di lui come una colomba (v. 16)

io ho messo il mio spirito su di lui”.

 

   La continuazione del brano isaiano (42:1-4) mostra ancora di più la missione di Yeshùa: “Egli manifesterà la giustizia alle nazioni […] manifesterà la giustizia secondo verità. Egli non verrà meno e non si abbatterà finché abbia stabilito la giustizia sulla terra; e le isole aspetteranno fiduciose la sua legge”. Ciò significa che il messia indicherà con autorità quello che deve essere fatto e quello che deve essere evitato. Egli deve quindi dare inizio a un’era di nuove relazioni più sincere tra uomo e Dio, più conformi alla volontà divina. Il tutto sarà da lui attuato senza violentare le coscienze: “Non griderà, non alzerà la voce” (v. 2). Tutto questo avverrà senza estinguere “il lucignolo fumante” (v. 3) degli israeliti.

 

 

Alcune osservazioni sul genere letterario del passo mattaico

   Il fatto che Yeshùa sia battezzato da Giovanni (quasi fosse a lui inferiore) dà al racconto il valore di storia; se, infatti, fosse stato inventato in seguito dalla chiesa dei discepoli, non lo si sarebbe raccontato così. Molti critici cercano di mettere il racconto nel campo della leggenda, affermando che lo scopo fu quello di retrodatare la messianicità di Yeshùa con la consacrazione ad opera dello spirito santo. Queste critiche non hanno fondamento. Va riconosciuto, infatti, che il battesimo di Yeshùa passa in secondo ordine di fronte alla teofania successiva. Il racconto biblico non tende al battesimo (su cui poco insiste), ma alla teofania che serve da “unzione” (consacrazione) per Yeshùa: “Voi sapete quello che è avvenuto in tutta la Giudea, incominciando dalla Galilea, dopo il battesimo predicato da Giovanni; vale a dire, la storia di Gesù di Nazaret; come Dio lo ha unto di Spirito Santo e di potenza” (At 10:37,38). Yeshùa applica a se stesso nella sinagoga di Nazaret la profezia isaiana: “Lo spirito del Signore, di Dio, è su di me, perché il Signore mi ha unto per recare una buona notizia agli umili” (Is 61:1). “Gli fu dato il libro del profeta Isaia. Aperto il libro, trovò quel passo dov’era scritto: ‘Lo Spirito del Signore è sopra di me; perciò mi ha unto per evangelizzare i poveri; mi ha mandato ad annunziare la liberazione ai prigionieri, e ai ciechi il ricupero della vista; a rimettere in libertà gli oppressi, e a proclamare l’anno accettevole del Signore’. Poi, chiuso il libro e resolo all’inserviente, si mise a sedere; e gli occhi di tutti nella sinagoga erano fissi su di lui. Egli prese a dir loro: ‘Oggi, si è adempiuta questa Scrittura, che voi udite’” (Lc 4:17-21). Il vangelo di Gv insiste sul fatto che lo spirito santo scese e riposò su di lui dopo il battesimo: “Ho visto lo Spirito scendere dal cielo come una colomba e fermarsi su di lui. Io non lo conoscevo, ma colui che mi ha mandato a battezzare in acqua, mi ha detto: “Colui sul quale vedrai lo Spirito scendere e fermarsi, è quello”. – 1:32,33.

   Un altro elemento che va notato è che la teofania inaugurale al battesimo di Yeshùa è un fatto che precedeva e inaugurava l’attività dei profeti; precedendo la loro missione li abilitava al ministero profetico. Si ricordi Ezechiele presso il canale di Kebar: “Mentre mi trovavo presso il fiume Chebar, fra i deportati, i cieli si aprirono, e io ebbi delle visioni divine”, “Mi disse: ‘Figlio d’uomo, àlzati in piedi, io ti parlerò’. Mentre egli mi parlava, lo Spirito entrò in me e mi fece alzare in piedi; io udii colui che mi parlava. Egli mi disse: ‘Figlio d’uomo, io ti mando ai figli d’Israele’” (Ez 1:1;2:1-3). Si ricordi Isaia (Is 6). Si ricordi Geremia (Ger 1). L’intervento divino iniziava con l’apertura dei cieli e la voce divina, provocando la conoscenza della propria vocazione congiunta a un senso di sgomento: “Fece un sogno: una scala poggiava sulla terra, mentre la sua cima toccava il cielo; e gli angeli di Dio salivano e scendevano per la scala. Il Signore stava al di sopra di essa e gli disse: ‘Io sono il Signore’ […] Ebbe paura e disse: ‘Com’è tremendo questo luogo! Questa non è altro che la casa di Dio, e questa è la porta del cielo!’” (Gn 28:12,13,17); “Oh, squarciassi tu i cieli, e scendessi! Davanti a te sarebbero scossi i monti”. – Is 64:1.

   A differenza dei precedenti casi che riguardavano gli altri profeti ebrei, la teofania non produce in Yeshùa nessuno sgomento, nessun terrore, nessuna sorpresa. La missione poi è diversa da quella dei profeti antichi; egli è il “servo di Yhvh” e già conosce la missione profetizzata e si prepara a svolgerla. Di solito, Dio diceva al profeta antico: ‘Va’!. Così dirai …’. Nel caso di Yeshùa, nulla di tutto ciò. In fatto che lo schema letterario sia diverso dalle chiamate profetiche, è un elemento che – ancora una volta – denota la storicità dell’evento. Nel caso di Yeshùa, più che un invito profetico è una proclamazione solenne delle particolari relazioni intime tra Dio e Yeshùa, tra il Padre e il “figlio” che è presentato come “l’amato”. Anche se certe espressioni sono simili alle visioni profetiche inaugurali, qui abbiamo qualcosa di più. Alla predicazione del battezzatore Yeshùa capisce meglio che il tempo della sua missione è ormai giunto, e con il suo battesimo si obbliga pubblicamente a svolgere la missione che lui accetta volontariamente, anche se sa che sarà per lui molto dolorosa.

   Specialmente in ambito cattolico si trova difficoltà ad accogliere una progressione di coscienza da parte di Yeshùa circa la sua opera messianica. Specialmente i cattolici sono fautori di una cognizione completa da parte sua sin dalla nascita. Già Agostino sosteneva questa idea: “Egli fu unto con tale mistica ed invisibile unzione quando ‘il Verbo di Dio si fece carne’ (Gv 1:14), quando, cioè, la natura umana fu unita al Verbo di Dio nel seno della Vergine” (De Trinit. 1. XV, cap. 26, n. 46, PL 42,1093). La stessa idea (contraria a qualsiasi miglioramento interiore soprannaturale) si trova presso Giovanni Crisostomo (Matth. Homil. XII, 2) e presso Giovanni Damasceno (De Fide Orth. 1, III, cap. 3, PG 94,1088). Tommaso si allinea perfettamente: “Egli fu pieno di grazia e di verità fin dall’istante della concezione”. – Matth. Evang. cap. III.

   Prima di vedere la posizione biblica al riguardo, esaminiamo la posizione dei Testimoni di Geova. Costoro si avvicinano alla posizione biblica: “Lo spirito di Dio versato su Gesù senza dubbio illuminò la sua mente su molti punti” (Perspicacia nello studio delle Scritture vol. 1, pag. 1068, voce “Gesù Cristo”, sottotitolo “Il battesimo”). Ma poi ci mettono del loro: “Alcune frasi che pronunciò in seguito, specie l’intima preghiera rivolta al Padre la sera di Pasqua del 33 E.V., indicano che Gesù ricordava la sua esistenza preumana, le cose che aveva udito dal Padre e le cose che aveva visto fare dal Padre, come pure la gloria che egli stesso aveva avuto nei cieli” (Ibidem). Sebbene questa dichiarazione sia fatta con certezza, essa viene poi velata di incertezza circa il momento di questi presunti ricordi preumani: “Può anche darsi che queste cose gli siano tornate alla mente al momento del battesimo e dell’unzione” (Ibidem). Tuttavia, vengono portate a dimostrazione delle citazioni bibliche che vogliamo verificare, usando la loro versione della Bibbia (TNM). Eccole:

   Gv 6:46: “Non che alcun uomo abbia visto il Padre, eccetto colui che è da Dio; questi ha visto il Padre”. La lettura del versetto, preso così, fuori contesto, dovrebbe significare per i Testimoni di Geova: 1. Yeshùa fa eccezione, essendo “da Dio”, 2. Egli “ha visto il Padre”, e deve averlo visto in un’esistenza preumana. Esaminiamo. L’espressione usata da Giovanni è παρὰ [τοῦ] θεοῦ (parà [tu] theù), letteralmente “da[l] Dio”. Si tratta di un’espressione biblica che indica l’approvazione di Dio. Basti vedere l’uso che ne fa lo stesso Giovanni altrove nel suo stesso Vangelo. In 1:6, TNM – chissà perché – ha: “Sorse un uomo, mandato come rappresentante di Dio: il suo nome era Giovanni”; quel “come rappresentante” non compare affatto nel testo greco che ha: “Ci fu un uomo mandato da Dio [παρὰ θεοῦ (parà theù)]”. L’espressione è riferita al battezzatore, eppure anche questi era “da Dio” esattamente come Yeshùa. In quanto al ‘vedere il Padre’, di chi stava parlando Yeshùa? Non di se stesso. Nel contesto Yeshùa sta parlando del credente fedele che obbedisce a Dio: “Chiunque ha udito gli insegnamenti del Padre e ha imparato viene a me” (v. 45); tale credente che accetta Yeshùa lo può fare solo se Dio glielo concede (v. 44); il credente, che Dio chiama e che accetta Yeshùa, può “vedere” Dio. “Chi vede me vede [anche] colui che mi ha mandato” (Gv 12:45). Non si tratta di un vedere fisico: “Non che alcun uomo abbia visto il Padre” (Gv 6:46), ma di un vedere spirituale: “Felici i puri di cuore, poiché vedranno Dio”. – Mt 5:8.

   Gv 7:28,29: “Mentre insegnava nel tempio, Gesù gridò, dicendo: ‘Voi mi conoscete e sapete di dove sono. E io non sono venuto di mia propria iniziativa, ma colui che mi ha mandato è reale, e voi non lo conoscete. Io lo conosco, perché sono un suo rappresentante, ed Egli mi ha mandato”. Qui pare che i Testimoni di Geova leggano quell’“io lo conosco” (riferito da Yeshùa a Dio) come se Yeshùa avesse già conosciuto Dio in una sua esistenza preumana. In verità, il passo mette il rilievo la grande differenza tra Yeshùa e Dio. Yeshùa dice ai gerosolimitani: “Voi mi conoscete e sapete di dove sono”. Loro stessi avevano appena detto: “Sappiamo di dov’è quest’uomo” (v. 27). In questo contesto, Yeshùa fa loro questo ragionamento: Voi conoscete me, sapete chi sono; ma non conoscete Dio. Si noti che Yeshùa non contesta il fatto che i gerosolimitani lo conoscano, anzi lo conferma. Non dice loro qualcosa del tipo: Non sapete chi sono, non sapete da dove vengo, io vengo direttamente dal cielo. No. Yeshùa dice: “Voi mi conoscete e sapete di dove sono”. Per contrasto, dice poi che non conoscono Dio. Cosa significa? Il “conoscere” biblico non ha lo stesso senso che ha il conoscere occidentale. Non si tratta di conoscenza intellettuale. La conoscenza biblica è il fare esperienza diretta, l’essere in intimità. Yeshùa conosce Dio perché è in intimità con lui. Si noti (v. 29) la motivazione che Yeshùa stesso dà per questo tipo di conoscenza che egli ha di Dio: “Io lo conosco, perché”… Perché? Non certo per il motivo inserito arbitrariamente nella TNM: …”sono un suo rappresentante”. Il testo dice:

ἐγὼ οἶδα αὐτόν, ὅτι παρ’ αὐτοῦ εἰμὶ

egò òida autòn, òti par’autù eimi

io conosco lui, perché da lui sono

 

   Si tratta ancora di quel παρὰ θεοῦ (parà theù), “da Dio”, che qui ha “lui” anziché “Dio”. Ovvero: ‘Io lo conosco perché sono da Dio’; in senso biblico: sono approvato da Dio. Quegli ebrei non conoscevano (in senso biblico) Dio perché non erano “da Dio”, non erano approvati da lui: “Voi siete dal padre vostro il Diavolo” (Gv 8:44). Nessuna conoscenza preumana, quindi, ma la conoscenza dovuta alla profonda ed intima relazione che Yeshùa aveva con Dio a cui ubbidiva.

   Gv 8:26,28: “Ho molte cose da dire e da giudicare riguardo a voi. Difatti, colui che mi ha mandato è verace, e le cose che ho udito da lui le dico nel mondo”. Se qui i Testimoni di Geova pensano di argomentare che, siccome Yeshùa parla di “cose che ho udito da lui”, deve trattarsi di cose che egli udì da Dio nel reame celeste durante la sua presunta vita preumana, si sbagliano di molto. Le parole bibliche non vanno mai tolte dal contesto. Yeshùa stava parlando ai giudei, e quando disse quelle parole “essi non compresero che parlava loro del Padre” (v. 27). “Perciò Gesù disse: […] ‘Dico queste cose come il Padre mi ha insegnato’” (v. 28). Dove aveva imparato Yeshùa le cose insegnategli dal Padre? Dove le aveva udite? In cielo, prima di nascere? No. Si noti il parallelo:

 

Yeshùa

Giudei

Gv

8:26

“Le cose che ho udito da lui

le dico”.

 

Gv 8:38

“Voi, perciò, fate le cose che avete

udito dal padre [vostro]”.

 

   Esattamente come Yeshùa aveva “udito” da Dio, così i giudei avevano “udito” dal diavolo. Né gli uni né l’altro avevano “udito” in una precedente vita extraterrestre. La Bibbia non va letta letteralmente, ma capita nel suo linguaggio orientale.

   Gv 8:38: “Le cose che ho visto presso il Padre mio, le dico”. È la stessa cosa del precedente. Yeshùa si oppone ai giudei e afferma che lui dice le cose che ha visto presso Dio, mentre loro dicono le cose che hanno udito dal diavolo. La frase completa è: “Le cose che ho visto presso il Padre mio, le dico; e voi, perciò, fate le cose che avete udito dal padre [vostro]”. Quel “presso il Padre mio” è nel testo greco παρὰ τοῦ πατρὸς (parà tu patròs), “vicino al Padre”, e sta ad indicare la relazione intima che egli ha con Dio. Fa parte di quella “conoscenza” in senso biblico che implica una relazione profonda. Il credente che vive come alla presenza di Dio, quasi in costante preghiera, con la mente e il cuore rivolti a lui, conosce questa “vita [che] è nascosta con Cristo in Dio”. – Col 3:3.

   Gv 14:2: “Nella casa del Padre mio ci sono molte dimore. Altrimenti, ve l’avrei detto, perché vado a prepararvi un luogo”. Qui nulla si dice riguardo al nostro tema. Il discorso che Yeshùa fa riguarda il futuro. Riguarda “l’eredità incorruttibile e incontaminata e durevole. Essa è riservata nei cieli per voi”. – 1Pt 1:4.

   Gv  17:5: “E ora, Padre, glorificami presso te stesso con la gloria che avevo presso di te prima che il mondo fosse”. Questa scrittura è già stata trattata altrove, comunque la spieghiamo di nuovo. Gli orientali non usano le astrazioni come fanno gli occidentali: sono concreti. Tradotta, per così dire, in occidentale, significa: ‘E ora, Padre, glorificami presso di te con la gloria che tu avevi in mente per me prima che il mondo fosse’. Per un ebreo non aveva alcun senso dire che Dio aveva in mente una certa cosa: era piuttosto quella certa cosa a trovarsi presso Dio. La traduzione – riferita a Gn 11:6 – “Non c’è nulla che abbiano in mente di fare che sia per loro irraggiungibile” può andar bene in italiano (mentalità occidentale), l’ebraico ha: “E adesso non sarà impossibile a loro tutto ciò che progetteranno di fare”. Così, in Lam 2:17, la traduzione “Geova ha fatto ciò che aveva in mente” è una libera traduzione; l’ebraico ha “Fece Yhvh ciò che escogitò”.

   Ritorniamo ora alla questione della consapevolezza di Yeshùa. Egli sapeva tutto sin da piccolo? Oppure, acquisì progressivamente la conoscenza della sua missione?

   La Bibbia parla di un progresso di Yeshùa: “Gesù cresceva in sapienza, in statura e in grazia davanti a Dio e agli uomini” (Lc 2:52). Egli non volle essere chiamato buono, perché “nessuno è buono, tranne uno solo, cioè Dio” (Mr 10:18). Non si può sostenere che l’idea che Yeshùa si era fatta della sua missione subisse un radicale cambiamento al suo battesimo, ma si può dire che alla predicazione del battezzatore egli comprese meglio la missione di “servo di Yhvh” che doveva svolgere. Fu per questo che Yeshùa si fece battezzare e andò poi nel deserto per rinfrancarsi meglio con la preghiera e con la meditazione al compimento della sua opera redentrice.

   Dai testi biblici non sappiamo se la teofania fu vista da tutti i presenti, ma sulla base della testimonianza del battezzatore si può esser certi che almeno lui ha partecipato alla visione: “Ho visto lo Spirito scendere dal cielo come una colomba e fermarsi su di lui”. – Gv 1:31.