Il centro del più breve Vangelo scritto non sta tanto nell’insegnamento quanto piuttosto nella persona di Yeshùa: egli è il misterioso e umile “figlio dell’uomo” in cui la fede scopre a poco a poco la potenza salvatrice del “figlio di Dio”. In Mr il contenuto dell’insegnamento di Yeshùa non è riferito oppure è solo brevemente riassunto. Non è dunque il contenuto dell’insegnamento che distingue Yeshùa dagli altri. In fondo egli si attiene scrupolosamente alla Toràh (che significa “insegnamento” e non legge). Yeshùa non insegna qualcosa di molto diverso. La novità non sta nel cosa, ma nel come. Yeshùa insegna con una tale autorità che qualcosa succede: le persone cambiano, gli infermi sono sanati, i morti resuscitano. In conclusione, nell’insegnamento di Yeshùa è Dio che parla di nuovo agli uomini in modo tale che molti che ne erano separati sono ammessi di nuovo nella comunione con lui.

   Il popolo di Cafarnao avverte la sensazione dell’autorità di Yeshùa attraverso la semplice lettura che egli fa di un brano della Scrittura: “Si stupivano del suo insegnamento, perché egli insegnava loro come uno che ha autorità e non come gli scribi (Mr 1:22). Chi aveva fede s’accorgeva dunque che in Yeshùa vi era la presenza di Dio. In Mt lo stupore della folla è posto nel finale del discorso della montagna che viene documentato dal contenuto dell’insegnamento di Yeshùa; Mt occupa ben tre capitoli (5, 6 e 7) per narrare il contenuto dei discorso della montagna, e solo due piccoli versetti finali per dire che “Quando Gesù ebbe finito questi discorsi, la folla si stupiva del suo insegnamento, perché egli insegnava loro come uno che ha autorità e non come i loro scribi” (Mt 7:28,29). Marco invece vuole sottolineare l’importanza della fede nel fatto che essa ci fa capire e accogliere Yeshùa. Opposta a questa fede vi è l’incomprensione che non capisce neppure le parabole o illustrazioni: “Con molte parabole di questo genere esponeva loro la parola, secondo quello che potevano intendere” (Mr 4:33). Le illustrazioni o parabole o immagini non erano solo un sussidio pedagogico: esse hanno bisogno dell’aiuto di Yeshùa per essere capite. Chi non era interessato lasciava perdere. Ma l’interesse che era smosso in coloro che avevano fede li spingeva a ricercare l’incontro privato con Yeshùa per capire il linguaggio di Dio che egli usava: “Ma in privato ai suoi discepoli spiegava ogni cosa”. – V. 34.

   I miracoli suscitavano impressione sulla persona di Yeshùa, confermavano che egli era davvero approvato da Dio, suscitavano meraviglia, creavano stupore e talvolta anche spavento. I miracoli narrati da Marco non presentano ancora l’aspetto simbolico che si riscontrerà in Giovanni (cfr. la guarigione del cieco nato in Gv 9 e l’applicazione simbolica: “quelli che non vedono vedano, e quelli che vedono diventino ciechi” del v. 39). Per Marco nulla è più stupefacente dell’esistenza stessa di Yeshùa: C’è Yeshùa!, è questo che egli dice in tutto il suo scritto. Si può definire questa fede come esperienza diretta dell’incontro con lo Yeshùa vivente. Accadde agli apostoli, accadde ai discepoli, accadde a Paolo. Accade oggi.

   Il “vangelo” o “buona notizia”, per Marco si identifica con Yeshùa (la parola “vangelo” ricorre 8 volte in Mr, 4 in Mt e mai in Lc):

 

“Chi perderà la sua vita per amor mio e del vangelo, la salverà”. – Mr 8:35.

 

“Non vi è nessuno che abbia lasciato casa, o fratelli, o sorelle, o madre, o padre, o figli, o campi, per amor mio e per amor del vangelo, il quale ora, in questo tempo, non ne riceva cento volte tanto”. – Mr 10:29,30.

 

     In Mr l’esaltazione di Yeshùa tende a far passare in secondo piano le altre persone. Marco non esalta per nulla l’importanza di Pietro che pur nomina diverse volte, né quella dei figli di Zebedeo (Giacomo e Giovanni). Marco non ha interesse per Giacomo, fratello di Yeshùa, e riporta le parole di Yeshùa: “Nessun profeta è disprezzato se non nella sua patria, fra i suoi parenti e in casa sua” (Mr 6:4); e riferisce che i suoi fratelli, madre compresa, andarono per portar via Yeshùa “perché dicevano: ‘È fuori di sé’” (Mr 3:21); riferisce tutto ciò più duramente che non Matteo e Luca. Pur ricordando i Dodici una decina di volte, Marco non attribuisce loro un posto privilegiato, anzi parla della loro vocazione ricordando le parole di Yeshùa: “Chiunque vorrà essere grande fra voi, sarà vostro servitore; e chiunque, tra di voi, vorrà essere primo sarà servo di tutti” (Mr 10:43,44); non si tratta di biasimo, ma della condanna del desiderio umano di crearsi dei maestri terreni a scapito di Yeshùa (Paolo dirà lo stesso nella sua prima lettera ai corinti). Marco sottolinea, riguardo agli apostoli, che Yeshùa “ne costituì dodici per tenerli con sé e per mandarli a predicare” (Mr 3:14,15). L’inciso “ai quali diede anche il nome di ‘apostoli’” che la TNM inserisce al v. 14 è quasi certamente una interpolazione; Diodati e altre versioni non la riportano. Il termine “apostoli” si trova in Mr solo in 6:30 quando i Dodici tornano dalla missione compiuta, ed ha l’evidente senso di “inviati”: quelli inviati in missione che ritornano. Marco preferisce il verbo ἀποστέλλω (apostèllo, “inviare”) che indica l’idea di missione escludendone il rango. Per Marco la comunità è diretta dalla costante presenza di Yeshùa vivente tra i suoi discepoli.

   Marco allude anche al fatto che pure i gentili o stranieri sono chiamati alla salvezza. Nel racconto dell’incontro di Yeshùa con la donna sirofenicia, Marco non fa dire a Yeshùa (come Matteo): “Io non sono stato mandato che alle pecore perdute della casa d’Israele” (Mt 15:24), ma: “Lascia che prima siano saziati i figli” (Mr 7:27), poi logicamente verranno gli altri. Così, il Tempio dev’essere la “casa di preghiera per tutte le genti” (Mr 11:17). Anche il rilievo con cui il centurione proclama Yeshùa come “figlio di Dio” (Mr 15:39) mostra come i gentili possano aprire gli occhi alla verità prima degli stessi ebrei. In Mr non vi sono esclusivismi né nazionali né regionali né sociali. Tutti sono ammessi: frequentatori di sinagoghe, pubblicani, miserabili, lebbrosi, prostitute, pagani.

   Il centro del Vangelo scritto di Marco – dato dalla confessione di Pietro a Cesarea che Yeshùa è il consacrato di Dio (Mr 8:27-29) – mette in risalto la diversità di dottrina insegnata nella prima parte e nella seconda. Nella prima s’insiste sulla necessità di comprendere il Regno, per cui si usano vocaboli come “comprendere” (4:12;6:52;7:14;8:17-21), “incapace di comprendere” (7:18), “capire” (7:18;8:17), “vedere” nel senso di capire (3:5;6:53;8:17), “ascoltare” nel senso di ubbidire (cap. 4, passim), “conoscere” (4:13), “nascondere” e “rivelare” (4:22). Occorre comprendere le parabole e capire il significato dei miracoli, in modo da afferrare il valore della “buona notizia” e del regno di Dio. Ma, nonostante le speciali spiegazioni ricevute, neppure i discepoli comprendono la parabola del seminatore (4:13), non capiscono come Yeshùa possa acquietare una tempesta (4:40) o camminare sul lago (6:49-51), non capiscono come mai possa con pochi pani saziare le folle affamate (6:51;8:14-21), non capiscono perché Yeshùa debba morire (8:32), anzi non afferrano neppure cosa significasse quel “resuscitare dai morti” che Yeshùa aveva detto di sé.

   Dopo la confessione di Cesarea il tono cambia: non basta più comprendere, occorre l’impegno esistenziale di se stessi. Solo chi perde la propria vita la salverà (8:35), è necessario lasciare casa e parenti stetti e campi per il vangelo e la vita eterna (10:29, sgg.), piedi e mani vanno sacrificati per il Regno (9:34-47), non basta conoscere ma occorre “entrare” nel Regno (9:47;10:15,23). Dalla fase di conoscenza (va ricordato che la conoscenza biblica non è la conoscenza intellettuale occidentale, ma la conoscenza sperimentale) si deve passare ad una vita in comunione con Yeshùa.

   Il Vangelo di Marco, nonostante l’aspetto a prima vista storico, contiene una teologia molto profonda. Essa va scoperta. Va scoperta tra le righe della sua lieta notizia.