Fariseo e figlio di farisei (At 23:6), pur non potendo sfuggire del tutto a qualche influsso della nativa Tarso pagana, di fatto Paolo ebbe un’istruzione schiettamente rabbinica.

   Istruzione rabbinica. Come ogni fanciullo ebreo, a circa sei anni dovette iniziare a frequentare la scuola, che usualmente era annessa alla sinagoga. Dovette apprendere a memoria i primi rudimenti della Legge (Toràh). Imparò quindi a leggere e a scrivere con la Bibbia. Poi fu inviato a Gerusalemme (presumibilmente all’età di 15 anni, perché era quella l’età usuale) per completare i suoi studi.

   A Gerusalemme divenne discepolo di Gamaliele: “Educato ai piedi di Gamaliele nella rigida osservanza della legge dei padri” (At 22:3). Gamaliele fu un rabbino onorato e stimato da tutti. A sua volta, Gamaliele era stato istruito da Hillel, del quale seguiva i nobili principi ricchi di luminosa apertura mentale: “Un fariseo, di nome Gamaliele, dottore della legge, onorato da tutto il popolo” (At 5:34). La Mishnà così lo elogia: “Da quando è morto rabbàn Gamaliele l’antico, non v’è più venerazione per la Legge; e insieme morirono purezza e astinenza”. Di tale formazione Paolo parlerà con compiacenza anche di fronte alla folla inferocita di Gerusalemme: “Io sono un giudeo, nato a Tarso di Cilicia, ma allevato in questa città, educato ai piedi di Gamaliele nella rigida osservanza della legge dei padri; sono stato zelante per la causa di Dio”. – At 22:3.

   Shaùl, Saulo, seguì fedelmente l’“osservanza della legge dei padri”, vale a dire gli insegnamenti dei vari rabbini che lo avevano preceduto e che erano ritenuti gli interpreti più autorizzati delle Scritture. Egli mandò così a memoria – come si faceva – i detti rabbinici, sapendo che il buon discepolo deve ritenere l’insegnamento come una cisterna da cui non sfugga nulla.

   Paolo usò talvolta delle allegorie rabbiniche che gli erano molto familiari: “I nostri padri furono tutti sotto la nuvola, passarono tutti attraverso il mare, furono tutti battezzati nella nuvola e nel mare, per essere di Mosè; mangiarono tutti lo stesso cibo spirituale” (1Cor 10:1-3), “Sta scritto che Abraamo ebbe due figli: uno dalla schiava e uno dalla donna libera; ma quello della schiava nacque secondo la carne, mentre quello della libera nacque in virtù della promessa. Queste cose hanno un senso allegorico […]” (Gal 4:21-31). Pur richiamandosi di continuo alle Scritture, Paolo seppe evitare le esagerazioni allegoriche e le ricercate interpretazioni bibliche proprie dei rabbini. Pur accogliendo la generale attitudine dei farisei verso la Legge – intesa come volontà assoluta di Dio -, di fatto si mostrò contrario al rigido legalismo farisaico. Circa l’esistenza degli spiriti e la realtà della resurrezione seguì ovviamente le idee rabbiniche anziché le negazioni che ne facevano i sadducei: “Paolo, sapendo che una parte dell’assemblea era composta di sadducei e l’altra di farisei, esclamò nel Sinedrio: Fratelli, io son fariseo”. – At 23:6.

   Paolo parlava l’aramaico, che al tempo era parlato in Palestina. In aramaico erano state scritte anche alcune parafrasi della Bibbia (i Targumìm). Prima di essere arrestato, l’apostolo si mise ad arringare la folla in aramaico: “Paolo, stando in piedi sulla gradinata, fece cenno con la mano al popolo e, fattosi un gran silenzio, parlò loro in ebraico” (At 21:40), “Quand’ebbero udito che egli parlava loro in lingua ebraica […]” (At 22:2). Attenzione: la traduzione può ingannare. Il testo greco ha τῇ Ἐβραΐδι διαλέκτῳ  (te ebràidi dialèkto) in tutti e due i passi, e anche in At 26:14 in cui Paolo ricorda che Yeshùa gli parlò “in lingua ebraica”. Sarebbe più corretto tradurre “dialetto” invece di “lingua”. Si tratta infatti di “dialetto ebraico” ovvero di aramaico. In greco “lingua” non si dice diàlektos (che è sì, “lingua”, ma intesa come dialetto), ma si dice γλῶσσα (glòssa). Infatti, in At 2:4, dove viene detto che “tutti furono riempiti di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue”, il testo greco ha γλώσσαις (glòssais) per “lingue”. Queste lingue potevano includere anche i dialetti, tanto che le persone stupite dicono: “Come mai li udiamo parlare ciascuno nella nostra propria lingua natìa?” (2:8), che sarebbe più corretto tradurre: “Nel nostro dialetto natìo”, dato che qui il greco usa διαλέκτῳ (dialèkto).

   Il linguaggio popolare al tempo di Paolo era l’aramaico, e non l’ebraico. Se si fosse trattato di ebraico, At avrebbe detto τῇ Ἐβραΐδι γλώσσῃ (te ebràidi glòsse), “in lingua ebraica”; e non τῇ Ἐβραΐδι διαλέκτῳ (te ebràidi dialèkto), “il dialetto ebraico”. Le traduzioni, non distinguendo tra diàlektos e glòssa creano confusione.

L’istruzione greca di Paolo

   A Tarso Paolo dovette apprendere il greco sia tramite l’uso della Bibbia greca dei LXX letta in quelle sinagoghe, sia nelle conversazioni stoiche dei filosofi locali. Infatti, Paolo maneggia il greco con sicurezza, anche se gli manca il tempo di ricercarne l’eleganza e la finezza. Paolo sa maneggiare il greco popolare come farebbe un grande scrittore, tanto che Demostene stesso – pur avendo la lingua più pura dei classici – non ha pagine più commoventi e incalzanti del fabbricante di tende che era Paolo.

   A Tarso Paolo poté sperimentare l’aspirazione del mondo greco verso la redenzione dell’anima dal corpo tramite le religioni misteriche che propugnavano l’ascetismo per vivere alla presenza della divinità. Propagandisti iranici e anatolici passavano in Cilicia, da Tarso, per raggiungere la Ionia. Da questo nasce certamente l’enfasi paolina nella liberazione dalle forze del male e la sua brama verso la futura èra di pace con la diretta conoscenza di Dio. Questo soggetto affascinava gli animi dell’ambiente pagano. Paolo, ovviamente, non accoglie la dottrina dell’anima sparata dal corpo e le altre credenze pagane.

   Paolo aveva conoscenza delle opere letterarie greche? Pare di no. Alcuni studiosi lo sostengono, però. Le loro argomentazioni sono discutibili.

   Paolo in Tito 1:12 scrive: “Uno dei loro [un cretese], proprio un loro profeta, disse: ‘I Cretesi sono sempre bugiardi, male bestie, ventri pigri’”. Il che è tratto da Epimenide (circa 600 a. E. V.), che Platone chiamava “uomo divino”. Ad Epimenide i cretesi offrivano sacrifici quasi fosse un dio; i greci lo chiamavano “profeta”. Il detto citato da Paolo è un esametro noto nell’antichità e riferito anche da Callimaco nel suo Inno a Zeus. C’è chi pensa (R. Harris) che dallo stesso Epimenide provenga anche l’espressione di Paolo: “In lui viviamo, ci moviamo, e siamo, come anche alcuni vostri poeti hanno detto: ‘Poiché siamo anche sua discendenza’” (At 17:28), tuttavia altri studiosi – forse meglio – lo attribuiscono ad Aratò (3° secolo a. E. V.), poeta e filosofo di Soli in Cilicia.

   “Non v’ingannate: ‘Le cattive compagnie corrompono i buoni costumi’” (1Cor 15:33). Come si nota, NR mette tra virgolette (TNM non lo fa, sbagliando): si tratta di una citazione. È un trimetro giambico tratto dal poeta ateniese Menandro, vissuto nel 4° secolo a. E. V.. Era divenuto un proverbio popolare. Paolo usa questo proverbio per riferire “le cattive compagnie” a coloro che negano la resurrezione.

   Queste citazioni non provano affatto che Paolo avesse una buona conoscenza della letteratura greca. Occorre usare buon senso. Quelle citazioni erano solo dei detti popolari molto diffusi e molto noti. Non significa affatto che Paolo abbia letto le rispettive opere letterarie. Anche oggi si usano, allo stesso modo, espressioni note: “C’è del marcio in …”, ma quanti sanno chi fu il grandissimo drammaturgo inglese Shakespeare che scrisse questa frase e qual è la sua opera letteraria da cui è tratta? Figurarsi, poi, se l’hanno letta. “Vuolsi così dove si puote ciò che si vuole”: citazione da persone “colte”. Colte fino al punto da citarne forse l’autore (Dante); ma molti probabilmente lì si fermano.

   Contro l’assorbimento della cultura ellenistica da parte di Paolo va ricordata la sua insensibilità per il bello e per l’arte (che erano tratti essenziali dell’ellenismo). Inoltre, il suo giudizio verso la sapienza umana è secco: “Non con sapienza di parola . . .  infatti sta scritto: ‘Io farò perire la sapienza dei saggi e annienterò l’intelligenza degli intelligenti’. Dov’è il sapiente? . . .  Non ha forse Dio reso pazza la sapienza di questo mondo? . . . Il mondo non ha conosciuto Dio mediante la propria sapienza . . .  i Greci cercano sapienza . . . predichiamo Cristo, potenza di Dio e sapienza di Dio . . . Infatti, fratelli, guardate la vostra vocazione; non ci sono tra di voi molti sapienti . . . voi siete in Cristo Gesù, che da Dio è stato fatto per noi sapienza . . .” (1Cor 1:17-31, passim). Per Paolo la sapienza umana è stoltezza presso Dio. Paolo, quindi, non dovette dedicare molto tempo allo studio di tale “stoltezza”.

   Come fariseo, l’unico desiderio di Paolo era quello di poter conoscere in modo sempre più profondo la parola di Dio anziché le opere in cui gli uomini esprimevano la loro saggezza terrena. Certo Paolo non poté sfuggire del tutto agli influssi filosofici della sua città natale – che costituiva a quel tempo un centro di vita intellettuale superiore alle stesse Atene ed Alessandria. Atenodoro, lo storico che fu maestro e amico di Cesare Augusto, proveniva da Tarso. Non deve quindi destare meraviglia che negli scritti paolini si trovino tracce del vocabolario e dell’etica stoica.

   Lo stesso atteggiamento di simpatia di Paolo per i pagani poté provenire dalla serietà con cui gli stoici, predicando nelle piazze di Tarso, cercavano di inculcare la virtù nei loro uditori. “Tutti coloro che hanno peccato senza legge periranno pure senza legge; e tutti coloro che hanno peccato avendo la legge saranno giudicati in base a quella legge; perché non quelli che ascoltano la legge sono giusti davanti a Dio, ma quelli che l’osservano saranno giustificati. Infatti quando degli stranieri, che non hanno legge, adempiono per natura le cose richieste dalla legge, essi, che non hanno legge, sono legge a sé stessi; essi dimostrano che quanto la legge comanda è scritto nei loro cuori, perché la loro coscienza ne rende testimonianza e i loro pensieri si accusano o anche si scusano a vicenda. Tutto ciò si vedrà nel giorno in cui Dio giudicherà i segreti degli uomini per mezzo di Gesù Cristo” (Rm 2:12-16). Questa simpatia di certo preparava l’apostolo a divenire il missionario per eccellenza dei gentili o pagani.

Paolo e Seneca

   Esistono delle lettere apocrife tra Paolo e Seneca. Che credito dare a questi documenti? Prescindendo dal loro valore cronologico, si può pensare che a Roma Paolo abbia trovato benevolenza presso Seneca, che era allora onnipotente presso l’imperatore Nerone. Questa tradizione potrebbe spiegare la simpatia dei più antichi apologeti latini per Seneca (Tertulliano, Minucio), che – pur non essendo mai divenuto discepolo di Yeshùa – si sarebbe interessato con curiosità tutt’altro che ostile alla “Via”, come è chiamata in At 9:2 (Tertulliano, De anima 20). Qualche studioso è addirittura tentato di individuare in Seneca quel misterioso Teofilo (il cui nome significa “amato da Dio”) chiamato “eccellentissimo” (Lc 1:3, κράτιστε, kràtiste), termine applicato a un eminente romano appartenente al ceto equestre. Tuttavia, va notato subito che il titolo di “eccellentissimo” manca in At 1:1, il che potrebbe spiegarsi con la conversione di Teofilo avvenuta nel frattempo, ma per Seneca certamente non avvenne mai. In ogni caso, si tratta d’ipotesi senza un saldo fondamento storico.

   Seneca avrebbe potuto già aver sentito parlare di Paolo dal fratello Novato Gallione che, mentre era proconsole dell’Acaia, aveva liberato Paolo deferito al suo tribunale a Corinto: “Quando Gallione era proconsole dell’Acaia, i Giudei, unanimi, insorsero contro Paolo, e lo condussero davanti al tribunale […] ma Gallione disse ai Giudei: […] ‘Io non voglio esser giudice di queste cose’. E li fece uscire dal tribunale”. – At 18:12-16, passim.

   L’interesse di Seneca per Paolo poteva essere stato anche occasionato dal fatto che con l’amico Burro, presidente del tribunale, Seneca dirigeva allora la politica romana. Va ricordato che Paolo era arrivato nell’Urbe non come un giudeo qualsiasi, ma come “capo della setta dei Nazareni”, di cui si diceva: “Quest’uomo è una peste, che fomenta rivolte fra tutti i Giudei del mondo” (At 24:5). In ogni caso, pur rimanendo a lungo prigioniero per via della burocrazia romana, Paolo ebbe piena libertà d’azione e poté liberamente predicare il vangelo.

   Non è quindi da escludere del tutto la possibilità di rapporti di simpatia tra Paolo e Seneca. La diffusione del vangelo era avvenuta anche nello stesso pretorio romano: “A tutti quelli del pretorio e a tutti gli altri è divenuto noto che sono in catene per Cristo” (Flp 1:13). Per di più, la morte di Paolo (avvenuta probabilmente nel 64 E. V.) voluta da Nerone coincise con la caduta in disgrazia di Burro e di Seneca agli occhi dell’imperatore.

   Nonostante questa possibilità, è un fatto che le idee paoline e quelle senechiane sono del tutto differenti. Ma questo non esclude una possibile simpatia tra i due. Il fatto che Paolo si fosse appellato all’imperatore romano proprio a causa di puntigliosi ebrei, avrebbe potuto favorire la simpatia, poiché gli ebrei erano malvisti da Seneca proprio per la loro puntigliosità. – Cfr., sull’ostilità di Seneca verso gli ebrei, Agostino, De Civitate Dei 6,11.