L’occupazione di Paolo per vivere

   Ogni rabbino doveva imparare un mestiere. Giuseppe Flavio (Antichità Giudaiche 2,2; cfr. Avòt 2,2) ricorda che lo studio della Legge senza un lavoro è cosa vana. Anche Paolo aveva il suo lavoro. Insieme a Aquila e Priscilla esercitò la sua attività: “Essendo del medesimo mestiere, andò ad abitare e a lavorare con loro. Infatti, di mestiere, erano fabbricanti di tende” (At 18:3). Generalmente gli antichi commentatori hanno pensato che Paolo fosse un tagliatore di pelli di animali con cui ricoprire le tende (Crisostomo, Ad populum Antiochem 19,1 PG 49,188,189). Solo Bada (9° secolo) pensò che Paolo, oriundo della Cilicia, tessesse le tende con peli di capra, secondo una specializzazione del luogo (da cui il nome di “cilicio”); ma la sua ipotesi fu presto dimenticata. Questa ipotesi fu ripresa solo nel 19° secolo. – Beda, Expositio Act. Apost. Et Retractatio.

   Tuttavia, com’erano in realtà le tende dei giudei? Esse consistevano in tende di pelle animale: “Allarga il luogo della tua tenda, si spieghino i teli della tua abitazione” (Is 54:2). Il tabernacolo risultava di varie pelli sovrapposte le une alle altre (Es 26:14;36:19). Ancora oggi gli arabi usano una tenda di cuoio rossastro in cui trasportato gli idoli di pietra della tribù. Si chiama qutfà, e da essa possiamo intuire come potevano essere fatte le tende antiche. Che le tende fabbricate da Paolo non fossero intessute con peli di capra pare indicato dal fatto che egli lavorava con Aquila e Priscilla che erano originari del Ponto e che perciò non usavano la tessitura cilicea. Inoltre, Paolo si trasferì a Gerusalemme sin da ragazzo per studiare la Legge da Gamaliele (At 22:3), per cui è poco probabile che egli – fariseo e discepolo di rabbini – si sia potuto dedicare alla tessitura cilicea. Si aggiunga che tale tessitura era ritenuta un lavoro abominevole per i rabbini.

   Di quest’attività tecnica di fabbricante di tende Paolo si avvantaggiò per procurarsi il necessario sostentamento senza dipendere da altri: “Ci affatichiamo lavorando con le nostre proprie mani” (1Cor 4:12). Mostrando le sue mani incallite dal lavoro, egli poteva dire con fierezza agli anziani di Efeso: “Non ho desiderato né l’argento, né l’oro, né i vestiti di nessuno. Voi stessi sapete che queste mani hanno provveduto ai bisogni miei e di coloro che erano con me”. – At 20:33,34.

Aspetto fisico

   Buon parlatore, Paolo non era certo imponente come invece lo era Barnaba. “La folla, veduto ciò che Paolo aveva fatto, alzò la voce, dicendo in lingua licaonica: ‘Gli dèi hanno preso forma umana, e sono scesi fino a noi’. E chiamavano Barnaba Giove, e Paolo Mercurio, perché era lui che teneva il discorso” (At 14:11,12). Indomito nel suo carattere, Paolo sentiva però tutto il timore e la paura nel rivolgersi ai gentili: “Io sono stato presso di voi con debolezza, con timore e con gran tremore” (1Cor 2:3). I corinti, pur non negando la forza dei suoi scritti, biasimavano la sua presenza: “Le sue lettere sono severe e forti; ma la sua presenza fisica è debole e la sua parola è cosa da nulla” (2Cor 10:10). L’immagine di un Paolo piccolo e calvo è dovuta alla vivida descrizione che si rinviene nell’apocrifo Atti di Paolo e Tecla, in cui all’inizio (II,3) si legge: “Egli vide Paolo che avanzava: un uomo di piccola statura, calvo di capo, dalle gambe divaricate, di corpo robusto, dalle sopracciglia che si congiungevano, dal naso alquanto voluminoso, ma pieno di grazia; talvolta sembrava un uomo, talvolta un angelo”.

   Si è voluto trovare una descrizione fisica anche nella “spina nella carne” cui Paolo allude nella sua seconda lettera ai corinti: “Perché io non avessi a insuperbire per l’eccellenza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un angelo di Satana, per schiaffeggiarmi affinché io non insuperbisca” (2Cor 12:7). Alcuni vi vorrebbero vedere delle tentazioni carnali, delle quali Paolo parla così bene nell’ultimo capitolo della sua lettera ai romani. Tuttavia, è più di buon senso vedere qui una figura stilistica che raffigura tutti coloro che lottano interiormente. Inoltre, la concupiscenza – che è retaggio di tutti – non poteva costituire una “spina” particolare per Paolo. Per questo motivo altri studiosi preferiscono vedervi un’infermità fisica persistente e dolorosa. Di questa Paolo parla un’altra volta nella sua lettera ai galati: “Sapete bene che fu a motivo di una malattia che vi evangelizzai la prima volta; e quella mia infermità, che era per voi una prova, voi non la disprezzaste né vi fece ribrezzo; al contrario mi accoglieste […]. Vi rendo testimonianza che, se fosse stato possibile, vi sareste cavati gli occhi e me li avreste dati” (Gal 4:13-15). “Vi sareste cavati gli occhi e me li avreste dati”: se non si tratta di un modo di dire, si sarebbe tentati di vedervi una malattia agli occhi, forse un glaucoma alla retina, il che spiegherebbe l’espressione paolina: “Guardate con che grossi caratteri vi ho scritto di mia propria mano!” (Gal 6:11). Che tale infermità potesse essere attribuita a influsso satanico rientrava nella teologia ebraica: le malattie erano ritenute opera di demòni. Anche in Luca leggiamo: “Questa, che è figlia di Abraamo, e che Satana aveva tenuto legata per ben diciotto anni”. – Lc 13:16.

   Se si trattava di malattia agli occhi, probabilmente tale infermità fu originata dalle ardenti sabbie del deserto siriaco e dalla visione di Yeshùa che lo rese completamente cieco. Riacquistata la vista tramite Anania, Paolo dovette pur sempre soffrire agli occhi come conseguenza di quell’apparizione: “Siccome non ci vedevo più a causa del fulgore di quella luce, fui condotto per mano da quelli che erano con me; e, così, giunsi a Damasco. Un certo Anania, uomo pio secondo la legge, al quale tutti i Giudei che abitavano là rendevano buona testimonianza, venne da me, e, accostatosi, mi disse: ‘Fratello Saulo, ricupera la vista’. E in quell’istante riebbi la vista e lo guardai”. – At 22:11-13.