Guardare alla meta

 

“Non che io abbia già ottenuto tutto questo o sia già arrivato alla perfezione” (3:12). Il testo greco manca del complemento oggetto: “Non che io abbia già ottenuto”. Cosa? NR aggiunge: “tutto questo”. TNM aggiunge un “lo” (“Non che io l’abbia già ricevuto”). Tutte e due queste traduzioni riferiscono l’oggetto alle cose dette in precedenza. Ma non sappiamo se si tratti della resurrezione finale o del compimento della vita terrena secondo il piano divino.

   Si noti il gioco di parole che segue: “Proseguo il cammino per cercare di afferrare ciò per cui sono anche stato afferrato da Cristo Gesù” (3:12). Paolo è già stato afferrato dal Cristo (con la visione sulla via per Damasco), ma egli non ha ancora afferrato totalmente ciò che deve: non è ancora stato ‘reso perfetto’ da Dio, cosa che avverrà il giorno della sua morte. C’è qui un punto essenziale che richiama la morte di Yeshùa nell’ubbidienza:

Flp 3:12

Gv 19:30

“Non che io abbia già ottenuto tutto questo o sia già arrivato alla perfezione”

“[Yeshùa] disse: ‘È compiuto!’. E, chinato il capo, rese lo spirito”

τετελείωμαι (tetelèiomai)

τετέλεσται (tetèlestai)

È lo stesso verbo greco

   Peccato che le traduzioni italiane non evidenzino questo particolare.

   Poi Paolo, senza alcun orgoglio, dice di voler continuare la corsa, di protendersi sempre più in avanti, proprio come un corridore che non guarda al cammino già percorso ma alla meta da raggiungere, impegnandosi con il proprio sforzo personale: “Una cosa faccio: dimenticando le cose che stanno dietro e protendendomi verso quelle che stanno davanti, corro verso la mèta” (3:13,14). La meta è una: “Ottenere il premio della celeste vocazione di Dio in Cristo Gesù”. – V. 14.

   La metafora della corsa è abituale in Paolo: “Non sapete che coloro i quali corrono nello stadio, corrono tutti, ma uno solo ottiene il premio? Correte in modo da riportarlo” (1Cor 9:24), “Ho combattuto il buon combattimento, ho finito la corsa, ho conservato la fede” (2Tm 4:7). Anche Eb 12:1 utilizza questa metafora: “Corriamo con perseveranza la gara che ci è proposta”.

   Qual è “il premio della celeste vocazione di Dio in Cristo Gesù” (v. 14)? Il premio è probabilmente quello ricordato al v. 11: “La risurrezione dei morti”.

   “Sia questo dunque il sentimento di quanti siamo maturi” (3:15). Non tutti quindi sono maturi: “Quanti siamo maturi”. Paolo distingue, nella congregazione, tra “maturi” e “bambini” (in senso spirituale): “Quelli tra di voi che sono maturi”, “Non siate bambini quanto al ragionare” (1Cor 2:6;14:20). “Lasciando l’insegnamento elementare intorno a Cristo, tendiamo a quello superiore” (Eb 6:1). Nel testo greco, la parola tradotta “maturi” è τέλειοι (tèleioi), “perfetti”. Non c’è opposizione tra i “perfetti” del presente e la confessione di Paolo di non essere stato ancora reso perfetto (v. 12). Là si tratta di perfezione ultimata, qui di perfezione relativa.

   Proprio perché il grado di maturità è diverso, è naturale che non tutti i credenti la pensino allo stesso modo: “Se in qualche cosa voi pensate altrimenti, Dio vi rivelerà anche quella” (v. 15). Paolo, tuttavia, raccomanda che dal punto in cui uno è giunto abbia a correre verso la stessa meta: “Dal punto a cui siamo arrivati, continuiamo a camminare per la stessa via” (v. 16). È così che fanno i corridori che, pur distaccati gli uni dagli altri, hanno l’unico intento di raggiungere tutti la stessa meta. “Avendo un medesimo pensare, un medesimo amore, essendo di un animo solo e di un unico sentimento” (2:2). In questo modo non c’è il tempo per discussioni sterili e per disaccordi personali.

   Da quanto precede appare che tutto quanto (conoscenza di Yeshùa, zelo, vita ubbidiente) ha fatto maturare i credenti è dono e rivelazione di Dio. Questo avvenne per i credenti di quel tempo tramite le Scritture Ebraiche e la predicazione apostolica. “Lo Spirito della verità, egli vi guiderà in tutta la verità, perché non parlerà di suo, ma dirà tutto quello che avrà udito, e vi annuncerà le cose a venire. Egli mi glorificherà perché prenderà del mio e ve lo annuncerà” (Gv 16:13,14). E oggi? Oggi avviene sempre, sotto la guida dello spirito di Dio, tramite le Scritture Ebraiche e le Scritture Greche che contengono gli scritti apostolici.

   Paolo vuole che i filippesi diventino suoi imitatori. Ma in ciò non c’è nessun orgoglio. I filippesi non solo devono imitare lui, ma anche tutti coloro che camminano come lui: “Siate miei imitatori, fratelli, e guardate quelli che camminano secondo l’esempio che avete in noi” (3:17). Pietro esortava così gli anziani: “Non come dominatori di quelli che vi sono affidati, ma come esempi del gregge”. – 1Pt 5:3.

   Purtroppo, però, non tutti operano così. Vi sono anche delle persone (e Paolo ne soffre) che camminano come nemici del palo di tortura di Yeshùa: “Molti camminano da nemici della croce di Cristo (ve l’ho detto spesso e ve lo dico anche ora piangendo)” (3:18). Con chi l’ha Paolo? Non proprio con i discepoli indegni, come pensano i Testimoni di Geova: “Coloro che avevano abbracciato il cristianesimo, ma poi tornavano a vivere in modo immorale, si dimostravano ‘nemici del palo di tortura del Cristo’. (Flp 3:18, 19)” (Perspicacia nello studio delle Scritture  Vol. 2, pag. 473, ultimo § alla voce “Palo di tortura”). Nella lettera, infatti, non si fa alcun cenno di credenti che si fossero poi dati al libertinaggio. Basti confrontare il tono pacato 3:15 (“Sia questo dunque il sentimento di quanti siamo maturi; se in qualche cosa voi pensate altrimenti, Dio vi rivelerà anche quella”) con il cap. 5 di 1Cor, dove davvero Paolo muove severi rimproveri per gli scandali. Sembra invece che Paolo si richiami ai giudei (o, forse, a dei discepoli giudaizzanti), che erano un pericolo per la congregazione di Filippi, coloro che poco prima aveva chiamato “cani” (3:2). Costoro sono “nemici della croce”. Si noti: dice della croce, non semplicemente di Yeshùa. Se erano giudei, la rifiutavano. Se erano giudaizzanti, non la ritenevano sufficiente. Costoro danno anche importanza al “ventre” (v. 19), in quanto insistono su certi cibi e hanno infinite prescrizioni circa il cibo. Altrove, Paolo dice di loro: “Costoro, infatti, non servono il nostro Signore Gesù Cristo, ma il proprio ventre” (Rm 16:18), “Come se viveste nel mondo, vi lasciate imporre dei precetti, quali: ‘Non toccare, non assaggiare, non maneggiare’” (Col 2:20,21; cfr. anche 1Tm 4:1,2). Essi poi si gloriano della circoncisione di una parte del loro corpo in quanto “la loro gloria è in ciò che torna a loro vergogna” (v. 19), ovvero di una parte del corpo di cui c’è da vergognarsi e che viene tenuta nascosta (cfr. 1Cor 12:23,24). Visto così, il passo armonizza meglio con tutto il contesto precedente. Costoro sono ancora ancorati alle realtà terrestri, dimenticando il dono celeste che si ha in Yeshùa.

   “Quanto a noi”… (3:20). Qui il “noi” indica i credenti autentici, non giudaizzanti, coloro che non si lasciano sedurre da queste prescrizioni e norme. Questi fedeli autentici hanno per patria il cielo: “La nostra cittadinanza è nei cieli” (v. 20). “Cercate le cose di lassù dove Cristo è seduto alla destra di Dio. Aspirate alle cose di lassù, non a quelle che sono sulla terra; poiché voi moriste e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio”. – Col 3:1-3.

   Questi discepoli fedeli attendono la salvezza non da norme igieniche o alimentari, ma dal salvatore Yeshùa: “Nei cieli, da dove aspettiamo anche il Salvatore, Gesù Cristo, il Signore” (v. 20; cfr. At 1:11, Tito 2:13). Sarà Yeshùa a trasfigurare con la sua potenza il nostro corpo terrestre e carnale, rendendolo glorioso a immagine del suo. “Il corpo è seminato corruttibile e risuscita incorruttibile; è seminato ignobile e risuscita glorioso; è seminato debole e risuscita potente; è seminato corpo naturale e risuscita corpo spirituale. Se c’è un corpo naturale, c’è anche un corpo spirituale. Così anche sta scritto: ‘Il primo uomo, Adamo, divenne anima vivente’; l’ultimo Adamo è spirito vivificante. Però, ciò che è spirituale non viene prima; ma prima, ciò che è naturale; poi viene ciò che è spirituale. Il primo uomo, tratto dalla terra, è terrestre; il secondo uomo è dal cielo. Qual è il terrestre, tali sono anche i terrestri; e quale è il celeste, tali saranno anche i celesti. E come abbiamo portato l’immagine del terrestre, così porteremo anche l’immagine del celeste. Ora io dico questo, fratelli, che carne e sangue non possono ereditare il regno di Dio; né i corpi che si decompongono possono ereditare l’incorruttibilità. Ecco, io vi dico un mistero: non tutti morremo, ma tutti saremo trasformati, in un momento, in un batter d’occhio, al suono dell’ultima tromba. Perché la tromba squillerà, e i morti risusciteranno incorruttibili, e noi saremo trasformati. Infatti bisogna che questo corruttibile rivesta incorruttibilità e che questo mortale rivesta immortalità”. – 1Cor 15:42-53.

   Nonostante l’attesa della gloria, la nostra “cittadinanza” però è già nei cieli: “La nostra cittadinanza è nei cieli” (v. 20). Interessante la parola greca usata: πολίτευμα (polìteuma), tradotta “cittadinanza”. Essa significa anche “colonia di emigrati”, che in esilio si organizzano sul tipo della madre patria da cui provengono. I discepoli di Yeshùa, la cui vera patria è in cielo, devono sforzarsi di organizzare già su questa terra un anticipo di cielo, mentre attendono di entrare nella pienezza della situazione celeste. Ciò non ha nulla a che fare con la “teocrazia” di nazioni fondamentaliste o con la “teocrazia” di certi gruppi religiosi che stabiliscono loro regole. Si tratta di un programma meraviglioso che tocca ogni elemento della terra, sia nel campo individuale sia familiare e sociale. Ha a che fare con ciò che pensiamo, che facciamo, che sogniamo. Ha a che fare con ogni gesto. Ciò è possibile attuarlo solo con il potere di Yeshùa, cui tutto è sottoposto.