Esortazioni finali

 

Paolo riprende il tono familiare e confidenziale che caratterizza l’intera lettera: “Perciò, fratelli miei cari e desideratissimi, allegrezza e corona mia, state in questa maniera saldi nel Signore, o diletti!” (4:1). I filippesi sono “desideratissimi” (“grandemente desiderati”, TNM) perché Paolo desidera molto rivederli. Questi fedeli discepoli devono rimanere “saldi nel Signore”.

   Ai vv. 2 e 3 dell’ultimo capitolo (il cap. 4) si parla di alcune persone “i cui nomi sono nel libro della vita”. Altre scritture possono illuminarci su questo “libro della vita”: “Chi vince sarà dunque vestito di vesti bianche, e io non cancellerò il suo nome dal libro della vita”, “I cui nomi non sono scritti fin dalla creazione del mondo nel libro della vita dell’Agnello che è stato immolato” (Ap 3:5;13:8), “Rallegratevi perché i vostri nomi sono scritti nei cieli” (Lc 10:20), “Siano cancellati dal libro della vita e non siano iscritti fra i giusti” (Sl 69:28), “Perdona ora il loro peccato! Se no, ti prego, cancellami dal tuo libro che hai scritto!” (Es 32:32), “Saranno chiamati santi: chiunque, cioè, in Gerusalemme sarà iscritto tra i vivi”. – Is 4:3.

   A queste persone che menziona, Paolo fa delle raccomandazioni. Due sono donne: Evodìa e Sintìche, di cui nulla conosciamo. Ci appaino donne energiche, che lavorarono con Paolo nell’evangelizzazione e che ora sono in contrasto tra loro. Paolo raccomanda a queste due donne di “essere concordi nel Signore” (v. 2). Invita anche Sìzigo ad aiutarle a essere concordi. Sul nome “Sìzigo” si sono fatte ipotesi stravaganti. In greco è Σύνζυγος (Sΰzügos) e significa “aggiogato insieme”. Per questa etimologia alcuni pensano che si tratti della moglie di Paolo. Questa è un’ipotesi arbitraria, perché Paolo dice ripetutamente di non essere sposato (1Cor 9:5;7:7). Inoltre, chi fa questa ipotesi conosce poco o nulla il greco, in quanto accanto al nome (che di per sé è già maschile) compare l’aggettivo “fedele” o “vero” messo pure al maschile: γνήσιε (ghnèsie) e non al femminile ghnèsia. Si tratta quindi indiscutibilmente di un uomo e non di una donna. Altri traduttori scambiano il nome Sìzigo per un nome comune e lo traducono “collaboratore”. TNM opta per il buffo “compagno di giogo”. Se con questo termine si vuol intendere un compagno di prigionia, si è fuori strada, giacché Paolo è in prigione e scrive a uno che è libero. Se poi – non sapendo come tradurre – ci si è attenuti al significato etimologico, appare oltremodo curioso: sarebbe come tradurre ‘Paolo […] a uno che onora Dio’, invece di “Paolo […] a Timoteo”. – 1Tm 1:1.

   Di Sìzigo, Clemente, Evodìa e Sintìche – anziché tentare inutili identificazioni – meglio sarebbe dire chiaro che nulla sappiamo. Lo stesso nome “Clemente” era a quel tempo così diffuso che sarebbe davvero problematica la sua identificazione con Clemente Romano, uno dei successivi “vescovi” della comunità filippese, come fa Origène.

   In 4:4 abbiamo un nuovo invito alla gioia, di cui questa lettera ridonda (cfr. 3:1): “Rallegratevi sempre nel Signore. Ripeto: rallegratevi”. Si tratta di gioia genuina, tanto che Paolo (in Ef 5:18,19) suggerisce di dare sfogo a questa gioia con cantici e ringraziamenti continui: “Siate ricolmi di Spirito, parlandovi con salmi, inni e cantici spirituali, cantando e salmeggiando con il vostro cuore al Signore”. Si tratta di gioia autentica, interiore; non falsa come quella che il mondo può dare.

   La gioia deve spingere ad avere “mansuetudine”, “clemenza”, “gentilezza”, “comprensione” (v. 5), tutti elementi compresi nel termine greco ἐπιεικὲς (epieikès). Meno appropriato è “ragionevolezza” di TNM, dato che l’epieikès deve essere “nota a tutti gli uomini” (v. 5). La ragionevolezza è una qualità mentale quasi fredda che può notarsi solo ragionando con qualcuno, ma la “gentilezza” si nota subito. “Tutti gli uomini” sono ovviamente tutte le persone che incontriamo.

   Il motivo che sostiene questo comportamento mite e gentile consiste nel fatto che “il Signore è vicino” (v. 5). Nonostante l’apparente ritardo (di cui forse qualcuno cominciava a parlare) della parusìa o venuta di Yeshùa, egli è vicino, sta per venire. “Il Signore non ritarda l’adempimento della sua promessa, come pretendono alcuni; ma è paziente verso di voi, non volendo che qualcuno perisca, ma che tutti giungano al ravvedimento” (1Pt 3:9). Questo pensiero ci sostiene e ci tranquillizza. “Siate pazienti anche voi; fortificate i vostri cuori, perché la venuta del Signore è vicina. Fratelli, non lamentatevi gli uni degli altri, affinché non siate giudicati; ecco, il giudice è alla porta” (Gc 5:8,9). “La fine di tutte le cose è vicina; siate dunque moderati e sobri per dedicarvi alla preghiera” (1Pt 4:7). Paolo dice ai filippesi: “Non angustiatevi di nulla, ma in ogni cosa fate conoscere le vostre richieste a Dio in preghiere e suppliche, accompagnate da ringraziamenti”. – 4:6.

   I filippesi (e tutti i discepoli di Yeshùa oggi come allora), dunque, non devono avere alcuna ansietà per ciò che necessita o riguarda loro: “La pace di Dio, che supera ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e i vostri pensieri in Cristo Gesù” (4:7). “Non siate in ansia per la vostra vita, di che cosa mangerete o di che cosa berrete; né per il vostro corpo, di che vi vestirete. Non è la vita più del nutrimento, e il corpo più del vestito?” (Mt 6:25). Il credente deve umilmente manifestare a Dio ogni proprio bisogno in una preghiera fiduciosa e serena, aggiungendovi anzi il ringraziamento come se avesse già ricevuto ogni cosa. – V. 6.

   “La pace di Dio” (v. 7) è la pace che proviene da Dio (genitivo soggettivo), il quale è appunto l’origine della pace, essendo Dio “il Dio della pace” (v. 9). Si tratta di una pace interiore: “Custodirà i vostri cuori e i vostri pensieri” (v. 7). Bellissima l’espressione “custodirà” (personificazione della “pace”). La pace di Dio tiene al sicuro la nostra mente (nella Bibbia il cuore è la sede dei pensieri) e i nostri pensieri, veglia come una sentinella preservandoci da turbamenti inutili. È questo il meraviglioso dono, la “grazia”, che Yeshùa fa ai suoi discepoli. Questa pace fu preannunciata da lui stesso: “Vi lascio pace; vi do la mia pace. Io non vi do come il mondo dà. Il vostro cuore non sia turbato e non si sgomenti” (Gv 14:27). È una pace “che supera ogni intelligenza” (v. 7), ovvero ogni intendimento umano poiché è umanamente impossibile capire come si possa essere lieti e contenti anche in mezzo a persecuzioni, dolori e sofferenze. Sorpassa “ogni intelletto” (Diodati), non semplicemente “ogni pensiero”. – TNM.

   C’è un abisso qui tra questa pace di Dio e i Tristia di Ovidio, tutti impregnati di tristezza disperata: “Nil nisi flere libet” (“Non possiamo far altro che piangere”). Nella Bibbia, al contrario, è indicata la pace interiore che Dio dona.

“Ho voluto riflettere per comprendere questo,

ma la cosa mi è parsa molto ardua,

finché non sono entrato nel santuario di Dio,

e non ho considerato la fine di costoro.

Certo, tu li metti in luoghi sdrucciolevoli,

tu li fai cadere in rovina.

Come sono distrutti in un momento,

portati via, consumati in circostanze orribili!

Come avviene d’un sogno quand’uno si sveglia,

così tu, Signore, quando ti desterai,

disprezzerai la loro vana apparenza.

Quando il mio cuore era amareggiato

e io mi sentivo trafitto internamente,

ero insensato e senza intelligenza;

io ero di fronte a te come una bestia.

Ma pure, io resto sempre con te;

tu m’hai preso per la mano destra;

mi guiderai con il tuo consiglio

e poi mi accoglierai nella gloria.

Chi ho io in cielo fuori di te?

E sulla terra non desidero che te.

La mia carne e il mio cuore possono venir meno,

ma Dio è la ròcca del mio cuore e la mia parte di eredità, in eterno.

Poiché, ecco, quelli che s’allontanano da te periranno;

tu distruggi chiunque ti tradisce e ti abbandona.

Ma quanto a me, il mio bene è stare unito a Dio;

io ho fatto del Signore, di Dio,

il mio rifugio,

per raccontare, o Dio, tutte le opere tue”. – Sl 73:16-28.

   Tra i due richiami alla pace (v. 7 e v. 9), Paolo include un elenco di sei voci che racchiudono ciò che il credente deve ricercare. Ciascuna è introdotta con l’indefinito “tutte le cose” (4:8):

NR

TNM

“Tutte le cose vere,

vere

tutte le cose onorevoli

di seria considerazione

tutte le cose giuste

giuste

tutte le cose pure

caste

tutte le cose amabili

amabili

tutte le cose di buona fama”

delle quali si parla bene

   È inutile ricercare la differenza tra una parola e l’altra: si tratta sempre dello stesso concetto presentato nei suoi diversi aspetti, secondo lo stile retorico. Ciò che è vero è anche giusto, amabile, onorevole, puro e di buona reputazione. Il discepolo di Yeshùa non respinge i valori umani, anzi li pratica al massimo grado. Per questo Paolo dice: Tutte quelle cose, “quelle in cui è qualche virtù e qualche lode, siano oggetto dei vostri pensieri” (v. 8). È chiaro che non si parla di norme della Bibbia (in cui ci sono solo virtù), ma di valori umani (in cui può esserci “qualche virtù”). Questi non vanno respinti, ma praticati.

   Una traduzione più conforme al greco è qui quella di TNM: “Se c’è qualche virtù”. La parola greca tradotta “virtù” è ἀρετὴ (aretè). Questa parola è molto usata preso gli stoici. Nelle Scritture Greche ricorre solo qui. Dalla filosofia stoica apprendiamo che non si tratta tanto di “virtù” in opposizione al vizio, ma di un’abilità operativa che fa eccellere. Paolo suggerisce che i discepoli di Yeshùa presentino una sintesi armonica anche di tutto ciò che di buono c’è nel mondo pagano. I discepoli devono eccellere in questo. Ci mancherebbe altro che alcune persone del mondo, per pagane che siano, debbano darci lezione di virtù e di buoni valori umani. Questo è un punto su cui alcuni gruppi religiosi che si richiudono in se stessi dovrebbero fare autocritica.