“Nei tempi passati Dio parlò molte volte e in molti modi” (Eb 1:1, TILC). Questa “parola” di Dio fu messa man mano per iscritto. Oggi la possediamo con il nome di Bibbia. Non fu prodotta tutta insieme ad opera di una sola persona, “ma degli uomini hanno parlato da parte di Dio” (2Pt 1:21). Circa quaranta persone, nell’arco di quattromila anni all’incirca, fecero registrazioni accurate. Fu scritta quindi da uomini? La risposta è sì. Come mai allora possiamo dire che è parola di Dio? “Sappiate una cosa: gli antichi profeti non parlavano mai di loro iniziativa, ma furono uomini guidati dallo Spirito Santo, e parlarono in nome di Dio” (2Pt 1:20,21, TILC). Ciò può suscitare perplessità nella mente di un incredulo, ma le persone che hanno fede in Dio fanno la stessa esperienza di quei tessalonicesi cui Paolo scrisse: “Voi l’accettaste non come parola di uomini, ma, quale essa è veramente, come parola di Dio, la quale opera efficacemente in voi che credete” (1Ts 2:13). Si vedano al riguardo, in questa stessa sezione, gli articoli sull’ispirazione della Bibbia, nella categoria L’ispirazione della Bibbia. L’atteggiamento giusto dovrebbe essere quello di certi antichi bereani che “ricevettero la Parola con ogni premura, esaminando ogni giorno le Scritture per vedere se le cose stavano così”. – At 17:11.

   Quando s’iniziò a scrivere la Bibbia? Sembrerebbe con Mosè (Es 17:14;34:27; Gs 8:31; Dn 9:13; Lc 24:27,44.), circa 1500 anni prima della nostra èra. Tuttavia, in Gn si fa riferimento a quelli che nell’editoria moderna sarebbero chiamati colofoni (colophon): “Questo è il libro della genealogia di Adamo” (5:1). Si noti anche Gn 2:4: “Queste sono le origini [“la storia”, TNM] dei cieli e della terra quando furono creati”; qui il testo ebraico haאֵלֶּה תֹולְדֹות  (ele toledòt), “queste [sono le] generazioni di”, e la LXX traduce in greco ἡ βίβλος γενέσεως (e bìblos ghenèseos), “libro [dell’]origine [“fonte”]”. Questi “libri” o, per meglio dire documenti, antichissimi, potrebbero essere stati inclusi in Genesi dallo scrittore che la compose.

   Gli antichi ebrei, depositari dei testi biblici, preservarono sempre con la massima cura i rotoli originali della Sacra Scrittura. Ne facevano anche numerose copie. Coloro che copiavano le Scritture (i copisti) erano chiamati scribi (in ebraico ספרים – soferìym; da ספר – sèfer, “libro”).  I sacerdoti tenevano in custodia gli scritti sacri. Ogni re d’Israele era obbligato ad averne una copia: “Quando salirà al trono, farà copiare per sé, su un libro questa legge custodita dai sacerdoti leviti” (Dt 17:18, TILC). La trascrizione era molto minuziosa, ad opera di scribi che erano altamente qualificati. Di uno di questi scribi, Esdra, si dice che “era uno scriba esperto”.  – Esd 7:6.

 

La filologia

   La filologia – dal greco φιλολογία (filologhìa), composto da φίλος (filos, “amante/amico”) e λόγος (lògos, “parola/discorso”); quindi: l’“amore per lo studio delle parole” – è la disciplina che studia i testi letterari con lo scopo di ricostruirli nella loro forma originaria attraverso l’analisi critica e comparativa delle fonti che li testimoniano. La critica testuale ha invece lo scopo di pervenire, mediante la comparazione dei manoscritti e con varie metodologie d’indagine, ad una ricostruzione che sia la più fedele possibile al testo.

   Dopo la distruzione di Gerusalemme nel 70 della nostra èra e la conseguente dispersione dei giudei, la lingua ebraica andò via via sparendo. Dopo pochi secoli erano veramente pochi quelli che ancora riuscivano a leggere l’ebraico. Sorsero allora i masoreti. Costoro (בעלי המסורה, baalè hamasoràh, “maestri della tradizione”) erano scribi eruditi e che tra il 7° e 9° secolo della nostra èra studiarono e sistematizzarono la Bibbia ebraica (chiamata dagli ebrei Tanàch). Per evitare errori contavano addirittura le lettere. Questa loro meticolosità ci garantisce l’accuratezza del testo. Essendo ormai l’ebraico una lingua morta, i masoreti idearono perfino un sistema di vocalizzazione, essendo l’alfabeto ebraico solo consonantico (le vocali non venivano scritte ma aggiunte a voce durante la lettura). I masoreti avevano talmente rispetto per il testo biblico che escogitarono un modo per aggiungere le vocali e gli accenti senza toccare minimamente le consonanti: punti e trattini vennero messi sopra, sotto, a fianco e perfino dentro le consonanti. Per portare un esempio riproduciamo la prima parola della Bibbia (in rosso i segni apposti dai masoreti):

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   Quando i masoreti ritenevano che il testo fosse stato alterato oppure non ricopiato bene da precedenti scribi, non si permisero di modificare il testo, ma annotarono le loro osservazioni a margine. Nel testo masoretico attuale abbiamo quindi annotazioni su forme o combinazioni inusuali e perfino la frequenza con cui ricorrevano all’interno di un singolo libro o dell’intera Bibbia. Altre loro annotazioni erano d’aiuto ai copisti per eseguire controlli incrociati. Un sistema di codici abbreviati, da loro stessi ideato, rendeva tali note molto concise. Perfino una piccola concordanza trovò posto in cima e a piè di pagina.

   I masoreti erano molto meticolosi. Lo scriba doveva usare come modello una copia dovutamente riconosciuta come autentica. Non era consentito scrivere a memoria. Lo scriba doveva verificare ogni lettera prima di scriverla. “Un’idea della cura con cui assolvevano i loro compiti è data dalla regola rabbinica secondo la quale tutti i nuovi manoscritti dovevano essere riletti da correttori e le copie difettose immediatamente scartate”. N. K. Gottwald, professore.

   Nel 1947 si ebbe la prova di quanto erano stati accurati i masoreti. Fino ad allora i più antichi manoscritti ebraici completi disponibili risalivano al 10° secolo della nostra èra. Nel 1947 furono rinvenuti, in alcune caverne nei pressi del Mar Morto, diversi frammenti di manoscritti antichissimi, tra cui parti dei libri delle Scritture Ebraiche e il libro completo di Isaia. Diversi frammenti erano anteriori al tempo di Yeshùa. Furono quindi raffrontati con i manoscritti ebraici esistenti per verificare l’accuratezza della trasmissione del testo. Fu sorprendente l’uniformità fra questi testi ritrovati e quelli della Bibbia masoretica oggi in nostro possesso. “Molte delle differenze tra il testo contenuto nel rotolo [di Isaia] del monastero di S. Marco e quello masoretico possono essere interpretate quali errori di trascrizione; a parte questo, si osserva nel complesso una notevole concordanza tra il primo e i manoscritti medioevali; che un testo di tanto più antico concordi con altri più recenti, costituisce una prova di più dell’accuratezza della versione tradizionale . . . È perciò motivo di meraviglia il constatare quanto poche siano state le alterazioni apportate al testo in un periodo di circa mille anni”. – Millar Burrows, professore.

   I masoreti diedero un grande contributo alla critica testuale.

 

I manoscritti biblici

   Quanti manoscritti originali o autografi abbiamo della Bibbia? Per quanto ne sappiamo, nessuno. Questo potrebbe sorprendere i semplici, che forse non sanno molto di manoscritti antichi. Oggi abbiamo migliaia di manoscritti di varie parti della Bibbia. La stessa cosa non si può dire dei classici. “Del De Bello Gallico di Cesare (composto tra il 58 e il 50 a.C.) esistono ancora diversi MSS, ma solo nove o dieci sono in buono stato, e il più antico è di circa 900 anni posteriore al periodo di Cesare. Dei 142 libri della storia di Roma di Tito Livio (59 a.C.-17 d.C.) ne rimangono solo 35; questi ci sono noti grazie a non più di venti MSS di qualche importanza, dei quali solo uno, quello contenente frammenti dei Libri III-VI, risale al IV secolo. Dei quattordici libri delle Storie di Tacito (ca. 100 d.C.) solo quattro e mezzo sono giunti fino a noi; dei sedici libri dei suoi Annali, ce ne sono pervenuti dieci interi e due con lacune. Il testo di queste parti ancora esistenti delle sue due grandi opere storiche dipende interamente da due MSS, uno del IX secolo e uno dell’XI . . . La Storia di Tucidide (ca. 460-400 a.C.) ci è nota grazie a otto MSS, il più antico dei quali risale all’incirca al 900 d.C., e ad alcuni frammenti papiracei che risalgono pressappoco all’inizio dell’era cristiana. Lo stesso vale per le Storie di Erodoto (ca. 488-428 a.C.). Eppure nessun erudito classico presterebbe ascolto a chi volesse mettere in dubbio l’autenticità di Erodoto o di Tucidide perché i MSS più antichi delle loro opere che possiamo in qualche modo utilizzare sono di oltre 1.300 anni posteriori agli originali”. — The Books and the Parchments, pagina 180.

    La stampa a caratteri mobili (in argilla) fu inventata, a quanto pare, in Cina intorno all’anno 1000. Si hanno notizie storiche di stampe effettuate con caratteri mobili in legno in Corea, dove all’inizio del 1200 si passò ai caratteri mobili in metallo. Tale tecnica di stampa giunse poi in Europa, tanto che il tedesco J. Gänsfleish (più conosciuto come Gutemberg), nel 1440, inventò una rivoluzionaria pressa per la stampa. La sua prima edizione stampata fu la Bibbia.

   Prima dell’utilizzo della stampa a caratteri mobili gli scritti originali della Bibbia (e le loro copie) erano scritti a mano (da qui il nome di “manoscritti”).

   Oggi, con “manoscritto biblico” intendiamo una copia scritta a mano (completa o parziale) della Bibbia. I manoscritti biblici sono per lo più in forma di rotoli e di codici. Cosa fosse il rotolo è di facile comprensione. Il codice era invece costituito da una serie di fogli piegati, poi riuniti e legati insieme sulla piegatura; questi fogli erano scritti su entrambe le facce e inseriti in una copertina. Assomigliavano dunque ai nostri attuali libri.

   Il materiale usato poteva essere la pelle (di animali), il papiro (una specie di carta fatta con le fibre dell’omonima pianta acquatica), la pergamena (prodotta con pelli di pecora, capra o vitello, depilate e fatte asciugare sotto tensione) o il velino (una pergamena finissima fatta con pelli di vitellini, agnelli o capretti). Un altro materiale utilizzato era il palinsesto (dal greco palìmpsestos, “raschiato di nuovo”): si trattava di un manoscritto da cui lo scritto primitivo era stato raschiato per far posto ad un nuovo scritto.

   I manoscritti biblici scritti in greco (sia traduzioni delle Scritture Ebraiche che copie delle Scritture Greche) presentano vari tipi di scrittura. La scrittura più antica (usata fino al 9° secolo della nostra èra) è la scrittura onciale, caratterizzata da grossi caratteri maiuscoli separati, generalmente senza separazione fra le parole e senza punteggiatura e accenti. Per dare un esempio di questo tipo di scrittura, ci riferiamo al Papiro P52, conservato nella John Rylands Library di Manchester con il numero di inventario P. Ryl. Gk. 457, che contiene Gv 18:31-33,37,38. L’ultima parola del v. 32 è ἀποθνήσκειν (apothnèskein) e nel frammento del manoscritto P52 compare la parte finale di questa parola: θνησκειν (thneskein), che in caratteri greci maiuscoli è ΘΝΗΣΚΕΙΝ.

   La scrittura usata dal 4° secolo e adottata nel 9° secolo è la scrittura corsiva o minuscola, dai caratteri più piccoli e spesso uniti fra loro. Quest’ultima scrittura rimase in uso fino all’avvento della stampa. Nell’esempio fatto al paragrafo precedente, la versione minuscola è: αποθνησκειν (apothneskein).

   Pur non essendo ancora stati rinvenuti i manoscritti biblici originali, abbiamo migliaia di copie manoscritte sia dell’intera Bibbia che di sue parti. Diverse di queste sono antichissime, eppure, la trascrizione non ha alterato i testi originali. “Si può affermare con sicurezza che nessun’altra opera antica ci è pervenuta in forma così accurata” (William H. Green, studioso). “L’intervallo fra la data della stesura originale e quella dei reperti più antichi è talmente piccolo da essere del tutto trascurabile, e l’ultimo fondamento per qualsiasi dubbio che le Scritture ci siano pervenute sostanzialmente come furono scritte è stato ora eliminato. Sia l’autenticità che l’integrità generale dei libri . . . si possono considerare definitive . . . Non è troppo esagerato asserire che in sostanza il testo della Bibbia è sicuro . . . Questo non può dirsi di nessun altro libro antico al mondo”. – Frederic Kenyon, studioso di manoscritti biblici.

 

La paleografia

   La paleografia si occupa dello studio di antichi scritti, oltre che di scrittura antica (infatti, lo stile di scrittura varia secondo il periodo storico, e la lingua stessa si evolve). Sebbene il carbonio 14 venga impiegato per la datazione, lo studio meticoloso e accurato è tuttora il mezzo più efficace per determinare l’età dei manoscritti. Gli studiosi biblici di tutto il mondo sono coinvolti nello studio dei manoscritti, dato che vengono rese disponibili le fotografie degli antichi manoscritti, riprodotte su microfilm o pubblicate in facsimile. Così, gli studiosi di tutto il mondo possono studiare molto particolareggiatamente i manoscritti. Ma potrebbero i manoscritti essere contraffatti? È molto più facile contraffare una banconota che un manoscritto: per la banconota, infatti, si tratta di semplice abilità tecnica in cui la conoscenza della paleografia non è richiesta.

 

La critica testuale

   La critica testuale (detta anche ecdotica) ha lo scopo di preparare l’edizione critica, ovvero un testo sicuro tratto dagli antichi manoscritti (testo che mira a ristabilirne la forma originale, il più possibile rispondente alla volontà dell’autore, presentando quindi anche un apparato critico che riporta le lezioni varianti). Lezione è il termine tecnico (derivato dal latino lectio, “lettura”) con cui si indica una delle differenti varianti formali in cui è avvenuta la conservazione del manoscritto. Come mai, però, si hanno queste varianti? Copiando a mano si commettono errori: “Non sono stati ancora creati la mano e il cervello umani in grado di copiare per intero un’opera estesa senza fare nessun errore . . . Era inevitabile che si infiltrassero degli errori”. – Sir Frederic Kenyon, archeologo e bibliotecario del British Museum.

    Quando uno scriba commetteva un errore, questo veniva ripetuto se quel manoscritto diventava la base per ulteriori copie. Nel corso del tempo vennero prodotte molte copie, e quindi s’infiltrarono diversi errori umani. Ma le copie non furono prodotte tutte dalla copiatura di un solo manoscritto servito come base. Abbiamo anche manoscritti in cui quegli errori non ci sono. Ecco l’utilità della critica testuale.

   Non basta conoscere la lingua originale di quei manoscritti, ma occorre molta conoscenza in altri campi del sapere: storia, letteratura comparata, usi e costumi, modo di pensare; tutto ciò riferito alla civiltà che ha prodotto quei manoscritti.

   Nel corso dei secoli è stato necessario l’accurato e premuroso lavoro di molti devoti studiosi per permetterci oggi di avere la Bibbia in un pratico volume rilegato e stampato nella nostra lingua. Questo paziente lavoro è iniziato mettendo insieme tutti i frammenti degli antichi manoscritti ritrovati. Altri studiosi ancora hanno dovuto spiegare il significato di certi termini e tradurli.

   Le edizioni critiche più autorevoli dei testi nelle lingue originali, con le lezioni più attendibili (richiamando nel contempo le varianti che si riscontrano in certi manoscritti), sono: per le Scritture Ebraiche, quelle di Ginsburg e Kittel; per le Scritture Greche, quella di Westcott e Hort e quella di Nestle e Aland.

   Possiamo fidarci di questi studiosi? Sì. I manoscritti sono conservati nei musei e si possono vedere. I testi moderni che riproducono la Bibbia in ebraico e in greco sono fidati, assolutamente accurati e fedeli all’originale.

   Qualche dubbio sorge invece sulle traduzioni.

 

Le traduzioni della Bibbia

   Tra le prime traduzioni delle Sacre Scritture in altre lingue, oggi abbiamo manoscritti di versioni molto antiche, come la Settanta (traduzione delle Scritture Ebraiche in lingua greca, del 3° e 2° secolo a. E. V.) e la Vulgata (traduzione del testo ebraico e greco in latino, eseguita da Girolamo verso il 400 E. V.).

   Un detto dice: Tradurre è un po’ tradire. È una verità. Della Bibbia ci sono centinaia di traduzioni. Una migliore delle altre c’è? Si può ben dire che nessuna traduzione è la migliore in assoluto. Alcune traduzioni più libere possono essere imprecise ma comprensibili, quelle più letterali a volte non riescono a comunicare il pensiero così bene come altre. Eccone un piccolo esempio:

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   Leggendo la TNM il testo risulta del tutto incomprensibile, rasentando il macabro. Altro esempio:

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   Mentre la traduzione di TILC è del tutto comprensibile, quella di TNM fa sorgere delle domande: Uomo robusto? E se uno, poverino, è esile, non può rifugiarsi in Dio? Qui abbiamo un esempio del voler essere troppo letterali. La parola ebraica resa “uomo robusto” è גבר (ghèver), che significa “forte”. Applicato ad un essere umano non indica necessariamente un guerriero. Uno può essere forte in senso di maturità. Ma come intendevano il passo gli ebrei di quel tempo? Basta vedere come i dotti ebrei tradussero il termine nella traduzione greca della LXX: ἄνθρωπος (ànthropos), che non significa “uomo” (che in greco è ἀνήρ – anèr), ma “essere umano”, sia maschio che femmina. La traduzione corretta del passo è dunque: “Felice è la persona che in lui [Dio] si rifugia” (Dia). Questo include uomini e donne, robusti o gracili che siano.

   Non si tratta solo di tradurre parole, il che già a volte è difficile. Occorre tradurre anche le espressioni tipiche. Ci riferiamo al modo di pensare e di esprimersi dei tempi biblici. Qui essere letterali non si può. Il rischio è quello di mandare in confusione il lettore. Prendiamo il passo di Luca 7:11-17, in cui si narra di quando Yeshùa (Gesù) incontrò una processione funebre. Era morto il figlio unico di una vedova. Al v. 13 TNM traduce: “Quando il Signore la scorse fu mosso a pietà per lei”. E TILC: “Appena la vide, il Signore ne ebbe compassione”. Tutte e due le traduzioni rendono bene l’idea. E non si poteva tradurre diversamente. Ma il testo originale greco dice letteralmente: “Fu smosso negli intestini” (ἐσπλαγχνίσθη, esplanchnìsthe). Per il lettore occidentale l’espressione non è comprensibile, potrebbe anzi essere fraintesa. Occorre sapere però che nell’antropologia biblica gli intestini erano considerati la sede delle emozioni. L’ebreo che leggeva il passo capiva perfettamente quella espressione mediorientale. Noi dobbiamo tradurre due volte: non solo le parole ma anche il modo di esprimersi.

   E fin qui non ci sono grosse implicazioni. I problemi nascono quando il traduttore traduce avendo in mente i suoi pregiudizi religiosi. Citiamo anche qui un esempio.

   L’inizio del Vangelo di Giovanni recita secondo i cattolici: “In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio” (1:1, CEI). “Verbo” (dal latino verbum) significa “parola”. Il traduttore cattolico è trinitario, per cui è lieto di tradurre che il “Verbo era Dio”. Il traduttore protestante, anche lui trinitario, non ha problemi a tradurre nello stesso modo: “Nel principio era la Parola, la Parola era con Dio, e la Parola era Dio” (Ibidem, NR). I Testimoni di Geova, che la trinità la negano, traducono: “In principio era la Parola, e la Parola era con Dio, e la Parola era un dio” (Ibidem, TNM). C’è una bella differenza. La Parola o Verbo era Dio o era un dio? Sta di fatto che sia cattolici che protestanti che Testimoni di Geova identificano la Parola con “Gesù”. E ognuno tira l’acqua al suo mulino, perfino mettendo le maiuscole o le minuscole a certe parole.

   Che si deve fare, dunque? Che Bibbia scegliere? La risposta ovvia sarebbe: quella originale, in ebraico e greco. Ma non tutti conoscono queste lingue antiche. È giocoforza affidarsi ad una traduzione. La cosa migliore ci sembra quella di avere a disposizione diverse traduzioni della Bibbia. Si possono così paragonare i passi critici e, nel dubbio, avvalersi di traduzioni interlineari per approfondire il testo.