Saluti iniziali (1:1,2).

   “Paolo, apostolo di Cristo Gesù per volontà di Dio, ai santi che sono in Efeso e ai fedeli in Cristo Gesù. Grazia a voi e pace da Dio, nostro Padre, e dal Signore Gesù Cristo”. – 1:1,2.

   “Per volontà di Dio”: l’apostolato di Paolo è fatto risalire al volere di Dio, come spesso anche altrove negli scritti paolini. “Paolo, apostolo di Cristo Gesù per volontà di Dio” (2Cor 1:1), “Paolo, chiamato a essere apostolo di Cristo Gesù per volontà di Dio” (1Cor 1:1); cfr. altre aperture di lettere. Ciò ricorda la sua chiamata: “Egli è uno strumento che ho scelto per portare il mio nome davanti ai popoli, ai re, e ai figli d’Israele” (At 9:15), “Il vangelo, in vista del quale io sono stato costituito araldo, apostolo e dottore”. – 1Tm 1:10,11.

   “Ai santi”: la parola “santo” significa “appartato”, “separato”. Quindi la lettera è ricolta agli “appartatati” (= “santi”). Appartati per cosa? Per essere una comunità, un’ekklesìa (“chiesa”), l’“insieme dei chiamati da” (che è il significato di ekklesìa), la comunità di coloro che sono stati chiamati fuori dal mondo e congregati (ekklesìa = “chiesa” = “congregazione”). I “separati”, appunto; i “santi”.

   Nella Scrittura chi e cosa è definito “santo” o “appartato”?

  • I calici usati per i sacrifici e che non potevano più essere adoperati per usi profani, giacché “appartati” (“santi”, appunto) per quello scopo. Si rammenti la loro profanazione da parte di Belshatsàr, re della Babilonia: “Il re Baldassar fece un grande banchetto per mille dei suoi grandi e bevve vino in loro presenza. Mentre stava assaporando il vino, Baldassar ordinò che portassero i vasi d’oro e d’argento […]. Allora furono portati i vasi d’oro che erano stati presi nel tempio, nella casa di Dio, che era in Gerusalemme; il re, i suoi grandi, le sue mogli e le sue concubine li usarono per bere. – Dn 5:1-3.
  • Erano “santi” i leviti, che venivano “appartati” per il servizio divino al posto dei primogeniti maschi che prima erano riservati a Dio: “Ecco, tra i figli d’Israele io ho preso i Leviti al posto di ogni primogenito che nasce da donna israelita; i Leviti saranno miei”. – Nm 3:12.
  • I libri della Toràh (l’insegnamento di Dio, erroneamente chiamato Legge dalla versione greca dei LXX). “La legge è santa” (Rm 7:12; Paolo citava dalla LXX, dove il termine ebraico תֹורָה (toràh, “insegnamento”) fu tradotto in greco con νόμος (nòmos, “legge”); in ebraico, “legge” si dice דִין (din): “Quanti conoscevano la legge [דִין (din)] e il diritto”. – Est 1:13.
  • Erano “santi” i discepoli di Yeshùa, perché dovevano appartenere a Dio: “Non appartenete a voi stessi” (1Cor 6:19). Essi sono “un sacerdozio santo” (1Pt 2:5) che costituiscono “il tempio del Dio vivente” (2Cor 6:16). Come Israele era “una nazione santa” (Es 19:6), la congregazione dei discepoli di Yeshùa è “gente santa, un popolo che Dio si è acquistato”. – 1Pt 2:9.

   “In Efeso”: manca in molti codici, perciò la località è dubbia. Sbaglia NR (da cui abbiamo citato) a non mettere tra parentesi quadre. Dovrebbe essere: “[in Efeso]”. O il vuoto doveva essere riempito con il nome dei destinatari (se la lettera era circolare), oppure vi era in origine “in Laodicea”. Ne abbiamo già discusso nello studio concernente i destinatari.

   “Ai fedeli”: la parola “fedele” è nel greco πιστός (pistòs), dalla radice √πιθ (√pith) che significa “legame”. Il senso è quindi quello di persone che continuano a essere legate a Yeshùa: “Ai fedeli in Cristo Gesù” (1:1). Occorre perseverare nella fede, rimanere legati.

   “Grazia a voi e pace”: binomio molto frequente nelle lettere paoline. “Grazia a voi e pace” (Col 1:2). La pace che qui s’intende non è solo la mancanza di guerra. È piuttosto la pace interiore, il benessere spirituale che si può avere in ogni circostanza della vita. È la pace totale che include la gioia, la felicità, la serenità, l’armonia, la fuga dal peccato; che può sussistere anche nelle malattie, nelle prove, nelle persecuzioni. “Se siete insultati per il nome di Cristo, beati voi!” (1Pt 4:14). “Beati voi, quando vi insulteranno e vi perseguiteranno” (Mt 5:11). È la pace che godeva Paolo e che lo rallegrava pur essendo rinchiuso in prigione. Questo tipo di pace non è qualcosa che la persona può acquisire da solo. Si tratta di un dono di Dio: “Il frutto dello spirito è […] pace”. – Gal 5:22.

   Possiamo salutare anche noi come Paolo augurando “pace”? Lo fanno i pentecostali. Lo facevano e lo fanno tuttora gli ebrei, che salutano con uno שלום (shalòm): “pace!” (saluto tuttora usato nello stato di Israele). Potremmo farlo anche noi. Tale doveva essere il saluto dei discepoli: “Quando entrerete nella casa, salutate. Se quella casa ne è degna, venga la vostra pace su di essa; se invece non ne è degna, la vostra pace torni a voi” (Mt 10:12,13). A quel tempo (come ancora oggi fanno gli israeliani) ci si salutava con uno shalòm. Imitando Paolo, dovremmo farci simili a ogni persona: “Mi sono fatto ogni cosa a tutti, per salvarne ad ogni modo alcuni” (1Cor 9:22). Tra fedeli ci si potrebbe salutare con “grazia e pace!”, forma che ci farebbe avvicinare a pentecostali. Non per divenire pentecostali, ma per invogliarli ad ascoltare meglio la parola di Dio. Ognuno poi si comporti come crede, cercando però di essere sempre il “sale” che condisce e migliora il sapore delle cose. – Col 4:6.

   “Dal Signore Gesù Cristo”. Il testo greco ha:

ἀπὸ θεοῦ πατρὸς ἡμῶν καὶ κυρίου Ἰησοῦ Χριστοῦ

apò theù patròs emòn kài kürìu Iesù christù

da Dio padre nostro e [dal] signore Yeshùa consacrato

   Un traduttore sprovveduto potrebbe volgere in: ‘Da Dio nostro padre e Signore Gesù Cristo’, identificando così Dio e Yeshùa in un’unica persona, ma sarebbe una traduzione sbagliata. Si noti che nel testo greco non compaiono le preposizioni articolate “dal”. Nessun traduttore della Bibbia traduce così. Anche la cattolica CEI ha: “Da Dio, Padre nostro, e dal Signore Gesù Cristo”. Ma c’è un’altra traduzione possibile, anzi che riteniamo preferibile. Occorre rivedere bene il testo greco, questa volta facendo attenzione alla costruzione, letteralmente:

ἀπὸ θεοῦ πατρὸς ἡμῶν καὶ κυρίου Ἰησοῦ Χριστοῦ

apò theù patròs emòn kài kürìu Iesù christù

da Dio padre nostro e di signore Yeshùa consacrato

   Spieghiamo meglio a beneficio di chi, non conoscendo il greco, non ha notato la costruzione. La particella ἀπὸ (apò), “da” regge il genitivo (= “di”), perciò in greco abbiamo, letteralmente, “da di Dio” e in italiano traduciamo correttamente “da Dio”. “Padre” è retto sempre da quell’apò, quindi abbiamo letteralmente in greco “da di Dio di padre” (“Dio” e “padre” sono al genitivo, richiesto da apò), e in italiano traduciamo correttamente “da Dio padre”. Segue quindi l’aggettivo “nostro” (ἡμῶν, emòn), riferito a Dio. Fin qui abbiamo: “Da Dio padre nostro”. A questo punto Paolo aggiunge qualcuno, per cui mette la congiunzione “e” (καὶ, kài). Ora viene l’interessante: κυρίου (kürìu), “di signore”, al genitivo. Si potrebbe pensare che il genitivo “di” sia sempre retto da quell’iniziale apò (ἀπὸ). Ma se fosse invece un genitivo dipendente da πατρὸς (patròs)? In tal caso il senso sarebbe: “Da Dio padre di noi e del signore Yeshùa consacrato”. O, se si vuol dirla con le parole consuete: “Grazia a voi e pace da Dio, Padre nostro e del Signore Gesù Cristo”. Questa traduzione, possibilissima, appare più in armonia con il contesto, tanto è vero che poi (al v. 3) si riprende il concetto spiegando come Dio sia padre di Yeshùa: “Benedetto sia il Dio e Padre del nostro Signore Gesù Cristo”. La grazia e la pace hanno la loro sorgente in Dio e ci provengono da Yeshùa. Così anche in Rm 1:7. Altri traducono: “Da Dio nostro Padre e dal Signore Gesù Cristo” (TNM). Anche questa è una traduzione possibile. Ognuno scelga quella che preferisce. Noi propendiamo per quella che abbiamo esposta: “Da Dio padre nostro e del signore Yeshùa consacrato”.