Il ministero di Paolo tra i pagani (3:1-13).

   Riepiloghiamo:

  • In Colossesi. Lo stile di composizione di Col è lineare. Qui Paolo spiega con chiarezza come Dio abbia accolto i pagani nel suo popolo santo (1:21,22) e spiega con chiarezza la sua missione (1:24-29). È lui, Paolo, che è stato incaricato da Dio di portare a compimento la sua parola tra i pagani. – 1:25-27.

   La sua predicazione ai colossesi è lineare: “Purché, naturalmente, rimaniate nella fede, stabiliti sul fondamento e saldi e non essendo smossi dalla speranza” (1:23, TNM). La sua predicazione è decisa: “Fate attenzione: nessuno vi inganni con ragionamenti falsi e maliziosi. Sono frutto di una mentalità umana”. – 2:8, PdS.

  • In Efesini. Lo stile e la lingua stessa non sono buoni. La lettera è piena di anacoluti. È tutto un susseguirsi di frasi ricollegate le une alle altre. La punteggiatura è quello che è. Paolo era in prigione. Era stanco. Come in Col, Paolo spiega agli efesini come Dio abbia accolto i pagani, ma all’inizio (cap. 2) si limita a ricordare loro come prima fossero separati da Israele. Non parla del “mistero” di Dio. Inizia il cap. 3 e Paolo sta per dire quello che poi riprende all’inizio del cap. 4: “Vi supplico di camminare in modo degno della chiamata”. Ma gli viene in mente che non ha spiegato bene il “mistero” divino. S’interrompe e lo spiega, sottolineando che è lui l’affidatario di quel segreto. Ora, può far forza al suo accorato invito a perseverare nella fede.

   Riprendiamo ora il commento di Ef, dopo l’interruzione paolina (e la nostra).

   “Avete udito parlare della dispensazione della grazia di Dio affidatami” (3:2). Paolo ha ricevuto il compito di comunicare la grazia divina: “Affidatami”. “Dispensazione” è nel greco οἰκονομίαν (oikonomìan) – da cui il nostro “economia”. La parola greca indica “la gestione degli affari della famiglia; specificamente, la gestione o amministrazione della proprietà altrui; l’ufficio di un direttore o sorvegliante; l’amministrazione” (Vocabolario del Nuovo Testamento).  Buona, quindi, la traduzione “gestione” di TNM; ma molto brutto il risultato della frase: “Gestione dell’immeritata benignità di Dio”, quasi che la grazia di Dio venisse gestita alla ragioniera. Migliore PdS: “Penso che abbiate sentito parlare dell’incarico che Dio, nella sua bontà, mi ha affidato e che riguarda voi”. Comunque, l’affidamento di Dio a Paolo “della dispensazione della grazia” è a favore dei gentili: “Per voi”. – 3:2.

   “Per rivelazione mi è stato fatto conoscere il mistero” (3:3). Il “mistero” non ha qui il valore di cosa misteriosa, impenetrabile, come spesso nella teologia cattolica (si pensi alla Trinità; alla presunta presenza sostanziale di Yeshùa nell’eucaristia, cantata da Tommaso come il misterium fidei, mistero della fede, per eccellenza). Spiace dirlo, ma pare che certe dottrine cattoliche insostenibili biblicamente vengano sigillate con la parola “mistero”. La parola “mistero” (μυστήριον, müstèrion) nel linguaggio biblico designa l’economia divina che noi non possiamo conoscere per conto nostro, ma che deve essere svelata. Nella Scrittura, Dio dice di ciò che è nella sua mente: “’I miei pensieri non sono i vostri pensieri, né le vostre vie sono le mie vie’, dice il Signore. ‘Come i cieli sono alti al di sopra della terra, così sono le mie vie più alte delle vostre vie, e i miei pensieri più alti dei vostri pensieri’” (Is 55:8,9). Tuttavia, una volta che tale “mistero” è stato rivelato da Dio, allora lo possiamo conoscere. Il “mistero” di Dio è, quindi, una cosa nascosta, un segreto, una cosa ignota non ovvia alla comprensione, uno scopo o proposito ignoto, una volontà segreta di Dio, un suo proposito celato. Ma tale rimane solo finché Dio decide di rivelarlo. A quel punto lo possiamo capire, tant’è vero che Parlo parla della “comprensione del sacro segreto” che lui aveva. – V. 4, TNM.

   Questo mistero “ora, per mezzo dello Spirito, è stato rivelato ai santi apostoli e profeti di lui” (3:5). Più corretto tradurre “ai santi apostoli profeti”, senza congiunzione (vedere il commento, già fatto, a 2:20). Questo “mistero” consiste nel fatto che anche i pagani sono chiamati a salvezza: “Vale a dire che gli stranieri sono eredi con noi, membra con noi di un medesimo corpo e con noi partecipi della promessa”. – 3:6.

   Paolo moltiplica ora i termini per esaltare la gratuità della decisione divina:

  • “Il dono della grazia di Dio a me concessa”. – 3:7.
  • Senza avere merito alcuno: “A me, dico, che sono il minimo fra tutti i santi, è stata data questa grazia”. – 3:8.

   Tutto gli è dato per grazia divina in virtù della potenza dello spirito santo. È lo spirito di Dio, amministrato da Yeshùa, che distribuisce i suoi doni liberamente e che crea la classe degli apostoli (= inviati). “È lui che ha dato alcuni come apostoli” (4:11). Gli apostoli sono una categoria più estesa dei “dodici”. Tra gli apostoli era incluso Paolo, che non era dei Dodici. E vi era incluso anche Giacomo, che dei Dodici non era (Gal 1:19). E altri.

   I “santi” (3:8) sono qui probabilmente, come al v. 5, gli apostoli e non i credenti in generale (che pure sono detti santi). “Io sono il minimo degli apostoli, e non sono degno di essere chiamato apostolo”. – 1Cor 15:9.

   Il “mistero”, che era tale prima della sua rivelazione, era stato celato non solo agli uomini, ma anche agli esseri celesti: “Mistero che è stato fin dalle più remote età nascosto in Dio, il Creatore di tutte le cose” (3:9. Questi esseri celesti, loro pure ignari del piano segreto di Dio, sono “i principati e le potenze nei luoghi celesti” (3:10), che secondo la concezione ebraica erano adibiti alla tutela del creato. Forse si tratta anche qui (come altrove lo è di certo) di angeli ribelli che ignorando il piano divino hanno spinto gli uomini a uccidere Yeshùa: “La sapienza di Dio misteriosa e nascosta, che Dio aveva prima dei secoli predestinata a nostra gloria e che nessuno dei dominatori di questo mondo ha conosciuta; perché, se l’avessero conosciuta, non avrebbero crocifisso il Signore della gloria” (1Cor 2:7,8). Comunque, la conoscenza del mistero di Dio viene rivelata anche a loro, affinché “conoscano oggi, per mezzo della chiesa, la infinitamente varia sapienza di Dio”. – 3:10.

   Forse c’è qui una punta polemica contro gli angeli esaltati dai colossesi ma sottomessi e Yeshùa. In Col Paolo scrive: “In lui [Yeshùa] sono state create tutte le cose che sono nei cieli e sulla terra, le visibili e le invisibili: troni, signorie, principati, potenze” (1:16), “[Yeshùa] è il capo di ogni principato e di ogni potenza” (2:10), “[Yeshùa] ha spogliato i principati e le potenze, ne ha fatto un pubblico spettacolo, trionfando su di loro” (2:15). Le due lettere (Col ed Ef) sono, infatti, contemporanee.

   “Abbiamo la libertà di accostarci a Dio, con piena fiducia, mediante la fede in lui” (3:12). TNM traduce: “Abbiamo questa libertà di parola e accesso” (“questa” è aggiunto da TNM; nel greco non è presente). Il testo originale ha

ἔχομεν τὴν παρρησίαν καὶ προσαγωγὴν

èchomen ten parresìan kài prosagoghèn

abbiamo la parresia e prosagoghè

   La parola παρρησία (parresìa) significa non solo “libertà di parola”, ma anche “fiducia libera e senza paura, coraggio, baldanza” (Vocabolario del Nuovo Testamento). Did traduce: “Abbiamo la libertà e l’accesso”. Non si tratta quindi semplicemente di “libertà di parola” (TNM). Ma c’è di più: “παρρησία (parresìa) + ἐν [en] [significa]: apertamente, audacemente” (Ibidem). E nel nostro testo la preposizione ἐν (en), “in”, c’è:

ἔχομεν τὴν παρρησίαν καὶ προσαγωγὴν ἐν πεποιθήσει διὰ τῆς πίστεως αὐτοῦ

èchomen ten parresìan kài prosagoghèn en pepoithèsei dià tes pìsteos autù

abbiamo la parresìa e prosagoghè in fiducia per la fede di lui

   Nella frase di 3:12 la parresìa significa dunque “audacia”. In quanto alla parola προσαγωγή (prosagoghè), questa significa “accesso, approccio a Dio, cioè quel rapporto con Dio in cui siamo accettabili a lui ed abbiamo fiducia che è favorevolmente disposto verso noi” (Ibidem). Si noti poi che le due parole nel greco sono rette da un solo articolo determinativo: τὴν παρρησίαν καὶ προσαγωγὴν (ten parresìan kài prosagoghèn). E sono anche separate da καὶ (kài) che generalmente significa “e” (congiunzione), ma che può assumere altri significati: “E, anche, addirittura, davvero, ma” (Ibidem). Il versetto potrebbe perciò essere tradotto:

“Nel quale [Yeshùa] abbiamo addirittura l’audacia di un fiducioso accesso [a Dio], per la fede in lui”. – 3:12, Dia.

   L’ardire di accostarci a Dio nel sommo dei cieli proviene dalla fede in Yeshùa; lui è, infatti, il nostro unico mediatore. – 1Tm 2:5.

   Le tribolazioni dell’apostolo non devono scoraggiare gli efesini. Esse dovrebbero anzi essere viste da parte loro come una “gloria”, giacché sono sopportare proprio per annunciare la salvezza ai pagani. “Vi chiedo quindi di non scoraggiarvi a motivo delle tribolazioni che io soffro per voi, poiché esse sono la vostra gloria” (3:13). Le tribolazioni sono ricordate con orgoglio come segno di gloria, non di debolezza. “Sono lieto di soffrire per voi”, “Desidero infatti che sappiate quale arduo combattimento sostengo per voi”. – Col 1:24;2:1.