Mariti e mogli (5:21-32).

   Il versetto 21 è di solito abbinato alla sezione precedente. Si veda, ad esempio, la suddivisione fatta da NR:

Efesini 5:20 ringraziando continuamente per ogni cosa Dio Padre, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo;Efesini 5:21 sottomettendovi gli uni agli altri nel timore di Cristo.

 

Mogli e mariti

Cl 3:18-19; 1P 3:1-7; Ge 2:21-24

Efesini 5:22 Mogli, siate sottomesse ai vostri mariti, come al Signore;

   Tuttavia, è meglio staccare il v. 21 per rendere l’italiano più comprensibile. La frase di 5:21 è, infatti, la norma generale che riguarda tutti i suggerimenti pratici successivi. La dimostrazione sta nel fatto che il v. 22 manca del verbo ed è sorretto dal precedente verbo del v. 21. Le seguenti traduzioni di 5:22 non sono conformi all’originale greco:

Traduzione di Ef 5:22

Versione

“Mogli, siate sottomesse* ai vostri mariti”

NR

“Le mogli siano sottomesse* ai mariti”

CEI

“Le mogli siano sottomesse* ai loro mariti”

TNM

“Mogli, siate soggette* a’ vostri mariti”

Did

“Mogli, siate sottomesse* ai vostri mariti”

ND

* Manca nel testo greco

Vediamo il vero testo:

Testo originale greco di Ef 5:22

Αἱ γυναῖκες τοῖς ἰδίοις ἀνδράσιν

Ai günàikes tòis idìois andràsin

Le mogli ai propri mariti

   Come si vede, manca il verbo principale. E le suddette traduzioni non si prendono neppure il disturbo di mettere “siate sottomesse” o equivalenti tra parentesi quadre per indicare che il verbo è stato aggiunto.

   La frase come si regge, allora? Dov’è il verbo? È al v. 21: “Sottomettendovi gli uni agli altri nel timore di Cristo”. Per la precisione, il greco ha (al v. 21) ὑποτασσόμενοι (üpotassòmenoi): “Stando sottomessi”. La corretta traduzione dei vv. 21,22 è quindi:

21 Stando sottomessi gli uni gli altri nel timore di cristo, 22 le mogli ai propri mariti […]”.

   Il v. 21 appartiene dunque a questa sezione e non alla precedente (come evidenziato citando NR). Sotto quest’aspetto impagina bene TNM, anche se aggiunge “siano sottomesse” senza neppure porre tra quadre:

20 rendendo sempre grazie per tutte le cose al nostro Dio e Padre nel nome del nostro Signore Gesù Cristo.     21 Siate sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo. 22 Le mogli siano sottomesse ai loro mariti come al Signore

   Stabilita l’appartenenza del verso 21 alla giusta sezione, vediamo il senso delle parole di Paolo.

   Paolo afferma che le mogli devono stare sottomesse al marito (v. 22) perché il marito “è capo della moglie” (v. 23). Paolo maschilista? Ma no. Maschilista era la società di allora. Paolo non cambia con contestazioni rivoluzionarie la situazione sociale in cui viveva. Parla quindi di “sottomissione” della moglie e di “capo” riferito al marito, perché tale era la situazione giuridica a quel tempo.

   Paolo però – lo si noti – usa la parola “capo”. Sebbene questo possa far sobbalzare le donne moderne, occorre capire bene l’uso dei termini. Questi non devono essere letti con la mentalità occidentale contemporanea. Così fa il libro americano Perspicacia nello studio delle Scritture: “La moglie manifesta giustamente sano timore [sic] o profondo rispetto per il marito, capo della famiglia” (Vol. 2, pag. 776, 1° § al sottotitolo “Nella famiglia”). In quest’ottica è il marito che decide, punto e basta: “Tuttavia una buona moglie è più che solo sottomessa. Cerca di essere un vero aiuto, sostenendo il marito nelle decisioni che prende. Certo questo le riesce più facile quando è d’accordo con le sue decisioni. Ma anche se non lo è, il suo sostegno concreto può contribuire alla riuscita della decisione del marito” (Il segreto della felicità familiare, cap. 3. pag. 33, § 17; il corsivo è aggiunto). Se si prende la parola “capo” in questo senso, si rischia di arrivare all’equazione (tutta occidentale) capo = padrone. E, infatti, il passo è breve: “La Bibbia a volte dice che la moglie ‘appartiene’ al marito, non lasciando dubbi che egli sia il suo capo. (Genesi 20:3)” (Ibidem, cap. 16, pag. 185, §7). È davvero il caso di chiarire bene.

   Nel mondo antico, e anche in Israele, la donna era considerata una proprietà. Era la mentalità umana del tempo, non certo il pensiero di Dio. D’altra parte, si trattava della conseguenza del peccato dei capostipiti dell’umanità: “Alla donna [Dio] disse: ‘[…] I tuoi desideri si volgeranno verso tuo marito ed egli dominerà su di te” (Gn 3:16). Prima del peccato non era così, ma la conseguenza della disubbidienza fu quella. Da allora fa parte della natura umana che l’uomo sia maschilista e domini la donna. La società era dunque maschilista, e non per progetto originale di Dio. Quando il citato libro Il segreto della felicità familiare dichiara che “La Bibbia a volte dice che la moglie ‘appartiene’ al marito” (Ibidem), dichiara una mezza verità (che è poi una mezza falsità). Il libro cita a suo sostegno Gn 30:3: “Dio venne da Abimelec in sogno, di notte, e gli disse: ‘Ecco, tu sei come morto a causa della donna che hai preso, poiché appartiene come moglie a un altro proprietario’” (TNM). Non si deve mai dimenticare, mai, – se davvero si vuole comprendere la Bibbia – che il linguaggio usato è quello umano semitico del tempo. Come avrebbe dovuto esprimersi Dio con Abimelec? Avrebbe dovuto esprimersi con gli esatti termini che noi oggi definiremmo filosofici e teologici? Abimelec aveva compiuto un peccato: Dio lo riprende con il linguaggio che lui era in grado di capire: il suo, quello di Abimelec. Non è quindi né Dio né la Bibbia che “a volte dice che la moglie ‘appartiene’ al marito” (Ibidem). Non è il pensiero di Dio. È solo il linguaggio che gli uomini potevano capire nella loro realtà umana e sociale.

   Ritornando all’uso dei termini, nell’antica Israele il marito era chiamato “padrone” della moglie. E lo ripetiamo: era la mentalità maschilista del tempo, non il pensiero di Dio. Il “se aveva moglie” di Es 21:3 è un bell’addolcimento del traduttore. In TNM già si ha: “Se è proprietario di una moglie”. Ma l’ebraico è più crudo: אִמ־בַּעַל אִשָּׁה  (im-baàl ishàh): “Se è padrone di una moglie”. Il marito era quindi considerato il baàl (בַּעַל), il “padrone” della moglie. Così la moglie era considerata “una donna che appartiene a un proprietario [nell’ebraico: “padrone”, בַּעַל (baàl)]”. – Dt 22:22, TNM.

   Ebbene, Paolo – nel passo di Ef che stiamo considerando – non usa la parola “padrone”, che era comune presso gli ebrei. Usa la parola “capo”: “Capo della moglie” (5:23). E non si faccia qui l’errore di concludere, all’occidentale, che l’equazione sarebbe capo = padrone, come visto più sopra. C’è differenza? Eccome! Proviamo con una frase italiana: Il suo capo gli fece una lavata di capo. “Capo” ha qui lo stesso significato tutte e due le volte? No davvero. E ora facciamo la scoperta nel testo greco della Bibbia:

Passo

TNM

Greco

Significato

Lc 18:18

“Un capo lo interrogò, dicendo […]”

ἄρχων

àrchon

Un superiore

Ef 5:23

“Il marito è capo della moglie”

κεφαλὴ

kefalè

Testa

   E non sia faccia di nuovo l’errore di leggere all’occidentale, intendendo con “testa” la mente. “Il marito è capo della moglie come anche il Cristo è capo della congregazione” (5:23, TNM). Già. Ma Paolo dice: “Il marito è testa [κεφαλὴ (kefalè)] della moglie come anche il cristo è testa [κεφαλὴ (kefalè)]  della congregazione”. Il marito non è il cervello o la mente della moglie (che ne ha spesso più del marito)! Nel paragone, Yeshùa è la testa del suo stesso corpo, la congregazione. Il pensiero diventa allora chiaro:

“In questo modo i mariti devono amare le loro mogli come i propri corpi. Chi ama sua moglie ama se stesso, poiché nessun uomo odiò mai la propria carne, ma la nutre e ne ha tenera cura, come anche il Cristo fa con la congregazione, perché siamo membra del suo corpo”. – Vv. 28-30, TNM.

   Nella concezione arcaica del marito-padrone Paolo immette la concezione nuova dell’amore: “Mariti, amate le vostre mogli” (v. 25).  E non solo. V’immette anche la visione di Yeshùa. Il marito non va servito, riverito e ubbidito come un baàl, un padrone. Non va neppure ubbidito per se stesso, come se fosse il Signore. Se la moglie deve essere sottomessa – secondo la giurisdizione allora in vigore -, non agisca per l’uomo in sé (che talora può essere incapace o inferiore al suo compito), ma per Yeshùa. La moglie, nella nuova visuale di Paolo, si sottomette non a un uomo, ma a Yeshùa stesso. Cosa, del resto, richiesta anche all’uomo stesso, che deve essere sottomesso a Yeshùa. La moglie, dice Paolo, deve rispecchiare nella sua condotta la sottomissione della congregazione a Yeshùa.

   E anche qui c’è molto da dire. Il verbo tradotto “sottomessa” ha nel greco ben altro significato: “Le mogli siano sottomesse ai loro mariti” (5:22, TNM), dice la traduzione. Come abbiamo visto, “siano sottomesse” manca nel greco. La frase dipende quindi da quella precedente: “Siate sottomessi gli uni agli altri” (v. 21, TNM). Tuttavia, il greco non dice proprio “sottomessi”. Dice: “ὑποτασσόμενοι [üpotassòmenoi] gli uni agli altri”.

   Le sorprese non finiscono. Il verbo ὑποτάσσω (hüpotàsso), numero Strong 5293, era “un termine militare greco con significato di ‘sistemare (le truppe) in una maniera militare sotto il comando di un comandante’. In uso non militare era un atteggiamento volontario di cedere, cooperare, prendere responsabilità, e portare un carico” (Vocabolario del Nuovo Testamento). Quest’ultimo senso lo troviamo in 1Cor 16:15,16: “Ora, fratelli, voi conoscete la famiglia di Stefana, sapete che è la primizia dell’Acaia, e che si è dedicata al servizio dei fratelli; vi esorto a sottomettervi [ὑποτάσσησθε (hüpotàssesthe); ‘lasciatevi guidare’ (PdS)] anche voi a tali persone, e a chiunque lavora e fatica nell’opera comune”; si tratta di collaborare.

   Il senso vero della sottomissione della moglie è dunque quello di disporsi verso il marito che rappresenta Yeshùa. E questo è naturale, giacché Yeshùa è il salvatore del corpo, ossia della congregazione. “Il capo di ogni uomo è Cristo, che il capo della donna è l’uomo, e che il capo di Cristo è Dio” (1Cor 11:3). Anche qui, “capo” è κεφαλὴ (kefalè), “testa”.

   L’amore del marito deve ricoprire quello di Yeshùa verso la congregazione per la quale egli ha dato se stesso: “Mariti, amate le vostre mogli, come anche Cristo ha amato la chiesa e ha dato sé stesso per lei” (5:25). Deve essere quindi un amore pronto a sacrificarsi per la propria sposa.

   Prendendo lo spunto dal bagno con cui la sposa ebrea si preparava per il suo sposo prima delle nozze, Paolo afferma che Yeshùa stesso ha purificato la sua sposa con la sua morte: “Cristo ha amato la chiesa e ha dato sé stesso per lei, per santificarla dopo averla purificata lavandola con l’acqua della parola, per farla comparire davanti a sé, gloriosa, senza macchia” (vv. 25-27). “Lavandola con l’acqua” non è una buona traduzione. Il greco ha “col bagno dell’acqua” (TNM). Il “bagno dell’acqua” si riferisce evidentemente al battesimo, ma esso è congiunto con la parola: τῷ λουτρῷ τοῦ ὕδατος ἐν ῥήματι (to lutrò tu ΰdratos en rèmati), “con il bagno dell’acqua ne[lla] parola” (v. 26). È un’allusione alla predicazione che deve precedere il battesimo: “Chi avrà creduto e sarà stato battezzato sarà salvato” (Mr 16:16); è un’allusione anche alla dichiarazione che deve precedere il battesimo: “L’eunuco [che stava per essere battezzato] rispose: ’Io credo che Gesù Cristo è il Figlio di Dio’” (At 8:37). È proprio la “parola” che dà valore spirituale al “bagno” (λουτρόν, lutròn), che altrimenti sarebbe solo un bagno. Non si deve qui pensare alla materia ovvero l’acqua, e alla formalità del battesimo (come fanno i cattolici), ma piuttosto al fatto che l’immersione deve essere accompagnata da parole che esprimono la fede del battezzando.

   Effetto del “bagno dell’acqua” è la purificazione della sua congregazione, affinché essa non abbia più “macchia né ruga, senza difetti, ma santa e immacolata” (v. 27, PdS). Ciò si verificherà però in modo completo e totale solo alla fine, quando la sposa si presenterà del tutto spendente e pura alle nozze dell’agnello:

“Udii come la voce di una gran folla e come il fragore di grandi acque e come il rombo di forti tuoni, che diceva: ‘Alleluia! Perché il Signore, nostro Dio, l’Onnipotente, ha stabilito il suo regno. Rallegriamoci ed esultiamo e diamo a lui la gloria, perché sono giunte le nozze dell’Agnello e la sua sposa si è preparata. Le è stato dato di vestirsi di lino fino, risplendente e puro; poiché il lino fino sono le opere giuste dei santi’”. – Ap 19:6-8.

   In 5:28-31 si incrociano due idee:

  1. La moglie forma un tutt’uno col marito.
  2. La congregazione è un tutto unico con il suo capo, Yeshùa.

   “Allo stesso modo anche i mariti devono amare le loro mogli, come la loro propria persona. Chi ama sua moglie ama sé stesso. Infatti nessuno odia la propria persona, anzi la nutre e la cura teneramente, come anche Cristo fa per la chiesa, poiché siamo membra del suo corpo. ‘Perciò l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diverranno una carne sola’”. – Vv. 28-31.

   Il primo pensiero è sorretto da una citazione tratta da Gn 2:24 dove si legge che l’uomo abbandonerà tutto per … meglio vederlo nel greco, perché il “si unirà” (v. 31) di TNM e di NR non rendono l’idea. Il greco dice προσκολληθήσεται (proskollethèsetai), composto di κολλάομαι (kollàomai) – da cui deriva il nostro “colla” –; quindi il significato è: “S’incollerà” ovvero … “per incollarsi alla propria moglie”.

   Il secondo pensiero poggia su quanto è stato affermato prima, vale a dire che i credenti sono membra del corpo di Yeshùa.

   Il passo di 5:32 è il passo fondamentale usato dai cattolici per affermare il sacramento del matrimonio: “Questo mistero è grande; dico questo riguardo a Cristo e alla chiesa”. Anzitutto va notato che la versione latina anziché “mistero” ha il vocabolo “sacramento”: “Sacramentum hoc magnum est” (Ef 5:22, Vulgata). Ma non si corra troppo: “sacramento” significava all’inizio “mistero”. Passò poi a indicare il rito sacramentale cattolico. Questo termine influì sulla valutazione del matrimonio come “sacramento”.

   Il termine “mistero” a cosa si riferisce? Al matrimonio o al vincolo tra Yeshùa e la congregazione, i cui due concetti sono intrecciati precedentemente? Ce lo spiega lo stesso Paolo con la clausola aggiuntiva: “Dico questo riguardo a Cristo e alla chiesa”. È questo il mistero, di cui già si è parlato al cap. 3 di Ef. Qui Paolo non intende parlare del matrimonio, ma dei vincoli tra Yeshùa e la congregazione che non si sarebbero mai potuti comprendere se non ce lo avesse comunicato lui stesso per rivelazione.

   Mentre la Bibbia parte da Yeshùa e dalla congregazione per scendere al matrimonio, la Chiesa Cattolica parte dal matrimonio per assurgere al rapporto Cristo-chiesa. In più, mentre i cattolici per quasi mille anni videro questo tipo d’immagine nell’intera vita matrimoniale, nel Medioevo tale immagine fu ristretta alle nozze (ovvero all’atto costitutivo del matrimonio come sacramento del matrimonio; così Tommaso d’Aquino (in Sum. Theol. Suppl. q. 42,1). Ora la teologia cattolica sta cercando di tornare al valore precedente più completo, quello esteso a tutta la vita matrimoniale. Su questo soggetto vedere l’Excursus 2, intitolato Il matrimonio è un sacramento?, alla fine dell’esegesi di Ef.

   Occorre tornare al pensiero primitivo e dare al matrimonio il suo senso non sacramentale, perché non si tratta di qualcosa simile a una fotocopia che ci fa ricordare il Cristo e la chiesa, ma di una vita che deve rispecchiare in sé (con l’aiuto di Dio) i sentimenti che sono scambiati tra Yeshùa e la congregazione.