L’ultimo libro della Bibbia, l’Apocalisse, è ritenuto un libro molto difficile da interpretare. All’inizio di questo corso abbiamo mostrato con alcune citazioni come spesso la fantasia degli interpreti voli per conto suo e molto lontano dalla Scrittura. Seguendo una corretta ermeneutica non è poi così difficile muoversi all’interno di questo libro. Per interpretarlo correttamente occorre conoscere il genere apocalittico, le circostanze storiche del tempo di Giovanni e, ovviamente, il Tanàch, la Bibbia ebraica, da cui Giovanni attinge moltissime delle sue immagini.

   Il problema principale non sta quindi nella sua interpretazione. Il quesito che probabilmente assilla di più i credenti è la domanda: Quando? Quando si avverano le cose predette? Il Regno di Dio non è ancora presente, e questo è un fatto. Ne consegue che l’adempimento delle meravigliose promesse divine sono ancora future. Gli interpreti di Ap immancabilmente rimandano tutto al tempo della fine, ritenuto imminente da ogni generazione. Tuttavia, a distanza di ben due millenni dal tempo di Giovanni, occorre saper dare un senso credibile a espressioni come queste:

  •   “Rivelazione di Gesù Cristo, che Dio gli diede per mostrare ai suoi servi le cose che devono avvenire tra breve”. – Ap 1:1.
  •   “Queste parole sono fedeli e veritiere; e il Signore, il Dio degli spiriti dei profeti, ha mandato il suo angelo per mostrare ai suoi servi ciò che deve accadere tra poco”. – Ap 22:6.

   Si può anche argomentare che in Ap 1:1 il testo originale ha ἐν τάχει (en tàchei), che sarebbe meglio tradurre “in rapidità”, e quindi sostenere che tutto accade velocemente da quando inizia l’adempimento, tuttavia ciò che Giovanni descrive era già in atto al suo tempo, quindi già iniziato. In più, tutto il libro è caratterizzato da un’imminenza pressante. Rimane pertanto il fatto che dopo quasi due millenni attendiamo ancora di vedere realizzate quelle cose che Giovanni assicurò dover avvenire presto, molto presto.

   Per le ragioni suddette non sono mancati lungo la storia coloro che misero in discussione la canonicità di Ap, respingendo questo meraviglioso libro come non ispirato e non riconoscendone il carattere di vera profezia. L’Apocalisse è però – e rimane – parte integrante della Sacra Scrittura; rientra a pieno diritto nel canone.

   Occorre affrontare quindi la domanda: l’Apocalisse è vera profezia? Mentre la domanda è lecita, non è lecito che a rispondere siano i singoli o singoli gruppi di cosiddetti credenti. Questo libro è già stato fin troppo abusato e mal interpretato per consentire che vengano fatte nuove valutazioni fasulle. Tanto per citare un’opinione, il celebre teologo Rudolf Bultmann, respingendo l’Apocalisse, la definì “giudaismo blandamente cristianizzato”. – R. Bultmann, Teologia del Nuovo Testamento, Brescia, 1985, pag. 497.

   Indubbiamente Ap è una testimonianza di ciò che i discepoli della chiesa primitiva credevano. Va comunque ricordato – e non va mai dimenticato – che il termine “profezia” non ha nella Scrittura il valore che gli viene dato nell’opinione popolare. Il vocabolo greco προφήτης (profètes) indica etimologicamente qualcuno che parla in pubblico, derivando da προ (“prima/davanti”) e dal verbo φημί (femì, “dire/dichiarare”). Non implica necessariamente la previsione del futuro, come i semplici credono. In Tito 1:12 Paolo cita il poeta cretese Epimenide, del 6° secolo a. E. V., e scrive: “Uno dei loro, proprio un loro profeta [προφήτης (profètes)], disse: «I Cretesi sono sempre bugiardi, male bestie, ventri pigri»”. Epimenide non predisse proprio nulla, ma fece una dichiarazione, e quindi Paolo può definirlo “profeta” nel vero senso della parola. Quel poeta cretese non era ispirato da Dio, ma con la sua dichiarazione agì da profeta ovvero come una persona che “dichiara davanti” a un pubblico. La stessa considerazione vale per la parola ebraica per “profeta”, che è נָבִיא (navìy). In Gdc 6:7-10 è detto che quando gli israeliti lo invocarono, “il Signore mandò ai figli d’Israele un profeta [נָבִיא (navìy)]”; costui non predisse nulla ma fece una dichiarazione e “disse loro: «Così dice il Signore, il Dio d’Israele: ‘Io vi feci salire dall’Egitto e vi feci uscire dalla casa di schiavitù; vi liberai dalla mano degli Egiziani e dalla mano di tutti quelli che vi opprimevano; li scacciai davanti a voi, vi diedi il loro paese e vi dissi: Io sono il Signore, il vostro Dio; non adorate gli dèi degli Amorei nel paese dei quali abitate; ma voi non avete ascoltato la mia voce’»”.

   L’Ap è quindi vera profezia, ispirata da Dio. Come tutte le profezie bibliche in generale, essa – quale profezia – comprende tre elementi:

  1. Il discernimento della situazione attuale alla luce del disegno divino. L’Ap svela alla chiesa e al mondo intero la verità su come stanno davvero le cose, facendo vedere come appaiono osservate dalla prospettiva di Dio, che è l’unico vero punto di vista.
  2. La predizione ovvero non solo la visione della vera realtà attuale ma anche come la situazione debba necessariamente evolvere. È Dio che guida la storia, per cui tutto deve essere allineato al suo volere. Ecco perché a Giovanni vengono mostrate non solo le cose “che sono” ma anche “quelle che devono avvenire in seguito” (Ap 1:19; cfr. 1:1;4:1). Più che predizione popolarmente intesa, alla Nostradamus, si tratta del mostrare la relazione che intercorre tra la situazione del momento e il disegno definitivo di Dio. Si tratta della cose “che devono avvenire”, perché Dio è Dio e tutto ciò che si propone si deve realizzare.  “Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza aver annaffiato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare … così è della mia parola, uscita dalla mia bocca: essa non torna a me a vuoto, senza aver compiuto ciò che io voglio”. – Is 55:10,11.
  3. L’esigenza di una risposta. La profezia non è dichiarazione divina fine a se stessa; essa esige una risposta. La nostra risposta deve essere adeguatamente corrispondente al discernimento della realtà del mondo attuale nella prospettiva di Dio e alla predizione del suo disegno benevolo. Il piano di Dio si realizza comunque e Dio lo annuncia “poiché il Signore, Dio, non fa nulla senza rivelare il suo segreto ai suoi servi, i profeti” (Am 3:7). A noi tocca di dare una risposta.

   Questo terzo elemento della profezia mostra che in essa non c’è alcunché di fatalistico. Piuttosto, l’annuncio ci interpella e sta a noi la scelta di conformarci al piano di Dio, ubbidendo, oppure di respingerlo. Come in Giona, le cose possono cambiare; Ninive deve essere distrutta, ma di fronte alla conversione sarà risparmiata. Così anche per Sodoma: “«Forse, a quei cinquanta giusti ne mancheranno cinque; distruggerai tutta la città per cinque di meno?» E il Signore: «Se ve ne trovo quarantacinque, non la distruggerò»”. – Gn 18:28.

   In verità, Ap non predice una serie di eventi come se si trattasse di storia già scritta in anticipo. Questa chiave di lettura è proprio quella che induce a tanti errori interpretativi spingendo i vari interpreti a ricercare nella storia ciò che secondo loro sarebbe un adempimento, arrivando a volte a delle vere e proprie americanate. La verità è che Ap parla del grande conflitto tra la chiesa e il mondo, e tale conflitto accade tra il tempo presente e il ritorno di Yeshùa. In questo periodo le potenze del male fanno di tutto per sopprimere la chiesa. L’appello accorato alla chiesa perché si mantenga fedele e ubbidiente, questo sì, è urgente.

   Va rimarcato anche che le profezie bibliche non si rivolgevano unicamente ai contemporanei dei profeti ma andavano oltre coinvolgendo i lettori futuri. Dice Paolo: “Tutto ciò che fu scritto nel passato, fu scritto per nostra istruzione, affinché mediante la pazienza e la consolazione che ci provengono dalle Scritture, conserviamo la speranza” (Rm 15:4). Coloro che, con molta fantasia e a volte tramite americanate, trovano in certi eventi storici i presunti adempimenti delle profezie, fraintendono e trascurano del tutto l’attualità permanente della profezia biblica.

    Chiarito ciò, non è una contraddizione domandarsi prima di tutto che valore avesse la rivelazione giovannea per i suoi contemporanei. In verità, l’Apocalisse era rivolta soprattutto a loro. Anzi, per essere precisi, unicamente a loro: “Alle sette chiese che sono in Asia” (Ap 1:4). Questo fatto non deve però impedirci di prenderla in considerazione. Tutt’altro, perché essa va al di là del suo pubblico originario e ci parla ancora oggi. Giovanni si rivolge “a chiunque ode le parole della profezia di questo libro”. – Ap 22:18.

   Nella visione apocalittica di Giovanni la venuta del Regno universale di Dio accade subito, nell’immediato futuro che è quasi già presente per i primi lettori del libro. Già questo fatto non ci autorizza a pensare che Giovanni facesse previsioni per il ventesimo o ventunesimo secolo. Eppure, le immagini che Giovanni usa trovano sì riscontro al suo tempo, ma fino a un certo punto. Vero è che, ad esempio, la gran puttana Babilonia è adagiata su sette colli come Roma (17:9), vero è che l’elenco delle merci delle sue compravendite è molto realistico e si rifà a quanto Roma importava da tutte le parti del mondo (18:11-13), tuttavia sono descrizioni che calzano a pennello per molte nazioni, anche di oggi, che prosperano a spese di nazioni più deboli.

Imminenza e ritardo

   Leggendo le Scritture Greche si avverte l’attesa imminente del ritorno di Yeshùa e dell’avvento del Regno di Dio. Molti nella prima chiesa attendavano la realizzazione delle promesse nella loro stessa generazione, tanto che Paolo dovette intervenire per correggere questa idea errata:

“Ora, fratelli, circa la venuta del Signore nostro Gesù Cristo e il nostro incontro con lui, vi preghiamo di non lasciarvi così presto sconvolgere la mente, né turbare sia da pretese ispirazioni, sia da discorsi, sia da qualche lettera data come nostra …  Nessuno vi inganni in alcun modo; poiché quel giorno non verrà se prima non sia venuta l’apostasia”. – 2Ts 2:1-3.

   Comunque, in Ap Yeshùa stesso promette, per ben tre volte, al termine della rivelazione:

       “Ecco, sto per venire”. – Ap 22:7.

       “Ecco, sto per venire”. – Ap 22:12.

       “Sì, vengo presto!”. – Ap 22:20.

   Già in Ap 2:16 Yeshùa aveva diffidato la chiesa di Pergamo con queste parole: “Ravvediti dunque, altrimenti fra poco verrò da te”. In Ap 3:11 Yeshùa aveva garantito alla comunità di Filadelfia: “Io vengo presto”.

   Queste espressioni che indicano l’imminenza possono essere intese come riferire all’inizio degli eventi? Certo così accadde, tuttavia questa spiegazione non è sufficiente perché anche il ritorno di Yeshùa avrebbe allora dovuto verificarsi quasi subito. Ma da allora sono passati due millenni e Yeshùa non è ancora tornato. Questa è la ragione per cui molti ritengono non degna di fede non solo l’Apocalisse ma anche il resto delle Scritture Greche.

   Dobbiamo quindi considerare sia il ritardo escatologico sia l’imminenza. Come si pone Ap di fronte a questa duplice questione? Aspetto interessante e per certi versi sorprendente, tra l’imminenza e il ritardo, il libro apocalittico dà più risalto al ritardo.

   È il ritardo escatologico che spicca nella struttura del libro:

 

Fino a quando aspetterai, o Signore santo e veritiero … ?

Ap 6:10

“Fu loro detto che si riposassero ancora un po’ di tempo,

finché fosse completo il numero dei loro compagni di servizio e dei loro fratelli”

Ap 6:11

 

   Leggendo questa domanda carica di ansiosa attesa e poi la risposta divina, il lettore di oggi come quello di allora diventa consapevole della grande tensione che c’è tra il ritardo e l’imminenza. Nell’attesa del tanto sospirato culmine si potrebbe provare scoraggiamento nel constatare che tutto procede lentamente.

   Riviviamo ciò che accade fra l’apertura del sesto sigillo e quella del settimo:

“Dopo questo [l’apertura del sesto sigillo], vidi quattro angeli che stavano in piedi ai quattro angoli della terra, e trattenevano i quattro venti della terra perché non soffiassero sulla terra, né sopra il mare, né sugli alberi”. – Ap 7:1.

   Lo stesso lungo intervallo accade fra lo squillo della sesta tromba e quello della settima (Ap 10:1-11:14). Questo lungo intervallo che rallenta tutto ha una ragione per precisa, già spiegata in Ap 6:11.

“È una visione per un tempo già fissato;

essa si affretta verso il suo termine e non mentirà;

se tarda, aspettala;

poiché certamente verrà; e non tarderà”.

Ab 2:3.

   L’apostolo Pietro spiega: “Ma voi, carissimi, non dimenticate quest’unica cosa: per il Signore un giorno è come mille anni, e mille anni sono come un giorno. Il Signore non ritarda l’adempimento della sua promessa, come pretendono alcuni; ma è paziente verso di voi, non volendo che qualcuno perisca, ma che tutti giungano al ravvedimento. Il giorno del Signore verrà come un ladro”. – 2Pt 3:8-10.

   Una cosa è certa: Dio non protrae all’infinito il suo giudizio; nel contempo egli è paziente e benevolo perche non vuole “che qualcuno perisca, ma che tutti giungano al ravvedimento”.

   “Ancora un po’ e l’empio scomparirà” (Sl 37:10). “Va’, o mio popolo, entra nelle tue camere, chiudi le tue porte, dietro a te; nasconditi per un istante, finché sia passata l’indignazione” (Is 26:20). “Ancora un brevissimo tempo e colui che deve venire verrà e non tarderà” (Eb 10:37).  “Un po’”, “un istante”, “brevissimo tempo”: queste espressioni bibliche rassicurano il popolo di Dio e gli assicurano che il periodo di trova non è infinito e che il limite stabilito da Dio verrà con tutta certezza.

   La stessa promessa di Yeshùa – “Sì, vengo presto!” – dà questa certezza e, nel contempo, rimuove la possibilità di calcoli cronologici. È in questa trappola del conteggio del tempo che cadono coloro che pretendono di saperne più degli angeli e dello stesso Yeshùa, e contro i quali il Messia fu categorico: “Non spetta a voi di sapere i tempi o i momenti che il Padre ha riservato alla propria autorità” (At 1:7), “Quanto a quel giorno e a quell’ora, nessuno li sa, neppure gli angeli del cielo, neppure il Figlio, ma solo il Padre” (Mr 13:32). Invece di far calcoli che non ci spettano e invece annunciare false profezie che ingannano le persone, deludendo ogni volta, facciamo meglio ad attenerci alla raccomandazione di Yeshùa: “State in guardia, vegliate, poiché non sapete quando sarà quel momento”. – Mr 13:33.

  Il tempo è urgente e l’imminenza deve caratterizzare l’attesa del credente: “Non dormiamo dunque come gli altri, ma vegliamo” (1Ts 5:6), “Questo dobbiamo fare, consci del momento cruciale: è ora ormai che vi svegliate dal sonno; perché adesso la salvezza ci è più vicina di quando credemmo”. – Rm 13:11.

“Ecco, sto per venire e con me avrò la ricompensa da dare a ciascuno secondo le sue opere … Beati quelli che lavano le loro vesti per aver diritto all’albero della vita e per entrare per le porte della città!”. – Ap 22:12,14.