Tutte le religioni cosiddette cristiane tengono in gran conto la Bibbia. Da un punto di vista editoriale, essa è stata e continua ad essere il libro più diffuso al mondo. La Bibbia è ora disponibile, in forma completa o parziale, in più di 2.250 lingue. “Si stampano tuttora più copie della Bibbia che di qualsiasi altro libro”, riferisce l’ENI Bulletin.

   La Bibbia continua a essere tradotta: alle traduzioni troppo letterali del passato e a quelle troppo moderne delle Società Bibliche vengono aggiunte versioni più vive. Non vi è che l’imbarazzo della scelta tra le opere più costose e quelle invece diffuse a prezzi più accessibili. In Italia possiamo disporre della Sacra Bibbia, Edizione ufficiale della C.E.I. (Conferenza Episcopale Italiana), editrice Elle Di Ci, Torino-Leumann, che viene adottata nella liturgia ufficiale della Chiesa Cattolica. Abbiamo inoltre la Bibbia TOB con il testo della C.E.I., mentre note e commento sono della Traduction Oecumènique de la Bible, a cura sempre della Elle Di Ci, Torino–Leumann. In campo protestante sono disponibili le traduzioni della Diodati e della Luzzi. Va anche ricordata la TILC, traduzione interconfessionale in lingua corrente dell’intera Bibbia; non proprio da studio, ma piacevolissima per la lettura. Ultimamente si è aggiunta la Nuova Diodati, Revisione 1991, Edizione La Buona Novella di Brindisi, anche se in certi casi segue il testo originale con una certa libertà. I Testimoni di Geova hanno una Bibbia tutta loro, la Traduzione del Nuovo Mondo delle Sacre Scritture (TNM).

   Anche nel passato la Bibbia confortò molte persone che soffrivano. Silvio Pellico, dopo aver trascurato la Bibbia, in carcere ne fece oggetto di meditazione traendone conforto, come ci viene testimoniato dalle seguenti parole tratte dal suo libro Le mie prigioni:

“Io provava un certo godimento di aver ripreso in mano la Bibbia; d’aver confessato che io stava peggio senza di lei. Parea d’aver dato soddisfazione ad un amico generoso, ingiustamente offeso; d’essermi riconciliato con esso. – E t’avea abbandonato, mio Dio? – gridai – E m’era pervertito? Ed aveva potuto credere che l’infame riso del cinismo convenisse alla mia disperata situazione? – Pronunciai queste parole con una emozione indicibile; posi la Bibbia sopra una sedia, m’inginocchiai a terra a leggere, e quell’io che si difficilmente piango, proruppi in lacrime … Lessi e piansi più di un’ora; e mi alzai pieno di fiducia che Dio mi avesse perdonato ogni stoltezza. Allora le mie sventure, i tormenti del processo, il verosimile patibolo mi sembrarono poca cosa. Esultai di soffrire, poiché soffrendo con rassegnato animo, io obbediva al Signore. La Bibbia, grazie al cielo, io sapea leggerla. Non era più il tempo ch’io la giudicava con la meschina critica di Voltaire, vilipendendo espressioni, le quali non sono risibili o false, se non quando, per ignoranza o per malizia, non si penetra nel loro senso. M’appariva chiaramente quanto foss’ella il codice della santità, e quindi della verità; quanto l’offendersi per certe sue imperfezioni di stile fosse cosa infilosofica, e simile all’orgoglio di chi disprezza tutto ciò che non ha forme eleganti; quanto fosse cosa assurda l’immaginare che una tale collezione di libri religiosamente venerati avessero un principio non autentico; quanto la superiorità di tali scritture sul Corano e sulla teologia degli indi fosse innegabile. Molti ne abusarono, molti vollero farne un codice di ingiustizia, una sanzione alle loro passioni scellerate. Ciò è vero; ma siamo sempre lì: di tutto puossi abusare; e quando mai l’abuso di cosa ottima dovrà dire che ella è in se stessa malvagia? Gesù Cristo lo dichiarò: Tutta la legge ed i profeti, tutta questa collezione di libri sacri, si riduce al precetto d’amar Dio e gli uomini. E tali scritture non sarebbero verità adatta a tutti i secoli? Non sarebbero la parola sempre viva dello Spirito Santo?”.

   Come mai la Bibbia ha tanto valore? Si può ancora credere nella sua ispirazione? Su quali argomenti poggia tale credenza? Come va intesa l’ispirazione? Vi è cooperazione tra Dio e l’uomo? Ecco i problemi che questa serie di studi intende porre, cercando le risposte. Prenderemo in considerazione le due parti della questione: 1) Una parte storica, nella quale saranno presentati i concetti dell’ispirazione (dai profeti ai padri ecclesiastici e alla sua valutazione presso gli studiosi moderni); 2) Una parte problematica, nella quale si metteranno a fuoco alcuni problemi relativi alla verità biblica (come Bibbia e scienza, Bibbia e storia, Bibbia e morale).

   Il termine “ispirazione” deriva dalla parola latina in-spirare e indica l’azione dello spirito – sia esso un vento o un dio – sopra una persona; si può tradurre con “soffiare dentro”. Per i latini indicava l’influsso divino che immetteva nell’uomo pensieri o sentimenti particolari, come la “fortezza”: “Inspirare fortitudine” (Quinto Curzio, IV, 13), “Occultum ignam inspirare” (Virgilio, Eneide 1, 692).  In greco è θεόπνευστος (theòpneustos): “Tutta la Scrittura è ispirata [θεόπνευστος (theòpneustos)] da Dio” (2Tm 3:16, TNM), Il vocabolo è composto da “Dio” (θεός, theòs) e “spirito” (πνεῦμα, pnéuma), del quale parleremo più a lungo. Lo si potrebbe tradurre con “soffio divino” che spinge l’uomo a parlare o a scrivere in nome di Dio. Pare che Filone sia stato il primo scrittore a usare la parola greca in questo senso.

   Quasi tutte le religioni hanno degli scritti che sono ritenuti frutto di ispirazione divina e conseguentemente parola di Dio. A questa categoria appartengono la Bibbia, il Corano, i Rig Veda e i Libri Sibillini. Il Corano e i Rig Veda, secondo alcuni fedeli, sarebbero una copia dettata di opere preesistenti in cielo e create prima del cosmo. Presenteremo solo un breve cenno di questi libri, per vederne la differenza con la Bibbia.

Mussulmani

   Il loro libro sacro è il Corano (القرآن‎, Al-Quràn, che significa “recitazione” ad alta voce, da cui deriva il termine “leggere”, giacché allora si leggeva ad alta voce (cfr. l’ebraico qarà, קָרָא, “leggere”). Il libro ha pure altri nomi: Al-Kitab (“lo scritto” per eccellenza, come la Bibbia per gli ebrei), al Nur (“la luce”), Al-Hoda (“la guida”), Al-Zikr (“l’esortazione”) e Al-Forquam (“il discernimento”). Pur avendo origine da Maometto, gli arabi ortodossi lo riconoscono opera di Dio: esso conterrebbe un discorso di Dio, registrato in un archetipo celeste (Umm al-Kitab, “la Madre della Scrittura”) che sarebbe stato comunicato in varie riprese a Maometto per ordine divino ad opera dello “Spirito di Santità”, vale a dire dall’arcangelo Gabriele. Per l’Islam la parola di Dio è eterna, inalterabile e insostituibile: la teologia rigorista ne vieta la traduzione. Quando vi parla Maometto, lo fa come portavoce di Dio. Risulta di 134 sure poste in ordine decrescente di lunghezza ognuna delle quali (salvo la nona) inizia con la formula: “Nel nome di Dio clemente e misericordioso”.

   Il Corano contiene solo le rivelazioni dirette che il profeta raccolse; le sue opinioni personali e la sua biografia non vi sono riportate. Il testo è quello che Maometto trasmise ai suoi discepoli, che mostrarono grande zelo nell’impararlo a memoria. Quando il fondatore della religione islamica morì, migliaia di mussulmani, uomini e donne, conoscevano a memoria tutto il Corano. Tuttavia, per impedire che presto o tardi in modo più o meno consapevole, vi si introducessero delle mutazioni, si decise di dare alle rivelazioni del Corano una forma scritta. Zaid ben Sabit, conoscendo il testo a memoria, con l’aiuto di tre esperti, ne raccolse tutti i capitoli (sure) e i versetti in un libro secondo l’ordine allora corrente, per ordine di Osman, terzo califfo (successore) del profeta. Così varie copie furono inviate a diversi centri dell’Islam perché servissero da modello per ulteriori trascrizioni. Quando queste prime copie furono compiute, erano viventi molti compagni del profeta e tra questi anche Alì ben Talib, il futuro quarto califfo, che conoscevano il Corano a memoria, e nessuno vi fece delle obiezioni. Si può quindi essere sicuri che il Corano di oggi sia uguale a quello predicato dal profeta.

   Per i mussulmani il Corano è fonte principale della vita religiosa e norma di giudizio. La Sunnah (tradizione del profeta) e la Hadis (tradizione in genere) valgono a spiegare il Corano solo in quanto non lo contraddicono. Questo scritto serve per giudicare ogni altro libro. Da ciò derivò la distruzione della celebre Biblioteca di Alessandria con la celebre frase: “Se un libro è vero è già contenuto nel Corano, se non è vero va distrutto”.

Induismo

     L’induismo detiene una posizione di primo piano per l’antichità e la molteplicità di libri sacri ritenuti infallibili. Questi si dividono in due categorie: la “rivelazione” (cruti o ascolto), vale a dire libri rivelati dalla Divinità, chiamati Veda: e la “memoria” (smrti o tradizione sacra), che non ha lo stesso valore della prima categoria che qui presentiamo.

   I quattro Veda. Il loro nome deriva dalla radice vid, che significa “vedere”, “conoscere”; essi sono costituiti dal Veda dei Salmi (Rik-Veda), dal Veda delle formule sacre (Jajur-Veda) e dal Veda degli incantesimi (Atarva-Veda). Il primo è la fonte degli altri due che ne sono derivati, mentre il quarto (lo Atarva-Veda), diverso dagli altri per stile e contenuto, è più tardivo e fu accolto tra i Veda solo nel 3° secolo a. E. V.. Ogni Veda risulta di tre sezioni corrispondenti a tre periodi importanti dell’evoluzione religiosa degli indo-ariani:

  • 1ª – Il primato della preghiera. È questa la sezione liturgica, la Upanisana-Kanda, che contiene le più antiche preghiere tuttora in uso presso gli indù. Contiene degli inni, composti tra il 1500 ed il 1000 a. E. V., i quali sono una delle più antiche creazioni umane.
  • 2ª – Il primato dei sacrifici o le Brama-nas. La sezione liturgica (Karma-Kanda) contiene diversi trattati liturgici, composti tra il 1000 e l’800 a. E. V., i quali descrivono nei particolari più minuti le cerimonie religiose. Il sistema rituale indù poggia ancora oggi nel cerimoniale qui descritto, anche se i sacrifici degli animali sono oggi caduti in disuso.
  • 3ª – Il primato filosofico o la Upanishad. La terza ed ultima parte detta “sezione della scienza” (Jnana-Kanda) è nota con il nome Vedanta o “fine dei Veda”; contiene le meravigliose Upanishad, scritte in gran parte tra l’800 ed il 300 a. E. V. e contenenti i risultati più eccelsi della speculazione indo-ariana su Dio, il mondo e l’anima. Le intuizioni sulla natura e gli attributi di Dio sono sublimi; la concezione del mondo e dell’anima è infetta da panteismo che talora giunge addirittura a negare la realtà del mondo.

   Questi libri esercitarono un profondo influsso anche su alcuni pensatori occidentali; lo Schopenhauer, ad esempio, custodiva le Upanishad nella sua stanza come un tesoro e s’inginocchiava spesso dinanzi ad esse in adorazione. Ogni indù che non sia eretico accetta i Veda come “eterni” (nitja), “privi di autore umano” (apau ruseja) senza affatto discutere su quale base poggi tale fede. Per il comune indù e per quei filosofi che credono a un Dio personale, i Veda sono eterni in quanto o sempre esistettero nella mente di Dio o sono infallibili perché rivelati da Dio. Per i filosofi, aderenti al movimento Purva-Mimansa, che nega un Dio personale, i Veda sussistono da sé, oggettivamente in forma di “logos” (parola, cabda) nella sfera eterna: i Veda sono, nell’induismo, la verità eterna sussistente per se stessa quale fu contemplata dai saggi in estasi e che fu da loro trasmessa fedelmente con parola umana in modo conforme all’archetipo eterno.

   L’esegesi dei Veda è in gran parte affine a quella realizzata per la Bibbia. Vi è però un principio importante tratto dal famoso testo: “Se uno desidera il cielo, lasciagli fare un sacrificio!”, che così si può sintetizzare: tutto ciò che si armonizza con il principio, “se uno desidera il cielo”, è un precetto; quello che non si accorda con esso è solo un’affermazione. Perciò la frase: “Offendi il tuo nemico con la cerimonia del sjena” si ritiene un’affermazione espressa da gente cattiva, in quanto non s’accorda con il desiderio del cielo.

   Fino al 7° secolo a. E. V. i Veda furono trasmessi oralmente ad opera dei Bramini. Quando il testo fu messo per iscritto, lo si fece con speciali chiavi interpretative intrecciate con le parole, così da impedire ogni mutamento nel testo.

Libri sibillini

   Si tratta di scritti che la Sibilla cumana avrebbe consegnato a Tarquinio Prisco o a Tarquinio il Superbo e che erano assai onorati e posti prima in un sotterraneo del tempio di Giove e poi sotto la base della statua di Apollo nel suo tempio. Quando terremoti, carestie, pestilenze e altre sciagure nazionali e sociali colpivano la repubblica e l’impero, il senato incaricava l’apposita commissione sacerdotale (quindicamviri sacris faciundis) di consultare i libri sibillini. E tutti sottostavano fedelmente a ciò che tali libri prescrivevano. Essi furono bruciati da Stilicone verso il 400 a. E. V.. L’attuale testo è in greco ed è ricco di rifacimenti e aggiunte.

Buddismo

   La scrittura del Buddismo primitivo chiamata “tre cesti” (Triptaca) comprende la seguente triplice raccolta:

  1. Sutra (“testi”) che riproduce fedelmente l’insegnamento del fondatore Gautama Buddha.
  2. Vinaja (“disciplina”) che contiene la regola monastica della comunità da lui fondata. Queste due raccolte costituiscono il “Grande Veicolo”.
  3. Il “Trattato dottrinale” (Abhindharma) intende chiarire, specialmente per i laici, l’insegnamento dei primi libri e si chiama perciò “Piccolo Veicolo”.

   Coloro che seguono il Piccolo Veicolo si trovano in maggioranza nei paesi del sud-est asiatico. Ora si cerca di tradurre le scritture dal pãli, antica lingua indiana, nelle lingue locali: cambogiana, congolese, ecc.. Con la diffusione del buddismo anche fuori dall’India, si cerca di evangelizzare i popoli mediante la traduzione dei testi in cinese, dove lo zen aveva predicato un rifiuto della Scrittura a vantaggio dell’illuminazione personale. In Giappone vi è un movimento per tradurre i testi buddisti nella moderna lingua locale con commenti esplicativi.

Shintoismo

   La religione dominante in Giappone si fonda sullo Shinto o “la via degli dèi”, antichi libri la cui prima menzione appare nella cronaca dell’imperatore Jomei (519-587) nel Nihonshoki. Per quel che sappiamo dai due più antichi libri giapponesi, il Kojiki (712 E. V.) e il Nihonshoki (720 E. V.), lo Shinto riassume le concezioni mitologiche e gli usi religiosi tramandati dal popolo giapponese dai tempi più remoti quando ancora non si erano introdotte le contaminazioni cinesi e indiane.  Questi libri, pur essendo stimati per il loro valore, non sono ritenuti ispirati da Dio, ma opere di speciali iniziati spirituali.

 

Differenze con la bibbia

   Le principali differenze tra la Bibbia e gli altri scritti sacri stanno nel fatto che questi sono politeisti (buddhisti, shintoisti), mentre la Bibbia è monoteista (l’islamismo, pur essendo monoteista, proviene dalla Bibbia). Gli scritti sacri non biblici si presentano quale frutto d’intuizione mistica e sono quindi tra loro convergenti, mentre la Bibbia li sorpassa tutti. Si pensi alla regola d’oro che in tutte le religioni appare in forma negativa: “Non fare ad altri ciò che non desideri sia fatto a te”, mentre nella Bibbia si presenta in forma positiva: “Tutte le cose dunque che voi volete che gli uomini vi facciano, fatele anche voi a loro” (Mt 7:12). Di più, negli scritti non biblici, Dio non è presentato in forma personale, ma piuttosto come un’idea che sfocia facilmente nel panteismo; la religione non è legata a una persona come invece lo è nella Bibbia (Yeshùa). Queste differenze si spiegano con il fatto che la Bibbia è rivelazione divina (Dio scende verso l’uomo), mentre le religioni sono solo un tentativo dell’uomo di salire a Dio.

Rivelazione e ispirazione

   Si tratta di due fenomeni diversi che non si possono confondere tra loro. La rivelazione consiste nel manifestare qualcosa che prima era nascosto; “rivelare” significa, infatti, togliere il velo che prima occultava qualcosa. Quando s’immerge una pellicola in un’emulsione adatta essa rivela la sua immagine. Quando Champollion poté decifrare il segreto dei segni geroglifici egizi, egli rivelò il segreto di questa scrittura. Gli studi moderni stanno rivelando il segreto dei “geni”, fonte della personalità, che prima era nascosto. I nostri sentimenti rimangono nascosti in noi fino a quando non li riveliamo ad altri con dei fiori o specialmente con la parola. Qui non studiamo questa rivelazione da uomo ad uomo, bensì la rivelazione che Dio stesso dona all’uomo. Vari sono i mezzi con cui Dio può rivelare se stesso: l’opera del creato, la storia, la parola.

  1. Il Creato. Giacché Dio ha creato tutti gli esseri ed ha dato un nome a tutti gli esseri creati, fissandone così la natura (Gn 1), ne viene che questi devono recare l’impronta del loro creatore. Dio, infatti, conta il numero delle stelle, le chiama tutte per nome: “Egli conta il numero delle stelle, le chiama tutte per nome” (Sl 147:4). Paolo può perciò scrivere: “Le sue [di Dio] qualità invisibili, la sua eterna potenza e divinità, si vedono chiaramente fin dalla creazione del mondo essendo percepite per mezzo delle opere sue” (Rm 1:20). L’autore biblico ispirato vede questa rivelazione non in forma di ragionamento sillogistico, ma d’intuizioni simboliche. La natura è in un certo senso il rivestimento della potenza divina: “I cieli raccontano la gloria di Dio e il firmamento annunzia l’opera delle sue mani” (Sl 19:1). “La gloria di Dio” è raccontata dal firmamento intero senza parole, infatti giorno e notte “non hanno favella, né parole; la loro voce non s’ode” (Sl 19:3). Il Salmo 29 canta Dio presente nella tempesta: “La voce di Geova è sopra le acque; il glorioso Dio stesso ha tuonato. Geova è sopra molte acque. La voce di Geova è poderosa; La voce di Geova è splendida” (Sl 29:3,4, TNM). Dio è più potente d’ogni tumulto delle acque straripanti: “I fiumi hanno alzato, o Geova, i fiumi hanno alzato il loro suono; i fiumi continuano ad alzare il loro fragore. Al di sopra dei suoni delle vaste acque, le maestose onde fluttuanti del mare, Geova è maestoso nell’alto” (Sl 93:3,4, TNM). Poiché l’uomo può dare il nome agli animali, nel linguaggio biblico vuol dire che ne è superiore e può comprenderne l’intima essenza che Dio ha dato loro. È segno che il linguaggio divino nel creato può essere compreso dall’uomo (Gn 2). Anche Kant, dopo aver detto che non possiamo conoscere teoricamente Dio con la ragione, affermava che lo si poteva scoprire mediante il cielo stellato al di là di noi e della legge morale dentro di noi. Fra’ Luis da Granada paragona alcune creature a “lettere modellate e miniate che perfettamente attestano l’eccellenza e la sapienza del loro autore”. Questa rivelazione generale manifesta Dio come l’onnipotente e il dominatore dell’universo, ma non presenta alcun messaggio di salvezza. Di più, il peccatore rifiuta di riconoscere questa rivelazione. Come Paolo scrisse nella lettera ai Romani, al cap. 1, il peccatore non accoglie questo insegnamento per la malvagità delle sue opere cadendo così nell’idolatria: “Le sue qualità invisibili [di Dio], la sua eterna potenza e divinità, si vedono chiaramente fin dalla creazione del mondo essendo percepite per mezzo delle opere sue; perciò essi sono inescusabili, perché, pur avendo conosciuto Dio, non l’hanno glorificato come Dio, né l’hanno ringraziato; ma si son dati a vani ragionamenti e il loro cuore privo d’intelligenza si è ottenebrato. Benché si dichiarino sapienti, son diventati stolti, e hanno mutato la gloria del Dio incorruttibile in immagini simili a quelle dell’uomo corruttibile”. – Rm 1:20-23.
  2. Rivelazione di Dio che dirige la storia umana. Questa rivelazione si è attuata nella storia, specialmente in quella del popolo ebraico. La storia è sviluppata da grandi personaggi che con le loro imprese straordinarie hanno trasformato la direzione della storia: si pensi a Ciro, ad Alessandro, a Cesare, a Napoleone. Vi è qualcosa dietro la loro azione? Vi si esplicano solo impulsi sociologici oppure attraverso la storia è Dio che si rivela? A prima vista parrebbe di no. Sembrerebbe di assistere ad un film in lingua ignota di cui non si riesce a capire il senso, perché manca la spiegazione della voce narrante. Anche la storia rimane incomprensibile senza una voce che ce la spieghi, il che si ha con il messaggio profetico. Così i profeti della scuola deuteronomica ci mostrano la benedizione divina verso Israele quando questa agisce bene e la punizione quando essa opera male (Dt 11:13-28). Narrando i fatti, il cronista li interpreta, e mostra come Dio abbia guidato Israele punendola quando ha prevaricato. Gli scrittori sacri, nella conquista della Palestina da parte di Israele vedono Dio che forma il suo popolo perché divenga luce delle altre nazioni, anche se purtroppo questo non sempre si è avverato: “Se tu ti chiami Giudeo, ti riposi sulla legge, ti vanti in Dio, conosci la sua volontà, e sai distinguere ciò che è meglio, essendo istruito dalla legge, e ti persuadi di essere guida dei ciechi, luce di quelli che sono nelle tenebre, educatore degli insensati, maestro dei fanciulli, perché hai nella legge la formula della conoscenza e della verità; come mai dunque, tu che insegni agli altri non insegni a te stesso? Tu che predichi: «Non rubare!», rubi? Tu che dici: «Non commettere adulterio!», commetti adulterio? Tu che detesti gli idoli, ne spogli i templi? Tu che ti vanti della legge, disonori Dio trasgredendo la legge? […] Giudeo è colui che lo è interiormente […] di un tale Giudeo la lode proviene non dagli uomini, ma da Dio” (Rm 2:17-23,29). Gli apocalittici (Daniele e Giovanni), anche se non insistono sul principio precedente della retribuzione (che non è norma assoluta), insegnano che la storia è guidata da Dio verso l’espressione più perfetta del regno di Dio, anche se nei particolari ciò non appare. Evidentemente la visione divina della storia si può intravedere rivolgendoci al passato alla luce della voce profetica della Bibbia, ma si potrà conoscere appieno solo alla fine del tempo presente quando la nostra mente si uniformerà alla mente di Dio. Per ora la storia va valutata solo alla luce della parola divina; la storia da sola è incapace di rivelarci appieno l’azione con cui Dio si rivela all’uomo.
  3. La parola. Dio si è costituito un popolo (Israele) per attuare la redenzione; ad esso ha inviato i suoi profeti. Questa rivelazione divina raggiunse la sua pienezza in Yeshùa, figlio di Dio, che ne costituisce l’atto culminante. Essa fu simultaneamente attuata con atti e con parole. Yeshùa il consacrato poté dire di sé: “Io sono la via, la verità e la vita; nessuno viene al Padre se non per mezzo di me” (Gv 14:6) e ancora: “Chi ha visto me, ha visto il Padre” (14:9). Commentando le parole: “Ascoltatelo” (Mt 17:5), Calvino scrisse: “In queste parole vi è più valore e forza di quanto usualmente si pensi. È come se, allontanandoci da ogni dottrina umana ci conducesse solo verso il suo figlio; ci chiedesse di attendere da lui tutta la dottrina della salvezza, a dipendere da lui, in breve (come indicano le parole in loro stesse) ad ascoltare esclusivamente la sua voce” (Calvino, Istituz. Div. 4,8,7). La parola è il mezzo efficace con cui noi possiamo comunicare i nostri sentimenti: possiamo conoscere ciò che Geremia provava dinanzi a Gerusalemme che sta per essere distrutta dalle sue parole a singhiozzo che esprimono il dolore da lui provato: “Le mie viscere! Le mie viscere! Sento un gran dolore! Le pareti del mio cuore! Il mio cuore mi freme nel petto! (Ger 4:19). Con la parola possiamo insegnare, manifestare la nostra cultura, comunicare i nostri risultati, esprimere le nostre idee, manifestare i nostri suggerimenti, dare le nostre disposizioni. Anche Dio, se vuole comunicarci qualcosa, deve scegliere delle parole umane che noi possiamo comprendere. Deve agire nella stessa maniera di un missionario che adatta il vangelo ai popoli di cultura meno progredita, o di un catechista che adatta la parola di Dio alla comprensione di un bambino. Si tratta di condiscendenza divina, bene espressa dal Crisostomo nel suo commento a “Dio passeggiava sul far della sera”: “Consideriamo che solo per la nostra debolezza la Sacra Scrittura ricorre ad un umile linguaggio, per operare la nostra salvezza in modo degno di Dio” (Crisostomo, in Gn 3:8 Omelia 17 PG 53,135). Parlando della creazione di Adamo commenta: “Non prendere le parole in senso umano, ma attribuisci alla debolezza umana lo stile materiale. Infatti se la Scrittura non impiegasse tali parole, come potremmo apprendere i misteri ineffabili?” (Crisostomo, in Gn 2 Omelia 12 PG 53,121).  Per attuare questo, Dio ha adoperato degli uomini, che ha costituito suoi profeti, come leggiamo nella Lettera agli ebrei: “Dio, dopo aver parlato anticamente molte volte e in molte maniere ai padri per mezzo dei profeti, in questi ultimi giorni ha parlato a noi per mezzo del Figlio” (Eb 1:1,2). È evidente che il profeta non ha bisogno che tutto gli sia rivelato. Egli poté narrare da solo dei fatti a lui noti quando ne fu testimone (Gv 1:14) o quando li studiò personalmente. In questi casi non ebbe bisogno di una speciale rivelazione. Quando Giovanni o Matteo scrivevano dei fatti relativi a Yeshùa ai quali avevano assistito, non avevano bisogno di una speciale rivelazione. Tutt’al più necessitavano di un aiuto dello spirito santo per non dimenticare ciò che avevano udito e che era necessario per illuminare gli uomini e suscitare in essi la fede: “Lo Spirito Santo, che il Padre manderà nel mio nome, vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto quello che vi ho detto” (Gv 14:26). Luca studia le fonti, interroga i testimoni oculari, per cui non aveva bisogno di una rivelazione per narrare i risultati dei suoi studi: “È parso bene anche a me, dopo essermi accuratamente informato di ogni cosa dall’origine, di scrivertene per ordine” (Lc 1:3). La rivelazione era invece necessaria per ciò che il profeta non poteva conoscere per conto suo.

 

Mezzi di comunicazione

   La rivelazione necessaria per comunicare ciò che l’uomo non può conoscere di Dio o del futuro, avvenne, secondo la Bibbia, in modi diversi. I mezzi utilizzati sono ben espressi nel libro di Samuele: “Saul consultò il Signore, ma il Signore non gli rispose né tramite sogni, né mediante l’urim, né per mezzo dei profeti”. – 1Sm 28:6.

  1. Sogno. È una via normale con cui Dio comunica qualcosa all’uomo: in un sogno Abraamo riceve la promessa che la sua posterità conquisterà la Palestina (Gn 15:12). Giacobbe vede in sogno una scala che sale fino in cielo e chiama il luogo casa di Dio (Beth-el, Gn 28:12 e sgg.). Sogni politici sono interpretati da Giuseppe che prevede in tal modo la sua prosperità e la carestia d’Egitto (Gn 41). Ebbe un sogno Salomone che chiese la sapienza nel santuario di Gabaon (Gdc 6:25,sgg.; 1 Re 3:5,sgg.). Daniele e Nabucodonosor fecero dei sogni premonitori. – Dn 2:1;4:1;7:1.

   I sogni non erano oggetto di discussione: “Ascoltate ora le mie parole; se vi è tra di voi qualche profeta, io, il Signore, mi faccio conoscere a lui in visione, parlo con lui in sogno” (Nm 12:6). Tuttavia, i sogni furono ritenuti un mezzo inferiore alla rivelazione dei profeti. In epoca tardiva, pur non negandone l’utilità, furono attaccati da Geremia come sogni vani, qualora fossero contrari al suo messaggio: “Così parla il Signore degli eserciti: «Non ascoltate le parole dei profeti che vi profetizzano; essi vi nutrono di cose vane; vi espongono le visioni del proprio cuore, e non ciò che proviene dalla bocca del Signore»” (Ger 23:16). Se non provengono da Dio sono sogni vuoti che prodigano vani rimedi: “I sogni mentono e danno un vano conforto” (Zc 10:2). Sono falsi profeti quelli che promettono prosperità e lusingano i vizi del popolo dicendo: “Ho avuto un sogno! ho avuto un sogno!”. – Ger 23:25.

   Nelle Scritture Greche i sogni conservano il loro valore: specialmente Matteo ne riferisce diversi avuti da Giuseppe che è tranquillizzato nel suo dubbio (Mt 1:20-23) o indotto ad andare in Egitto o a tornare in Palestina (Mt 2:12 e sgg.;19:22). Ha un sogno anche la moglie di Pilato che vorrebbe indurre il marito a non interessarsi di Yeshùa (Mt 27:17). Paolo, alla vista di un macedone fattosi da lui vedere in sogno, si decise di andare in Macedonia; in seguito ad un sogno fu incoraggiato a non temere le difficoltà che avrebbe incontrato a Corinto. – At 16:9;18:9.

  1. Urìm e Tummìm. Sia l’etimologia dei nomi sia l’uso sono alquanto incerti. Dalla versione greca dei LXX di 1Sam 14:41 e sgg. si comprende che si trattava di qualcosa che si estraeva a sorte e dei quali uno valeva per il “sì” e l’altro per il “no”. Ecco il passo:

“Yhvh, Dio d’Israele, perché non rispondi al tuo servo? Se in me o in Gionata, figlio mio, si trova questo peccato, Yhwh, Dio d’Israele, fa che esca urîm, al contrario se l’iniquità è nel popolo, esca tummîm. La sorte cadde su Gionata e Saul, e il popolo se ne andò. Dopo di che Saul propose: Tirate a sorte tra me e mio figlio Gionata. E la sorte cadde su Gionata”.

  1. Lipìnski conferma da un testo accadico pubblicato da A. Ebeling, che gli Urîm e Tummîm biblici erano originariamente due pietre che davano per risposta un “sì” oppure un “no”. – E. Lipìnski, Urîm e Tummîm, in Vetus Testamentum, 20 (1970), 495 e sgg.; E. Ebeling, Lite-rarischen Keilschriftext aus Assur, Berlin, 1953, n. 137. Cfr. R. De Vaux, Le istituzioni dell’A.T., Torino, 1964, pagg. 348 e sgg.); John Macquarrie, Principles of Christian Teology, Scribner, 1966, pag. 47.

   I Testimoni di Geova condividono questo fatto:

“Dai casi riportati nelle Scritture in cui Geova fu consultato mediante gli Urim e i Tummim sembra che la domanda fosse formulata in modo che si potesse rispondere con un “sì” o con un “no”, o per lo meno con una risposta molto breve e diretta. In un caso (1Sa 28:6) sono menzionati solo gli Urim, essendo evidentemente sottinteso che vi erano anche i Tummim. Alcuni commentatori biblici ritengono che gli Urim e i Tummim fossero delle sorti. Nella traduzione inglese di Esodo 28:30 a cura di James Moffatt sono chiamati “le sacre sorti”. C’è chi pensa consistessero di tre pezzi, uno con la scritta “sì”, l’altro con la scritta “no” e il terzo in bianco. Estratti, davano la risposta alla domanda proposta, a meno che non uscisse quello in bianco. Altri ritengono che si trattasse di due pietre piatte, bianche da un lato e nere dall’altro. Gettate, due lati bianchi significavano “sì”, due neri “no” e uno nero e uno bianco non davano risposta. Una volta, quando Saul chiese tramite il sacerdote se doveva tornare all’attacco contro i filistei, non ricevette risposta. Pensando che qualcuno dei suoi uomini avesse peccato, supplicò: “O Dio d’Israele, dà Tummim!”. Fra i presenti furono scelti Saul e Gionatan; dopo ciò furono gettate le sorti per decidere fra i due. In questo passo sembra che l’invocazione “Dà Tummim!” si riferisca a un’azione distinta dal gettare le sorti, pur potendo indicare che fra le due cose c’era una certa relazione. — 1Sa 14:36-42.” – Perspicacia nello Studio delle Scritture Vol. 2, pag. 1170, alla voce “Urim e Tummim”.

   Erano tenuti nell’Efod, un grembiule munito di tasche (1Sam 23:9). Con questo mezzo Davide seppe che avrebbe potuto vincere gli amalechiti (1Sam 30:7). Mediante la sorte anche Mattia fu scelto a succedere all’apostolo Giuda, il traditore. – At 1:23 e sgg..

  1. Il profeta. Dio, direttamente o per visioni angeliche, comunicava la sua parola ai profeti. Natan ed Elia, i primi della serie profetica, appaiono come uomini della parola (1Re 17:2,8;18:1). La parola divina non è in possesso permanente del profeta; può succedere anzi che gli sia rifiutata (Ger 42:6 e sgg.). Si noti che la formula usata dai profeti – “Così parla Yhvh” – era una frase usata anche dagli araldi per annunziare dei proclami regali: “Così parla il re”. Essa annunciava che il messaggio trasmetteva solo il comando del re o di Dio senza nulla aggiungervi, togliervi o cambiarvi (Nm 22:16; 2 Re 18:28). Il profeta riceve la parola nella bocca: “Ecco, io ho messo le mie parole nella tua bocca” (Ger 1:9); o agli orecchi: “Questo mi ha detto all’orecchio il Signore” (Is 5:9). La rivelazione di Dio in Yeshùa il consacrato viene alla fine dei tempi: “Già designato prima della creazione del mondo, egli è stato manifestato negli ultimi tempi per voi” (1Pt 1:20) e segna l’ingresso nel periodo definitivo. Se la manifestazione gloriosa di questa salvezza è ritardata, lo è solo per dare al mondo la possibilità del ravvedimento e della fede: “Il Signore non ritarda l’adempimento della sua promessa, come pretendono alcuni; ma è paziente verso di voi, non volendo che qualcuno perisca, ma che tutti giungano al ravvedimento”. – 2Pt 3:9.

   Da diverso tempo circola l’idea, anche tra biblisti cattolici e protestanti, che il cosiddetto cristianesimo sia una delle molteplici vie per andare a Dio. Yeshùa sarebbe una delle molte rivelazioni divine. L’idea biblica è ben diversa: la rivelazione di Yeshùa non è una come le altre, è una nuova rivelazione che presenta Dio, non solo come creatore, ma come redentore, salvatore e padre. Questo appare anche dal discorso paolino all’areopago:

“Dio dunque, passando sopra i tempi dell’ignoranza, ora comanda agli uomini che tutti, in ogni luogo, si ravvedano, perché ha fissato un giorno, nel quale giudicherà il mondo con giustizia per mezzo dell’uomo ch’egli ha stabilito, e ne ha dato sicura prova a tutti, risuscitandolo dai morti”. – At 17:30,31.

   Unica è dunque la rivelazione redentrice: quella del consacrato Yeshùa, figlio di Dio. E questa rivelazione si trova nei libri profetici (Scritture Ebraiche e Scritture Greche), che sono scritti ispirati, anche se non sono frutto in ogni loro parte di speciale rivelazione divina. Lo sono le parti che gli scrittori non potevano conoscere, come il famoso “mistero” paolino per il quale tutti gli uomini sono chiamati a salvezza (Ef 3). Le altre sono ispirate, ma non rivelate.