Il bravo in cui Yeshùa cammina sulle acque si trova in Mr 6:45-53; Mt 14:22-33; Gv 6:15-21.

   In Mr 6:45 si legge che Yeshùa “senza indugio, costrinse i suoi discepoli a salire sulla barca e ad andare avanti alla riva opposta” (TNM). Pare una fuga. Perché Yeshùa “costrinse” gli apostoli ad andarsene? Gv 6:14,15 ne dà il motivo: “La gente dunque, avendo visto il miracolo che Gesù aveva fatto, disse: ‘Questi è certo il profeta che deve venire nel mondo’. Gesù, quindi, sapendo che stavano per venire a rapirlo per farlo re, si ritirò di nuovo sul monte, tutto solo”. Yeshùa voleva sottrarre le persone alla tentazione di un messianismo puramente terreno. Partiti di sera, con il vento contrario, verso le ultime ore della notte erano ancora sul lago: “Intanto la barca era a molte centinaia di metri da terra, essendo fortemente sbattuta dalle onde, perché il vento era contrario. Ma nel periodo della quarta vigilia della notte [da circa le 3 fino alle 6 del mattino], egli venne da loro, camminando sul mare” (Mt 14:24,25, TNM). Questa quarta vigilia era contata secondo la divisione greca e romana della notte. Gli ebrei avevano tre suddivisioni o veglie (Es 14:24; Gdc 7:19), ma in seguito adottarono il sistema romano di quattro vigilie notturne. La notte era quindi divisa in quattro parti:

Veglia

Nome della veglia

Orario

1a

 ὀψία

opsìa

18-21

2a

μεσονύκτιον

mesonΰktion

21-24

3a

ἀλεκτοροφωνία

alektorofonìa

0-3

4a

πρωΐ

proì

3-6

   Verso sera (opsìa) erano già in mezzo al lago: “Fattosi sera, la barca era in mezzo al mare” (Mr 6:47). Qui “in mezzo al mare [lago]” va inteso come “sul lago”; non occorre intendere che fossero immobilizzati proprio “in mezzo” al lago. Il passo tradotto “[Dio] fa sulla terra cose stupende” (Sl 46:8) è nell’originale “in mezzo alla terra [בָּאָרֶץ (baàretz); nel Testo Masoretico è al v. 9]”. Questa espressione ebraica fu malintesa dai greci che non compresero che “in mezzo” significa “su”. Così, i greci (come Cirillo di Gerusalemme) dedussero che il Calvario, dove si avverò la massima meraviglia della morte e resurrezione di Yeshùa, doveva essere il centro della terra. Ma il senso è solo “sulla terra”, non al centro. Così anche qui ἐν μέσῳ τῆς θαλάσσης (en mèso tes thalàsses), letteralmente “in mezzo al mare”, significa “sul mare” e non al centro d’esso.

   Yeshùa vede gli apostoli in difficoltà: “Visto che si affaticavano nel remare, poiché il vento era loro contrario” (Mr 6:48, TNM). Egli poté vederli perché il periodo era quello pasquale (quindi si era nel plenilunio) e con la luce lunare era possibile vedere anche lontano. Yeshùa giunse da loro verso la quarta veglia (tra le 3 e le 6 del mattino), quando distavano circa 6 km: “Com’ebbero remato per circa venticinque o trenta stadi, videro Gesù camminare sul mare” (Gv 6:19). Uno stadio era pari a un ottavo di miglio romano, ovvero a 185/192 m, per cui si trattava di 5-6 km circa.

   Dal contesto vi vede che Yeshùa camminava proprio sulle acque. È vero che l’espressione greca di Gv 6:19 – περιπατοῦντα ἐπὶ τῆς θαλάσσης  (peripatùnta epì tes thalàsses) – può significare anche “camminare sulla riva del lago”, ma dal racconto appare chiaro che camminava sull’acqua. Sembra che Yeshùa, per provocarli, intenda passare oltre senza dar loro alcun aiuto. Allora i discepoli, spauriti (quasi si trattasse di un fantasma notturno apportatore di sventure), si misero a gridare per il terrore. “Andò incontro a loro, camminando sul mare; e voleva oltrepassarli, ma essi, vedendolo camminare sul mare, pensarono che fosse un fantasma e gridarono; perché tutti lo videro e ne furono sconvolti” (Mr 6:48-50). A questo punto Yeshùa li rincuora con tre espressioni particolarmente solenni, riportate in modo identico da Matteo, Marco e Giovanni: “Coraggio, sono io; non abbiate paura!” (Mr 6:50; Mt 14:27; Gv 6:20). Si noti la forma verbale: “Fatevi coraggio!”. In greco si tratta di un aoristo (Θαρσεῖτε, tharsèite) e in italiano occorrerebbe renderla con un giro di parole: “Incominciate a farvi coraggio!”. “Non abbiate paura” è invece un imperativo presente (μὴ φοβεῖσθε, me fobèisthe) ossia “smettere di avere paura”. È la stessa forma verbale di Gv 20:17. “Smetti di trattenermi [Μή μου ἅπτου (me mu àrtu)]” (Dia); la Maddalena aveva già iniziato ad abbracciare Yeshùa; nel parallelo di Mt 28:9 si ha il solito plurale di categoria mattaico: “Esse, avvicinatesi, gli strinsero i piedi”.

   Vediamo ora le singolarità del racconto.

   Matteo aggiunge la precisazione che Yeshùa prima di camminare sulle acque era salito sul monte a pregare “in disparte” e “se ne stava lassù tutto solo” (14:23). Mr ha solo “a pregare”: “Se ne andò sul monte a pregare” (6:46). Forse quella mattaica è una nota teologica per indicare la sorgente della potenza divina presente in Yeshùa.

   Mentre Marco dice che i discepoli “si affannavano a remare” (6:48), Matteo descrive la barca che ormai “lontana da terra, era sbattuta dalle onde, perché il vento era contrario” (14:24). Cosa intendeva dire Matteo annotando questo particolare? Non è possibile determinarlo.

   È solo Matteo che aggiunge il particolare di Pietro che cammina sull’acqua. L’apostolo, sempre impulsivo, chiede a Yeshùa il permesso di andargli incontro. Pietro non voleva certo imporgli il miracolo di far sì che lui pure camminasse sull’acqua. Era spinto dalla fede e voleva stare con Yeshùa. Ad ogni modo, prima di ricevere il consenso del maestro non si muove. Solo dopo che Yeshùa gli aveva detto: Vieni!”, “Pietro, sceso dalla barca, camminò sull’acqua e andò verso Gesù” (Mt 14:29). Pietro non era mosso dalla millanteria. Egli non dice a Yeshùa: ‘Fammi camminare sull’acqua’, ma dice: “Comandami di venire da te sull’acqua” (Mt 14:28). Ma, come il solito, all’entusiasmo iniziale di Pietro succede il turbamento. Per le onde forti inizia ad affondare, e allora grida. “Vedendo il vento, ebbe paura e, cominciando ad affondare, gridò: ‘Signore, salvami!’” (14:30). A prima vista sembra tragicomico. Pietro pare dimentichi perfino di essere un pescatore: non pensa a nuotare. Forse non voleva allontanarsi da Yeshùa per raggiungere la vicina barca. Yeshùa lo rimprovera chiamandolo ὀλιγόπιστε (oligòpiste), tradotto “uomo di poca fede”. Questo termine è ignoto presso i classici greci e gli scrittori ellenistici. Si tratta di un termine tecnico usato dalla comunità dei discepoli e che suona come rimprovero. Oltre che in Mt si legge in Lc (12:28). Presso Matteo è riferito sempre ai Dodici.

   Yeshùa esige dai suoi una “fede quanto un granello di senape” (Mt 17:20), proverbiale per la sua piccolezza, vale a dire un minimo di fede vera che rende tutto possibile. Questo particolare conferma l’interesse di Matteo per Pietro (cfr. 16:13-21;18:21.22;19:27-30 e altri passi). Più che l’autorità dell’apostolo vi appare il discepolo tipo che ha fede nel maestro, sperimenta la di lui potenza e conosce la propria incostanza e debolezza.

   Da Gv 6:21 non si capisce se Yeshùa sia salito sulla barca; la traduzione italiana non aiuta: “Essi dunque lo vollero prendere nella barca, e subito la barca toccò terra là dove erano diretti”. Per TNM sembrerebbe certo che lo prendessero a bordo: “Perciò lo vollero prendere nella barca”. Ma il testo greco ha altro che “lo vollero”; ha ἤθελον (èthelon): “volevano”. Giovanni, in verità, scrive: “Egli disse loro: ‘Sono io, smettete di avere paura’. Essi dunque lo volevano prendere sulla barca, e subito la barca fu a terra là dove erano diretti” (vv. 20,21, Dia). TNM interpreta bene il secondo tempo imperfetto e modifica stranamente il primo tempo pure all’imperfetto: “Lo vollero [greco “volevano”, ἤθελον (èthelon)] prendere nella barca, e subito la barca arrivò a terra dove cercavano di andare [ὑπῆγον (üpègon)]”. Il greco ha quindi un senso impreciso: “volevano”, avevano intenzione di; ma non specifica se il loro volere sia stato attuato o no. Secondo Mt vi salì: “Quando furono saliti [Yeshùa e Pietro] sulla barca, il vento si calmò” (14:32). “Salì sulla barca con loro e il vento si calmò; ed essi più che mai rimasero sgomenti” (Mr 6:51): non è necessario vedere qui, nel vento che “si calmò”, un nuovo miracolo; verso il mattino il vento cessa naturalmente. Lo sgomento dei discepoli fu dovuto a tutto l’insieme: la paura di morire, Yeshùa che camminava sull’acqua! C’era davvero di che essere sgomenti. Il vento che alla fine, al mattino, si calmava era motivo di rassicurazione, non di ulteriore sgomento.

   La conclusione è molto diversa in Mt e in Mr. Marco dice che i discepoli “non avevano capito il fatto dei pani, anzi il loro cuore era indurito” (6:52). Matteo, invece, fa terminare il racconto con una professione di fede: “Allora quelli che erano nella barca si prostrarono davanti a lui, dicendo: ‘Veramente tu sei Figlio di Dio!’” (14:33). Gli esegeti pensano che sia più storico Mr e che Matteo abbia messo sulla bocca dei discepoli (anticipando per esigenze catechistiche) una conclusione che essi avrebbero tratto più tardi. Supporre che Marco abbia tolto la confessione di fede per preservare il segreto messianico di Yeshùa non pare fondato. Tanto più che la confessione di fede presente in Mt è la stessa che in Mt 16:17 è attribuita a speciale rivelazione divina: “Non la carne e il sangue ti hanno rivelato questo, ma il Padre mio che è nei cieli”. Spesso i Vangeli testimoniano l’incomprensione dei discepoli e la loro lentezza nel capire e nel credere. L’intelligenza sarà donata loro dallo spirito santo di Dio alla Pentecoste: “Il Consolatore, lo Spirito Santo, che il Padre manderà nel mio nome, vi insegnerà ogni cosa”, “Ho ancora molte cose da dirvi; ma non sono per ora alla vostra portata; quando però sarà venuto lui, lo Spirito della verità, egli vi guiderà in tutta la verità (Gv 14:26;16:12,13). Tutti questi sono indizi a favore della genuinità degli episodi, perché è difficile immaginare che la tradizione abbia inventato questi fatti che erano in contrasto con la fede vera da essi professata. Si rammenti come già Matteo sminuisca un po’ l’incomprensione degli apostoli per esaltarne la fede. Matteo poi non teme di rivisitare a posteriori le cose. Quando egli scrive il suo Vangelo, i fatti narrati erano già accaduti da decenni. Scrivendoli, Matteo vi aggiunge già la comprensione postuma che al tempo non si aveva. Il lettore occidentale non si deve scandalizzare. Gli ebrei non si scandalizzarono: era un loro modo di raccontare. Si veda, ad esempio, la profezia sulla distruzione di Gerusalemme. Marco dice: “Quando poi vedrete l’abominazione della desolazione posta là dove non deve stare” (13:14); parole enigmatiche: di che si tratta?, dove è quel luogo dove non dovrebbe stare? Luca, invece, rivisitando a posteriori, indica addirittura l’interpretazione: “Quando vedrete Gerusalemme circondata da eserciti”. – 21:20.

   Riguardo al miracolo del camminare sulle acque, si ripresenta la solita schiera di cosiddetti studiosi che hanno difficoltà a credere al fatto straordinario. Così, secondo il Reimars, Yeshùa si sarebbe avvicinato alla barca su di un grande tronco che si trovava a riva. Pietro, volendo salire su quel tronco, avrebbe rischiato di cadere se non fosse stato trattenuto per mano da Yeshùa. Non si sa se ridere o piangere per tanta pochezza; in tutta sincerità, è molto più difficile credere a questi presunti studiosi che al miracolo. Qualcuno, rendendosi ridicolo, ha anche ipotizzato che “camminare” fosse una specie di denominazione per indicare chissà quale specie di nuoto. Qualche altro sostiene che Yeshùa avesse camminato sulla riva. Non manca il solito studioso che ricorre a fenomeni psicologici: lo Schweitzer ipotizza che gli apostoli turbati, non riuscendo a dormire, avrebbero visto forse una nuvola simile ad un fantasma e si sarebbero paventati. Qualcun altro parla di lievitazione (il che non è impossibile: Yeshùa deve pur aver usato un modo straordinario per camminare sull’acqua).

   Con la solita litania, molti esegeti ricorrono alla spiegazione mitica: la congregazione avrebbe applicato a Yeshùa le leggende preesistenti presso i greci. E costoro ancora non capiscono che i giudei non avevano nulla a che fare con quei miti.

   Con la solita tiritera, altri esegeti ricorrono all’interpretazione simbolica. Questi si richiamano al fatto che Dio è padrone delle acque e cammina sulle onde: “[Dio] cammina sulle più alte onde del mare” (Gb 9:8); il che è ovviamente simbolico. Dio acquieta la tempesta, i marinai salgono e scendono sulle onde come ubriachi, allora pregano che Dio acquieti la tempesta e li conduca in porto: “Quelli che solcano il mare su navi e trafficano sulle grandi acque, vedono le opere del Signore e le sue meraviglie negli abissi marini. Egli comanda, e fa soffiare la tempesta che solleva le onde. Salgono al cielo, scendono negli abissi; l’anima loro vien meno per l’angoscia. Traballano, barcollano come ubriachi e tutta la loro abilità svanisce. Ma nell’angoscia gridano al Signore ed egli li libera dalle loro tribolazioni. Egli riduce la tempesta al silenzio e le onde del mare si calmano. Si rallegrano alla vista delle acque calme, ed egli li conduce al porto tanto sospirato” (Sl 107:23-30). Dato che Dio simbolicamente cammina sulle acque – concludono questi esegeti – anche Yeshùa può farlo.

   È lecito questo simbolismo? Certo che lo è. Ma perché mai un simbolismo dovrebbe essere contro la realtà del fatto? Per i Vangeli quel fatto era realtà storica. Occorre sempre richiamarsi al modo di pensare biblico, dimenticando quello occidentale. Presso i semiti simbolo e realtà si richiamano a vicenda. Il simbolo – non lo si dimentichi mai – per gli ebrei presuppone la realtà. È cervellotico (ovvero occidentale) ed estraneo alla mentalità ebraica supporre che si tratti d’invenzioni successive che vengono retrodatate dalla comunità dei discepoli.

   È del tutto verosimile che si tratti della potenza di Dio che agiva in Yeshùa durante la sua vita terrena.

   Suggeriamo di leggere gli studi sui miracoli nella categoria Il miracolo nella Bibbia della sezione La Bibbia.