Muti e sordomuti

 

   Ignoriamo la frequenza di questa malattia in Palestina al tempo di Yeshùa. Oggi si sa che l’espressione “sordomuto”, sebbene accettata dagli stessi non udenti, non è corretta. Il non udente non è affatto muto: il suo apparato fonatorio è perfettamente funzionante. Il fatto è che la sordità inibisce la parola. Come si possono riprodurre suoni che non si sono mai uditi? Possiamo imitare il cri-cri di un grillo o il cai-cai di un cane, possiamo imitare il parlare cinese o tedesco, possiamo imitare tutto ciò che abbiamo sentito; ma chi saprebbe mai imitare la lingua degli angeli? Una ragazza non udente racconta: “Da piccola c’era una cosa che proprio non capivo. Quando avevo caldo, ad esempio, facevo un gesto [i non udenti si esprimono a gesti] a mia madre e lei capiva il mio gesto e apriva la finestra. Però, quando aveva caldo mio fratello [che era udente e parlava], lui faceva dei gesti con la bocca e lei li capiva!”.

   Ai tempi apostolici spesso la sordità e l’essere muto erano attribuite a possessione demoniaca: “Gli fu presentato un uomo muto e indemoniato. Scacciato che fu il demonio, il muto parlò” (Mt 9:32,33); “Gli fu presentato un indemoniato, cieco e muto; ed egli lo guarì, in modo che il muto parlava e vedeva. […] Ma i farisei, udendo ciò, dissero: ‘Costui non scaccia i demòni se non per l’aiuto di Belzebù, principe dei demòni’” (Mt 12:22-24). La guarigione dei muti è inclusa in genere nei miracoli operati da Yeshùa: “Gli si avvicinò una grande folla che aveva con sé degli zoppi, dei ciechi, dei muti, degli storpi e molti altri malati; li deposero ai suoi piedi, e Gesù li guarì. La folla restò piena di stupore nel vedere che i muti parlavano” (Mt 15:30,31). Qui ci basta ricordare la guarigione di cui si parla in un episodio proprio di Marco.

   Il sordomuto (Mr 7:31-37). Il miracolo si svolge nella Decapoli, dove era già stato guarito l’indemoniato di Gadara. Il racconto dice:

“Gesù partì di nuovo dalla regione di Tiro e, passando per Sidone, tornò verso il mar di Galilea attraversando il territorio della Decapoli. Condussero da lui un sordo che parlava a stento; e lo pregarono che gli imponesse le mani. Egli lo condusse fuori dalla folla, in disparte, gli mise le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; poi, alzando gli occhi al cielo, sospirò e gli disse: ‘Effatà!’ che vuol dire: ‘Apriti!’. E gli si aprirono gli orecchi; e subito gli si sciolse la lingua e parlava bene. Gesù ordinò loro di non parlarne a nessuno; ma più lo vietava loro e più lo divulgavano; ed erano pieni di stupore e dicevano: ‘Egli ha fatto ogni cosa bene; i sordi li fa udire, e i muti li fa parlare’”.

   Il v. 31 crea una difficoltà: “Gesù partì di nuovo dalla regione di Tiro e, passando per Sidone, tornò verso il mar di Galilea attraversando il territorio della Decapoli”. Come mai Yeshùa per andare verso il lago passa per Sidone che lo allontana dal suo percorso?

   Forse si tratta di un errore di audizione. Il betzaidàhn (“attraverso Betsaida”) potrebbe essere stato confuso con betzidòn (“attraverso Sidone”), nome simile. Se così fosse, avremmo: “Partì di nuovo dalla regione di Tiro e, passando per Betsaida, tornò verso il mar di Galilea attraversando il territorio della Decapoli”. Il che quadrerebbe. Oppure si tratta di un errore di trascrizione del testo ebraico originale: all’origine sarebbe stato betzaidàhn (“atraverso Betsaida”, בצידהן), ma un copista potrebbe aver letto betzidòn (“attraverso Sidone”, בצידון). Se i nomi non sono scritti bene si possono confondere:

בצידהן

בצידון

   Si noti la lettera ה. Se non è scritta bene si potrebbe inavvertitamente avereדו . Il trascrittore greco può aver letto betzidòn e quindi riportato Σιδῶνος (Sidònos) anziché Βηθαϊδάν (Bethsaidàn).

   Questo miracolo è posto alla fine di un lungo viaggio che da Tiro, in Fenicia, riporta Yeshùa in Galilea dalla quale aveva dovuto allontanarsi per l’animosità dei giudei. La Decapoli, pur essendo una regione prevalentemente pagana, non era del tutto estranea alle idee ebraiche. Ciò avviene anche oggi nei territori di confine, che assorbono inconsciamente le idee altrui per una specie di simbiosi.

   Saputo che Yeshùa era venuto lì, la gente che ne conosceva per sentito dire la fama gli conduce un sordomuto, probabilmente affetto da una paralisi progressiva che gli impediva di parlare e di udire. Questo si può dedurlo dal v. 35: “Subito gli si sciolse la lingua e parlava bene”. Letteralmente il testo dice: “Si sciolse il legame della sua lingua e parlava correttamente”. Quel “parlava correttamente” è segno che prima già parlava, ma non “correttamente”, incespicando. Le persone interessate che lo accompagnano da Yeshùa “lo pregarono che gli imponesse le mani“ (v. 32): mezzo logico per i pagani affinché il potere taumaturgico passasse dal profeta all’ammalato.

   Yeshùa, adattandosi alla mentalità pagana, trae il malato in disparte, senza alcun testimone: è la prima volta che mette una distanza tra sé e la folla, quasi a documentare a quella gente che il suo era un atto divino. La sacralità esigeva distanza tra il divino e l’umano per esplicarsi. Così, isolandosi dai mortali, Yeshùa si presenta a quella gente come una persona in contatto con la divinità. “Egli lo condusse fuori dalla folla, in disparte” (v. 33). Anche i gesti che compie appartengono allo svolgimento di un rito sacro: dita negli orecchi, saliva sulla lingua e le parole stesse in una lingua sconosciuta al malato (“effathà “, probabilmente ebraico; che Marco traduce: “Che vuol dire: ‘Apriti!’”, v. 34). Dopo questo rito accade il miracolo. La guarigione non è graduale, ma istantanea, avveratasi alla fine del rituale. Con tutta quella laboriosità, Yeshùa si presenta a quei pagani come un inviato da Dio, come un taumaturgo che usa a vantaggio dei bisognosi la potenza divina. Da ciò deriva – nonostante il divieto di parlarne – l’elogio della gente stupefatta: “Ha fatto ogni cosa bene”. – V. 37.

   Altre guarigioni di muti e sordomuti saranno trattate più avanti, trattando degli indemoniati.