Nota: tutte le citazioni bibliche di questo studio – se non altrimenti specificate – sono tratte dalla versione TILC.


 

“Caino si irritò e rimase col volto abbattuto” (Gn 4:5). Caino era geloso e invidioso di suo fratello Abele. Iniziò così a covare un desiderio di vendetta, sebbene Abele non gli avesse fatto alcunché. Questo stato d’animo negativo influenzò il suo comportamento. Anziché calmarsi e riprendere coscienza della realtà, continuò a rimuginare.

“Il Signore disse: ‘Perché ti sei abbattuto? Perché sei tanto scuro in volto? Se agisci bene il tuo volto tornerà sereno, se no, il peccato, che sta accovacciato alla tua porta, vorrà avere il sopravvento su di te. Ma tu devi dominarlo’”. – Gn 4:6,7.

   Caino non era a suo agio con se stesso. Stava male, era “abbattuto” e “scuro in volto”. Stava mettendo in atto un comportamento che andava nel senso opposto rispetto alla sua serenità. Ciò lo portò a commettere un fratricidio; in effetti, il primo assassinio della storia umana: “Caino si scagliò contro Abele suo fratello e lo uccise”. – Gn 4:8.

   “Ma che hai fatto? – riprese il Signore” (Gn 4:10). Forse Caino stesso se lo domandò e la sua coscienza gli poneva la stessa domanda. Il suo comportamento non lo fece star meglio, anzi. Stando ancora più male, disse: “Il mio castigo è troppo grande; come potrò sopportarlo?”. – Gn 4:13.

   Certo, per fortuna, non tutti i nostri cattivi comportamenti ci portano a simili tragiche conseguenze. Tuttavia, i comportamenti sbagliati ci fanno star male, per non dire dei danni che possono causare ad altri.

   Quando mettiamo in atto un comportamento sbagliato, a volte ce ne accorgiamo. Abbiamo allora la sensazione che ciò vada nella direzione opposta alla nostra felicità. “Se agisci bene il tuo volto tornerà sereno”… Già. Eppure, persistiamo in quel comportamento che bene non ci fa. Come Paolo, possiamo pensare: “Non riesco nemmeno a capire quel che faccio: non faccio quel che voglio, ma quel che odio”. – Rm 7:15.

   Spesso, però, non riusciamo neppure ad avere questa consapevolezza. Molti comportamenti sbagliati sono considerati “normali” nella società. I tempi cambiano, spesso non in meglio. Si consideri ciò che fu previsto in 2Tm 3:1-4: “Negli ultimi tempi ci saranno giorni difficili. Gli uomini saranno egoisti, avari, fanfaroni, orgogliosi e bestemmiatori; si ribelleranno ai genitori, non avranno riconoscenza per nessuno e non rispetteranno le cose sante. Saranno senza amore, duri, maldicenti e intrattabili. Saranno violenti, nemici del bene, traditori e accecati dalla superbia, attaccati ai piaceri”. Questi comportamenti, solo alcuni decenni or sono, avrebbero scandalizzato. Oggi sono “normali”. Molte persone religiose non ne sono immuni: “Conserveranno l’apparenza esterna della fede, ma avranno rifiutato la sua forza interiore” (Ibidem, v. 5). “C’è una via che sembra buona” (Pr 14:12). “C’è gente che si crede a posto ma non si è liberata dai suoi vizi!” (Pr 30:12). Non si tratta di moralismo. Stiamo parlando di serenità e di felicità

   Queste “normalità” costituiscono delle trappole. Sono tanto più insidiose perché si tratta di stili di vita radicati nella società, trasmessici perfino con l’educazione, appresi da esempi familiari o dalle nostre stesse esperienze passate. Diventato ormai il nostro modo di vedere le cose, è divenuta una nostra seconda pelle. La giustificazione è già pronta in quello che è ormai un motto: “Mi dispiace, ma sono fatto così e non posso cambiare. Non posso farci niente. Devi accettarmi come sono!” Si tratta di autodifesa.

   Ma c’è di più. Stiamo scrivendo il nostro biglietto da visita e lo esponiamo. Il guaio è che ci appioppiamo da soli un soprannome, non dei migliori. L’usanza di dare soprannomi secondo le caratteristiche personali era comune ai tempi biblici: “Un certo Giuseppe un levita nato a Cipro che gli apostoli chiamavano Bàrnaba (cioè uno che infonde coraggio)” (At 4:36). Il che può essere anche simpatico. Ma se ci diamo noi stessi un soprannome disarmonico? Proviamo ad immaginare un nostro biglietto da visita: vi compare il nostro nome e, sotto, come fosse un titolo, “Irascibile” o “Sognatrice” o “Furbo” o “Timida” o “Appassionato” o “Gelosa”, e così via. Ognuno scelga il suo.

   Ebbene, questo modo di definirci da soli è all’origine di tutti quei comportamenti sbagliati che non ci fanno star bene. Se ci vediamo e ci definiamo così, tenderemo ad assomigliare all’immagine che ci siamo creati. Sarà il nostro stile di vita. E accadrà una di queste due cose: rimarremo bloccati per paura oppure prenderemo strade tortuose. Il risultato però sarà lo stesso: frustrazione, insoddisfazione infelicità. “Perché ti sei abbattuto? Perché sei tanto scuro in volto? Se agisci bene il tuo volto tornerà sereno”.

I comportamenti sbagliati

   Rimuginare sul passato. “Uno spirito maligno . . . s’impadronì di Saul ed egli cominciò ad agitarsi” (1Sam 18:10). Tutto era nato da una vicenda del passato che il re Saul non riusciva a dimenticare. “Quando le truppe tornarono dalla battaglia contro i Filistei nella quale Davide aveva ucciso Golia, da tutti i villaggi degli Israeliti le donne uscirono incontro ai soldati del re Saul. Cantavano e danzavano, suonavano timpani e tamburelli e acclamavano con gioia. Danzando, si alternavano nel coro e cantavano: ‘Saul ha ucciso mille nemici e Davide dieci volte mille!’ Questa canzone non piacque a Saul, anzi ne fu molto irritato” (1Sam 18:6-8). Saul si era rassegnato passivamente a questa situazione, continuando a rimuginare pensieri negativi che lo portarono a deprimersi sempre di più. In questo caso il passato riguardava appena il giorno prima. Non fa differenza se si tratta di ieri oppure di mesi o anni or sono. Gli ebrei nel deserto rimuginarono in continuazione. “Dicevano: ‘Il Signore poteva farci morire nell’Egitto! . . .  Ora voi ci avete portati in questo deserto. Volete far morire di fame tutta questa gente!’” (Es 16:3). E giunse la manna a sfamarli. “Gli Israeliti ripresero a lamentarsi e a dire: ‘Avessimo almeno un po’ di carne! Vi ricordate quel che mangiavamo in Egitto?’” (Nm 11:4,5). E giunsero le quaglie. Arrivati alle soglie della Terra Promessa, gli esploratori ne fecero un rapporto catastrofico: “La gente che vi abita è forte e robusta, vive in città molto grandi e ben fortificate. Abbiamo visto là anche i discendenti del gigante Anak . . . È una terra che fa morire quelli che vi abitano, e laggiù abbiamo visto tutta gente di alta statura, anche i giganti discendenti da Anak. Di fronte a loro sembravamo formiche” (Nm 13:28,32,33). I giganti! E quindi? “Tutta la comunità d’Israele si mise a gridare, e per tutta la notte continuarono a piangere . . . e dissero loro: ‘Meglio se fossimo morti in Egitto o in questo deserto!’” (Nm 14:1,2). Fu una lunga tiritera di “se…”, “se solo…”, rimuginando sul passato. Ma era poi così favoloso quel passato? In verità, in Egitto “soffrivano per la loro schiavitù e alzavano forti lamenti”. – Es 2:23.

   Invece di recriminare ripetendo: “Se solo…”, non sarebbe molto meglio concentrarsi sulle assennate decisioni che si possono ancora prendere? Il passato è passato. L’emozione negativa che ci agita dovrebbe essere “spenta prima del tramonto del sole” (Ef 4:26), altrimenti il giorno dopo reclamerà la sua parte con gli interessi maturati nel rimuginare. Abbiamo solo l’oggi. Ieri non esiste più. Domani non esiste ancora. È oggi il giorno più importante. L’unico che abbiamo davvero a disposizione.

   È dannoso rimuginare sul passato: la nostra storia è un peso inutile; meglio abbandonare le zavorre.

 

   Provare sensi di colpa non sentendosi all’altezza. “Addestra il ragazzo secondo la via per lui” (Pr 22:6, TNM). Quando cercano di farci fare qualcosa che non ci è consono, ciò può causarci ingiustificati sensi di colpa. Noi siano noi. Se tentiamo di adeguarci ad un modello che altri ci impongono, ne avremo solo sofferenza. Ciascuno ha i suoi talenti. Non si tratta d’inferiorità e di superiorità, ma di diversità. “Il corpo infatti non è composto da una sola parte, ma da molte. Se il piede dicesse: ‘Io non sono una mano, perciò non faccio parte del corpo’, non cesserebbe per questo di fare parte del corpo. E se l’orecchio dicesse: ‘Io non sono un occhio, perciò non faccio parte del corpo’, non cesserebbe per questo di essere parte del corpo. Se tutto il corpo fosse occhio, dove sarebbe l’udito? O se tutto il corpo fosse udito, dove sarebbe l’odorato? Ma Dio ha dato a ciascuna parte del corpo il proprio posto secondo la sua volontà. Se tutto l’insieme fosse una parte sola, dove sarebbe il corpo? Invece le parti sono molte, ma il corpo è uno solo.
Quindi l’occhio non può dire alla mano: ‘Non ho bisogno di te’, o la testa non può dire ai piedi: ‘Non ho bisogno di voi’. Anzi, proprio le parti del corpo che ci sembrano più deboli, sono quelle più necessarie”. – 1Cor 12:14-22.

   Occorre avere il coraggio di domandarsi: È proprio quello che fa me? Mi fa sentire bene? Mi realizza? In noi c’è un talento particolare, il nostro. Se questo nostro particolare talento ci fa sentir bene, allora “dal punto al quale siamo giunti, continuiamo ad andare avanti” (Flp 3:16). Se altri si aspettano da noi chissà quali grandi imprese, non siamo obbligati ad assecondarli. Se poi insistiamo a combattere quelle che altri ci fanno credere siano debolezze, arriverà il momento in cui paure e panico ci fermeranno, ricordandoci che non fa per noi.  “Anche se il nostro cuore ci condanna, Dio è più grande del nostro cuore. Egli conosce ogni cosa”. –  1Gv 3:20.

   Le aspettative, mentre rimaniamo impantanati nei sensi di colpa, ci trattengono.

 

   Consumarsi nei dubbi e nell’ossessione di voler capire. Nel racconto intitolato Lo starnuto, di Anton Cechov, l’usciere Ivàn Dmitric Cervjakòv starnutisce, ma poi si accorge che “un vecchietto seduto davanti a lui nella prima fila delle poltrone si asciugava accuratamente col guanto la calvizie e il collo”. Si trattava di “sua Eccellenza il generale Bricàlov, un pezzo grosso”. Iniziano così le sue preoccupazioni. Prima cerca di scusarsi, mentre l’altro gli dice di lasciar perdere. “L’angoscia cominciò a tormentarlo”. Tenta di nuovo di scusarsi, ottenendo solo il fastidio dell’altro. Intanto non vede più la vera realtà, ma vede una realtà filtrata dai suoi dubbi ossessivi: “’Il suo occhio è pieno di malizia’, pensò Cervjakòv guardando sospettosamente il generale”. Tornato a casa racconta l’accaduto alla moglie, che non gli dà troppo peso. Il giorno seguente si veste bene e si reca dal generale e si scusa di nuovo. “Sciocchezze!”, gli risponde l’altro. Ma il povero usciere lo insegue per scusarsi meglio. L’altro non crede ai suoi occhi. Ivàn decide allora di scrivergli una lettera. Non riuscendo a scriverla, torna dal generale, che questa volta lo caccia via. “Cervjakòv sentì rompersi qualcosa nelle viscere. Non vedendo più nulla, non sentendo più nulla, indietreggiò fino alla porta, si trovò in istrada e trascinando i piedi s’incamminò. Arrivato macchinalmente a casa, senza togliersi la divisa, si sdraiò sul sofà e morì”.

   Coltivando i dubbi, il timore di sbagliare diventa un pretesto per non agire diversamente.  

 

   L’ansia di essere il migliore. Se una persona è perfezionista e ha la tendenza a imporsi norme irragionevoli, ogni delusione può provocargli un ingiustificato senso di colpa. “Non pretendere di essere troppo buono e troppo sapiente:  faresti del male a te stesso”  (Ec 7:16). “Accendersi di passione per tutto quel che si vede, essere superbi” (1Gv 2:16) non ci realizza. Ci causa sono infelicità. Migliorarsi potrebbe sembrare un gran bel compito, pieno di nobiltà. Tuttavia, rischia di diventare una corsa verso l’infelicità. Non si diventa più forti, ma si rafforza la poca autostima, per non chiamarla col suo nome: disistima, perché in pratica si sta pensando che così come si è non vada bene. “Avevi deciso di scalare il cielo e di porre il tuo trono sulle stelle più alte . . . Volevi salire in cielo, oltre le nuvole . . . Ora invece sei precipitato”. – Is 14:13,14,15.

   Nell’ansia di essere chissà chi, i modelli che ci imponiamo ci spossano.

 

   L’idealismo. In filosofia l’idealismo è una particolare visione del mondo. Nel platonismo viene privilegiata la dimensione ideale contrapposta a quella materiale, arrivando ad affermare che l’unica vera realtà è di ordine spirituale. Il romanticismo è compagno dell’idealismo. L’idealista è una persona che ispira il suo comportamento a un’idea, ovvero a un modello astratto di perfezione. Da idealismo a ideologia (ovvero un sistema di idee su cui si fondano le proprie opinioni) il passo è breve. Ciò crea un problema: l’atteggiamento diventa unilaterale e l’adesione totale.

   In ciascuno di noi c’è una parte che potremmo definire tenera e che cerca la dolcezza. Ma è solo una parte. Il problema delle idee radicate nella mente è che sono limitate e costringono la nostra vita in un solo settore. Ciò comporta poi che tutto il resto appaia sbagliato. L’idealista non lascia spazio alla sua parte fisica, carnale, umana. Nel campo della fede, l’idealismo diventa religione, ingabbiando le persone. Gli appartenenti a sette cosiddette cristiane vivono spesso in un mondo tutto loro, in una specie di anestesia mentale. Bloccati dalla loro ideologia, non lasciano spazio ai molteplici aspetti della vita, salvo poi attuare comportamenti nascosti che sono sintomo della loro mancata realizzazione. Costoro “conserveranno l’apparenza esterna della fede, ma avranno rifiutato la sua forza interiore”. – 2Tm 3:5.

   Altra cosa è la fede. Lontana dagli estremi opposti delle ideologie idealistiche e del puro materialismo, la vera fede si basa sulla verità rivelata da Dio e si attiene agli insegnamenti divini. “Essi ti aiuteranno a vivere, ti daranno felicità e successo. Così potrai vivere sicuro, e nessun ostacolo ti farà inciampare, dormirai sonni tranquilli e passerai le tue notti nella pace”. – Pr 3:22-24.

   La vera fede non è una cosa pensata: è vissuta. La vera fede ci appassiona alla vita. Alla vita così come l’ha creata Dio: con il cibo, con la sessualità, con il godimento di tutte le cose buone. Anche l’idealista si appassiona, ma per una cosa soltanto, con i paraocchi. La Bibbia, invece, ci apre alla felicità: “Va’, mangia serenamente il tuo pane e bevi con gioia il tuo vino, perché Dio è già contento di te. Porta sempre i vestiti delle feste, il profumo non manchi mai sul tuo capo. Godi la vita con la donna che ami, per questi vuoti e brevi anni che Dio ti lascia vivere. In mezzo alle tante fatiche della vita questa è la tua parte di soddisfazione”. – Ec 9:7-9.

   Se consentiamo di farci bloccare da un’ideologia, la sua unilateralità ci smorza.

 

   Il malinteso senso del dovere. “Io ero fariseo e vivevo nel gruppo più rigoroso della nostra religione” (At 26:5). Qui Paolo riconosce il suo comportamento intransigente di quando era un fariseo. Si era caricato di “doveri” che nessuno aveva preteso: “Si presentò al sommo sacerdote, e gli domandò una lettera di presentazione per le sinagoghe di Damasco. Intendeva arrestare, qualora ne avesse trovati, uomini e donne, seguaci della nuova fede” (At 9:1,2). “Spesso andavo da una sinagoga all’altra per costringerli con torture a bestemmiare. Ero crudele contro i cristiani senza alcun riguardo, e li perseguitavo anche nelle città straniere”. – At 26:11.

   Liberatosi da questo autoimposto senso del dovere, poi riconobbe: “Sono regole e insegnamenti puramente umani. Possono sembrare questioni serie e sapienti perché trattano di devozioni personali, di umiltà o di severità verso il corpo. In realtà non servono a niente. Anzi, servono soltanto a nutrire la nostra superbia”. – Col 2:22,23.

   Molte donne che si consumano interamente in un’eccessiva dedizione ai doveri familiari possono arrivare a sperimentare la depressione. “Con il morale alto si può vincere una malattia, ma un animo depresso come si guarisce?” (Pr 18:14). Quando Mosè giunse al punto di non poterne più per l’eccessivo carico d’impegni, riconobbe: “Non ce la faccio, io da solo, a portare il peso di tutto questo popolo: è troppo per me!”; la soluzione fu delegare. – Nm 11:14-17.

   Yeshùa tenne in considerazione la necessità di bilanciare attività e pause, evitando di strafare negli impegni; disse ai suoi apostoli: “Venite, voi soltanto. Andremo da soli in un posto isolato e vi riposerete un po’”. – Mr 6:31.

 

Più donna

Ricerco la ragazzina che ero:
non ancora donna, lo sguardo già innamorato
e perso ad inseguire il volo dei gabbiani
su quel mare che mi parlava di lui.

Poi fui donna, donna con lui.

Passati gli anni, non so quando e perché accadde:
non so cosa fu né perché lo permisi.
Fu forse il mondo cambiato, non so.
Mi ritrovai a dover essere più donna:
più bella, più giovane, più prestante, più disponibile, più presente.
E più stanca.
Abilissima giocoliera per poter comporre mille impegni e doveri
con la seduttività e la femminilità,
dietro l’apparenza del trucco perfetto.
Sempre più pronta, più generosa, più all’altezza. Più donna.
E più stanca, tanto più stanca.

È giunto ora il tempo dei miei no.
Più perfetta, no.
Più impegnata, no.
Più arrendevole, no.
No, più donna, no.

Voglio esser donna solamente, e non più donna.
E ritrovar me stessa.
E ritrovare il mio tempo:
per me e per amare e – perché no? – per far l’amore.
Donna più, mai più.
Allora sì, sarò più donna.

(Di G. Montefameglio, tratto da Pensieri, Cielo Segreto)

 

   Se pretendiamo di strafare assumendo ruoli fissi, questi ci causeranno conflitti interiori.

   Che davvero possiamo non essere più gli stessi! “Allora sapete cosa dovete fare: la vostra vecchia vita, rovinata e ingannata dalle passioni, dovete abbandonarla, così come si mette via un vestito vecchio; e invece dovete lasciarvi rinnovare cuore e spirito”. – Ef 4:22,23.