Come evitare il male? “Allontànati dal male e fa’ il bene” (Sl 37:27). Occorre prima di tutto saper “discernere il bene e il male” (Eb 5:14). È la santa Legge di Dio che ci fa riconoscere ciò che è male, “perché mediante la legge si ha l’accurata conoscenza del peccato” (Rm 3:20, TNM). I “desideri cattivi” (Col 3:5) che si presentano alla nostra mente, se sono coltivati, fermentano e si trasformano in azioni che producono il male:

“Nessuno, quand’è tentato, dica: ‘Sono tentato da Dio’; perché Dio non può essere tentato dal male, ed egli stesso non tenta nessuno; invece ognuno è tentato dalla propria concupiscenza che lo attrae e lo seduce. Poi la concupiscenza, quando ha concepito, partorisce il peccato; e il peccato, quando è compiuto, produce la morte”. – Gc 1:13-15.

   La strategia giusta è quella adottata da Yeshùa che scacciò sul nascere la tendenza al male (Mt 4:1-11); in ciò occorre essere anche decisi e duri: “Vattene via, Satana!” (v. 10, PdS). Il male si vince anche con il bene (Rm 12:17,19,21; cfr. Flp 4:8). È una battaglia continua che richiede la nostra attenzione (Rm 7:21;8:8). “Confida nel Signore con tutto il cuore e non ti appoggiare sul tuo discernimento. Riconoscilo in tutte le tue vie”. – Pr 3:5,6.

   “Il serpente disse alla donna: ‘No, non morirete affatto; ma Dio sa che nel giorno che ne mangerete, i vostri occhi si apriranno e sarete come Dio, avendo la conoscenza del bene e del male’” (Gn 3:4,5). Questa prospettiva si rivelò falsa. Dopo che ne ebbero mangiato, non divennero “come Dio” ma “si aprirono gli occhi ad entrambi e s’accorsero che erano nudi”. – Gn 3:7.

   La conoscenza in senso biblico non è quella intellettuale, come per gli occidentali. Si tratta di conoscenza sperimentale, acquisita tramite l’esperienza. Adamo ed Eva sperimentarono il male con le sue conseguenze. Anche Dio sperimenta il male? Stando alle traduzioni, parrebbe che divenissero come Dio: “Dio il Signore disse: ‘Ecco, l’uomo è diventato come uno di noi, quanto alla conoscenza del bene e del male’” (Gn 3:22). Qui il “noi” si riferisce alla corte angelica, di cui Dio è sovrano. Comunque, il testo ebraico dice: כְּאַחַד מִמֶּנּוּ לָדַעַת טֹוב וָרָע  (keakhàd mimènu ladàat tov varà), letteralmente “come uno da noi per conoscere bene e male”. Il prefisso מִ (mi) è una preposizione che esprime fondamentalmente il concetto di separazione o allontanamento (cfr. Doron Mittler, Grammatica Ebraica, Zanichelli, Bologna, 2000, pag. 112). Conformemente, la LXX greca traduce: ὡς εἷς ἐξ ἡμῶν (os ecs èia emòn), “come uno da noi”; la preposizione greca ἐκ, ἐξ (ek, ecs) significa “fuori da / da / via da”. Dio e la sua corte angelica non sperimentano il male né la differenza tra bene e male. La prima coppia umana lo sperimentò (conobbe) disubbidendo a Dio. Divennero così “come uno [separato] da [mi, ecs]” loro.

   Per la maledizione di Dio, causata dal primo peccato, la terra avrebbe prodotto “spine e rovi” insieme a buon grano con cui fare il pane (Gn 3:17-19), un misto quindi di bene e male. Ciò continuerà fino alla fine del mondo attuale. Nella parabola di Mt 13:24-30 Yeshùa utilizza lo stesso concetto, facendo vedere come i giusti e i peccatori convivono finché, alla fine del mondo, saranno separati.

   La separazione da Dio è un malinteso senso d’indipendenza. L’essere umano, separato da Dio, è un morto vivente, un moribondo senza prospettiva. Se vive (andando comunque verso la morte), è perché Dio “fa levare il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti” (Mt 5:45). L’essere umano non è il creatore di se stesso. Nel momento stesso in cui è creato, è già in debito con Dio; prima che possa dire “io sono”, già deve riconoscere: “io devo”. Se crede che la sua vita sia solo un prendere, allora si separa da Dio e coglie in continuazione tutti i frutti di alberi che non sono suoi. Se comprende invece che la sua vita è prima di tutto un ricevere, ne farà una risposta di gratitudine. È questo il vero senso della vita. È ubbidendo a Dio che l’essere umano si mostra grato verso il suo Creatore. Scegliendo la disubbidienza, la prima coppia umana infranse l’unico comandamento che all’origine aveva: scelse di stabilire da sé cosa era bene e cosa male. Si separò da Dio.

   Dando all’essere umano la possibilità di esercitare nell’Eden la libertà che gli donò, Dio si espose all’esito della sua libera risposta. Dio è dunque implicato.

   Gli animali furono creati per ubbidire solo all’istinto che Dio ha messo in loro. Sebbene Dio si prenda cura della fauna (Sl 104:10-12,17-21,24), gli animali non sono consapevoli del loro creatore; la loro stessa esistenza, come tutto il creato, è di per sé una lode al creatore di ogni cosa (Sl 19:1;69:34;148:1,3), tuttavia, gli animali non possono entrare in relazione con Dio. È con l’essere umano che Dio si mette in rapporto personale, dispiegandogli il suo amore. Ecco perché l’essere umano fu dotato di libertà, che è manifestazione del rispetto che Dio ha per lui e dell’unicità della loro relazione. Dio, come l’amante del Cantico dei cantici, attende l’amato.

   Il male è contrasto e confusione, è ciò che separa l’essere umano da Dio e dagli altri esseri umani. Adamo ed Eva, dopo la loro scelta, “si nascosero dalla presenza di Dio” (Gn 3:8) e divennero nemici tra loro (Gn 3:12). La disarmonia entrò nel cosmo e nelle relazioni umane.

   Il male ha a che fare con la libertà, vi è legato intimamente. Che cos’è la libertà? Certamente non è lasciar fare alla nostra volontà, perché questa è dominata da motivi che controlliamo. Non è neppure fare ciò che ci pare e piace, perché i capricci del nostro io sono influenzati da fattori esterni. La libertà non è agire senza motivo in condizioni d’incertezza: sarebbe disordinata, più che libera. La libertà implica una scelta, eppure non si esaurisce nella selezione fra diverse possibili motivazioni. La libertà implica valutazione, decisione e presa di responsabilità, eppure non è tutta lì. Finché la libertà agisce nei confini degli orizzonti umani, è una libertà viziata. La vera libertà richiede anche sacrificio. Comporta l’aprirsi a ciò che ci trascende. Se si comprende che prima di essere si deve, si comprende allora che prima d’essere responsabili si deve dare responsi. La libertà non è un diritto che possediamo in modo assoluto: è un dono. Agli animali Dio ha dato l’istinto, agli esseri umani la libertà. Tale libertà è continuamente minacciata dagli inviti, che giungono da ogni dove, a cogliere frutti proibiti che appaiono ‘buoni, belli da vedere e desiderabili’ (Gn 3:6). Assumere un atteggiamento ricettivo, affascinati dalla seduzione insincera di serpi sotto mentite spoglie angeliche, induce a cogliere ciò che sembra d’un tratto irrinunciabile. Salvo poi aprire gli occhi e, per nascondere la propria povera nudità, ricorrere alle foglie di fico della dissimulazione per nasconderci. – Gn 3:7.

   L’autonomia, la vera libertà e l’equilibrio interiore hanno come premessa il nostro stupore di fronte alla meraviglia del sublime, comprendendo che siamo opera di Dio, seguito dal nostro silenzio, dalla capacità di pentirci e di accogliere  la sovranità di Dio ubbidendogli in risposta.

   L’albero che la prima coppia umana non doveva toccare è detto “della conoscenza del bene e del male” (Gn 2:9). Bene e male sono mischiati. Più che distinzione, tra loro c’è confusione. L’essere umano, disubbidendo, non venne a conoscere bene e male separatamente, nella loro purezza. Venne a conoscere come il male agisce sotto forma di bene. Oggi occorre quindi separare il male dal bene, eliminandolo dal bene. Eppure, ciò non è il dilemma principale. La questione più importante in assoluto è il nostro rapporto con Dio. Non si tratta solo di scegliere tra bene e male. Si tratta di scegliere la santità. “Siate dunque santi, perché io sono santo”. Dio ci libera da tutte le schiavitù, da tutti gli Egitto di questo mondo e ci dona la libertà per essere santi: “Io sono il Signore che vi ho fatti salire dal paese d’Egitto, per essere il vostro Dio. Siate dunque santi, perché io sono santo”. – Lv 11:45.

   È la santità, la risposta che la Bibbia dà al male.

   Come appare il nostro mondo allo sguardo di Dio? “Il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che il loro cuore concepiva soltanto disegni malvagi in ogni tempo. Il Signore si pentì d’aver fatto l’uomo sulla terra, e se ne addolorò in cuor suo” (Gn 6:5,6). “Il cuore dell’uomo concepisce disegni malvagi fin dall’adolescenza”. – Gn 8:21.

   Il male è una realtà, ma è sommamente sconfortante che esso metta radici profonde sotto le mentite spoglie del bene. Bene e male convivono, collegati e confusi. La colpa di Israele fu spesso non la mancanza di spiritualità ma la corruzione della spiritualità: “Ha moltiplicato gli altari per peccare, e gli altari lo faranno cadere in peccato. Anche se scrivessi per lui le mie leggi a migliaia, sarebbero considerate come cosa che non lo concerne” (Os 8:11,12). Perfino “anche Satana si traveste da angelo di luce” (2Cor 11:14). Male e bene s’intrecciano. “Ogni situazione, per quanto penosa, è qualcosa di assoluto, e contiene in sé il bene come il male”. – Etty Hillesum.

    Se non si sa distinguere tra bene e male, la preferenza umana andrà sempre all’alleanza con il male, più allettante della non seducente scelta del bene. È tutto qui, in fondo, il messaggio biblico. “Cercate il bene e non il male”, “Odiate il male, amate il bene” (Am 5:14,15). “Smettete di fare il male; imparate a fare il bene” (Is 1:16,17). “Allontànati dal male e fa’ il bene”. – Sl 34:14.

    Bene e male non sono due qualità tra tante caratteristiche buone o cattive. Il bene fa bene ed è vita; il male fa male ed è morte. “Vedi, io metto oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male” (Dt 30:15). Distinguere tra bene e male significa distinguere tra vita e morte.

   Il nostro io, contaminato dalla scelta scellerata dei nostri primogenitori, è un avversario molto potente del bene. Il male promette piacere, profitto e utilità; la ricompensa appare immediata “La donna osservò che l’albero era buono per nutrirsi, che era bello da vedere e che l’albero era desiderabile” (Gn 3:6). “Mi trovo dunque sotto questa legge: quando voglio fare il bene, il male si trova in me. Infatti io mi compiaccio della legge di Dio, secondo l’uomo interiore, ma vedo un’altra legge nelle mie membra, che combatte contro la legge della mia mente e mi rende prigioniero della legge del peccato che è nelle mie membra. Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte?”. – Rm 7:21-24.

   La risposta che Paolo diede al suo dilemma è un grido di gratitudine e di lode: “Grazie siano rese a Dio per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore” (Rm 7:25). “Grazie a Dio, poiché egli ci dà la vittoria per mezzo del nostro Signore Gesù Cristo!” (1Cor 15:57, TNM). È Dio che tramite Yeshùa provvede la salvezza. La questione più importante è dunque il nostro rapporto con Dio, non il male. Il male o, meglio, la sua conseguenza, entrò nel mondo quando la prima coppia umana disubbidì all’unico comando che Dio aveva dato. La risposta che la Bibbia dà al male non è semplicemente il bene ma l’ubbidienza a Dio. L’ubbidienza a Dio è dovuta perché egli è il nostro creatore, e ciò che per lui è bene, lo è anche per noi. Nella nostra misera e peritura esistenza, possiamo fare tante cose senza Dio, ma non possiamo decidere quale sia il vero valore con cui condurre la nostra vita. Non basta neppure credere nella redenzione di Dio: occorre credere e ubbidire.

   Nella sua onniscienza, Dio sapeva che l’essere umano avrebbe disubbidito e si sarebbe attirato la sofferenza e infine la morte. Anziché vedere in ciò un’ingiustizia, occorrerebbe vedervi una prova che Dio ha un piano. La sentenza di morte per disubbidienza, infatti, non fu eseguita istantaneamente. Sebbene le traduzioni dicano: “Nel giorno che tu ne mangerai, certamente morirai”(Gn 2:17), il testo biblico afferma: מֹות תָּמוּת (mot tamùt), “morendo morirai”. La pena fu messa in effetto gradualmente. In tal modo poté essere impartita una lezione efficace sulle deleterie conseguenze del peccato. Tale lezione non avrà più necessità di essere impartita di nuovo: è di profitto, per chi l’impara, per tutta l’eternità. “Signore, affinché io mi conosca è sufficiente che tu getti l’ancora del dolore. Tu tiri la coda e io mi risveglio” (A. de Saint Exupéry, Presénce, n. 95). Per dirla con il poeta A. de Musset: “L’uomo è un apprendista, il dolore è il suo maestro e nessuno conosce se stesso finché non ha sofferto”. – Nuit d’octobre.

   La condanna non è eterna.

“La creazione è stata sottoposta alla vanità, non di sua propria volontà, ma a motivo di colui che ve l’ha sottoposta, nella speranza che anche la creazione stessa sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella gloriosa libertà dei figli di Dio. Sappiamo infatti che fino a ora tutta la creazione geme ed è in travaglio; non solo essa, ma anche noi, che abbiamo le primizie dello Spirito, gemiamo dentro di noi, aspettando l’adozione, la redenzione del nostro corpo”. – Rm 8:20-23.

   La giustizia di Dio si attua nel suo piano. La condanna per la disubbidienza non è infinita e immutabile. Dio ha provveduto un secondo Adamo che, a differenza del primo, si mostrò ubbidiente. “Il primo uomo, Adamo, divenne anima vivente; l’ultimo Adamo è spirito vivificante” (1Cor 15:45). “Come tutti muoiono in Adamo, così anche in Cristo saranno tutti vivificati”. – 1Cor 15:22.

   “Così parla il Signore degli eserciti: ‘Se ciò sembrerà impossibile agli occhi del resto di questo popolo in quei giorni, sarà forse impossibile anche agli occhi miei?’” (Zc 8:6). Questa traduzione è conforme al testo greco della LXX, ma il testo originale ebraico dice: “Se sarà meraviglioso [יִפָּלֵא (yipalè)] agli occhi del resto di questo popolo in quei giorni, anche ai miei occhi sarà meraviglioso [יִפָּלֵא (yipalè)]”. – Testo Masoretico, cfr. Mt 19:26.

   Perfino la cosiddetta saggezza popolare dei proverbi sentenzia che “si raccoglie ciò che si semina”. “Non vi ingannate; non ci si può beffare di Dio; perché quello che l’uomo avrà seminato, quello pure mieterà. Perché chi semina per la sua carne, mieterà corruzione dalla carne; ma chi semina per lo Spirito mieterà dallo Spirito vita eterna. Non ci scoraggiamo di fare il bene; perché, se non ci stanchiamo, mieteremo a suo tempo. Così dunque, finché ne abbiamo l’opportunità, facciamo del bene”. – Gal 6:7-10.

   La natura ubbidisce alle sue leggi in tutti i campi (Mt 7:17,18). La vita sarebbe impossibile senza leggi. Nessuno salirebbe più a bordo di una nave, se non potesse fare affidamento sulla costanza della legge fisica scoperta da Archimede e per la quale ogni corpo immerso in un liquido riceve una spinta verticale dal basso verso l’alto uguale per intensità al peso volumetrico del fluido spostato. Né qualcuno imbarcherebbe più su un aereo se non fosse sicuro dell’immutabilità della legge fisica rappresentata dallo scienziato svizzero Daniel Bernoulli e secondo cui con l’incremento della velocità si ha una diminuzione della pressione, così che, grazie alla curvatura superiore delle ali dell’aereo, l’aria scorre più velocemente diminuendo la pressione e facendo sì che la pressione maggiore sulla parte inferiore delle ali (in cui l’aria scorre meno velocemente) faccia sollevare l’aereo. E chi seminerebbe più grano se ne uscissero ora spine ora erbaccia? Che ci siano leggi immutabili è condizione necessaria alla vita.

   La sofferenza ha anche aspetti positivi: “Dio vi tratta come figli; infatti, qual è il figlio che il padre non corregga? Ma se siete esclusi da quella correzione di cui tutti hanno avuto la loro parte, allora siete bastardi e non figli. Inoltre abbiamo avuto per correttori i nostri padri secondo la carne e li abbiamo rispettati; non ci sottometteremo forse molto di più al Padre degli spiriti per avere la vita? Essi infatti ci correggevano per pochi giorni come sembrava loro opportuno; ma egli lo fa per il nostro bene, affinché siamo partecipi della sua santità. È vero che qualunque correzione sul momento non sembra recare gioia, ma tristezza; in seguito tuttavia produce un frutto di pace e di giustizia in coloro che sono stati addestrati per mezzo di essa”. – Eb 12:7-11.

   Entro certi confini possiamo dire che la sofferenza è necessaria alla vita: ha il ruolo di avvertirci quando siamo in prossimità di un pericolo. Se non soffrissimo il freddo, rischieremmo il congelamento passeggiando su una montagna innevata. Se non soffrissimo la sete, moriremmo per disidratazione. In questo senso, provare dolore è un salvaguardia.

   Quando però ogni cosa sarà riconciliata e gli uomini abiteranno sulla nuova terra, Dio “asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non ci sarà più la morte, né cordoglio, né grido, né dolore, perché le cose di prima sono passate”. – Ap 21:4.