9 – “Non attestare il falso”. – Es 20:16. 

 

Fra le meravigliose gemme che compongono il diadema del Decalogo, questa è la più scintillante e trasparente: brilla della chiarezza della sincerità. Dopo l’insegnamento dell’unità, della purezza e della giustizia, verso la vetta della santità appare l’insegnamento della verità e della sincerità.

   Questo precetto non dice: Ama la verità; non dice neppure: Cerca la verità. La sua formulazione – “Non attestare il falso” – appare negativa (non), ma lo è solo in apparenza. Il testo originale ebraico ha לֹא־תַעֲנֶה בְרֵעֲךָ עֵד שָׁקֶר (lo-taanèh vereachà ed shàqer): “Non risponderai a[l] tuo prossimo [come] testimone falso”. La versione del nono Comandamento in Dt 5:20 è וְלֹא־תַעֲנֶה בְרֵעֲךָ עֵד שָׁוְא (lo-taanèh vereachà ed shav): “Non risponderai a[l] tuo prossimo [come] testimone vuoto”, ovvero “non rendere una testimonianza senza contenuto”. Le due formulazioni s’integrano e completano lo stesso identico Comandamento. In pratica il Comandamento sta ingiungendo: Non rispondere al tuo prossimo con un’attestazione che affermi il falso e neppure con una che semplicemente non affermi il vero. Forse le donne comprendono di più queste sfumature, giacché – quando mentono – hanno un modo tutto loro di farlo: tacendo delle cose o dicendo mezze verità. Per la Bibbia, quindi, falsità e reticenza sono due modi di non dire la verità. Il Comandamento li colpisce ambedue.

   C’è di più. Il precetto che vieta di rispondere con testimonianza vuota (שָׁוְא, shav) pare non contenere solo la condanna della reticenza, ma anche il comando di cercare la verità. Ecco perché il Comandamento negativo assume un contenuto positivo. Non ci si faccia quindi ingannare dalla sciatta traduzione che i catechismi fanno del nono Comandamento: esso non si esaurisce nell’obbligo di non rendere falsa testimonianza in giudizio.

   La verità non deve essere affermata solo in giudizio, nell’aula di un tribunale. La dichiarazione di verità in questa circostanza è soltanto quella più appariscente, poiché le sue conseguenze appaiono subito nella sentenza. Ciò spiega perché la testimonianza in tribunale avviene seguendo certe formalità e pronunciando finanche certe formule. Inoltre, tutte le legislazioni prevedono sanzioni per la falsa testimonianza. Tuttavia, va detto che nella legislazione italiana non esiste un dovere di verità delle parti nel processo civile: il legislatore del codice vi ha sostituto il dovere di agire con lealtà e probità (Scarselli 1998, 91); l’imputato nel processo penale, poi, ha il diritto di non parlare e persino di mentire; non è però vero che non esiste alcuna sanzione avverso la parte che dichiari il falso: l’art. 371 c.p., infatti, punisce severamente lo spergiuro; nel nostro ordinamento, è il testimone che ha l’obbligo di dire il vero e di non nascondere ciò che conosce, diversamente dalla parte che non ha alcun obbligo di riferire anche fatti favorevoli alla controparte e a sé sfavorevoli.

   Il diritto biblico applicava senza attenuazioni la legge del taglione in caso di falsa testimonianza: “Quando un falso testimone si alzerà contro qualcuno per accusarlo di un delitto, i due uomini tra i quali ha luogo la contestazione compariranno davanti al Signore, davanti ai sacerdoti e ai giudici in carica in quei giorni. I giudici faranno una diligente inchiesta; se quel testimone risulta un testimone bugiardo, che ha deposto il falso contro il suo prossimo, farete a lui quello che egli aveva intenzione di fare al suo prossimo. Così toglierai via il male di mezzo a te. Gli altri lo udranno, temeranno, e non si commetterà più in mezzo a te una simile malvagità. Il tuo occhio non avrà pietà: vita per vita, occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede”. – Dt 19:16-21.

   Dicevamo che l’obbligo di deporre la verità senza reticenze in giudizio è solo uno degli aspetti del nono Comandamento, il più appariscente. Il precetto si applica a tutti e in ogni luogo. Tuttavia, il Comandamento non nega che ci siano dei casi in cui sia consentito tacere e non richiede che si dicano sempre, a qualunque costo, delle spiacevoli verità. Si noti la sua formulazione: לֹא־תַעֲנֶה (lo-taanèh), “non risponderai”. S’intende: quando sei interrogato dal tuo prossimo. Infatti, il rispondere presuppone una domanda. Solo quando si è interrogati sulla verità di un fatto o di una circostanza, sorge l’obbligo assoluto di dire la verità e di non tacerla. Quando manca l’interrogazione, il tacere è permesso e, in molti casi, raccomandabile. Si noti poi che il Comandamento obbliga a dire la verità בְרֵעֲךָ (vereachà), letteralmente, “a prossimo di te”. Nella visuale popolare il “prossimo” è inteso genericamente come chiunque. Se a un “cristiano” si domandasse chi è il suo prossimo, probabilmente risponderebbe: tutti, chiunque. Eppure, Yeshùa dovette usare una parabola per spiegare che il “prossimo” non è chiunque (Lc 10:29-37). La parola ebraica רֵעַ (reà) indica non solo l’amico, ma il congiunto, il connazionale, il vicino di casa; può essere anche uno straniero e uno sconosciuto, ma non tutti gli stranieri e gli sconosciuti. Una persona malvagia non è un רֵעַ (reà). Si noti anche che il Comandamento non dice semplicemente בְרֵע (vereà), “a prossimo”, ma dice בְרֵעֲךָ (vereachà), “a prossimo di te”; chi è prossimo per qualcuno può non esserlo per altri. Non bisogna quindi rispondere dicendo la verità a chi domanda col desiderio ostile di valersi della nostra risposta per un fine cattivo. Qui la non risposta o la risposta evasiva appare lecita. Si rammenti che i Comandamenti sono fatti per guidare i giusti, non per dare armi ai malvagi.

   La verità che il precetto ci comanda di dire è alla base della Scrittura stessa: “La tua parola è verità” (Gv 17:17), “Tutta la tua parola è fondata sulla verità” (Sl 119:160, PdS). Gli stessi Comandamenti sono verità: “Tutti i tuoi comandamenti sono verità” (Sl 119:151). Confermando il Comandamento in tutti i suoi aspetti, Paolo afferma: “Bandita la menzogna, ognuno dica la verità al suo prossimo”. – Ef 4:25.

   La verità è una come Dio è uno. Nel moderno relativismo si sostiene che non esistano verità assolute. La gente che riflette poco dice che ci sono tante verità e che ognuno ha la sua. Niente di più falso. La verità può essere solo una, sempre. Ad esempio, uno può dire verde e un altro rosso, ma la verità può essere una sola tra queste quattro possibilità: 1. È verde; 2. È rosso; 3. È di un altro colore; 4. È incolore. Non c’è via di scampo. Se poi uno vede rosso e l’altro verde, possiamo parlare di diversa percezione della verità, ma la verità resta una e solo una.

   Essendo la verità un aspetto di Dio stesso, possiamo affermare con tutta certezza che dal precetto di amare Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze (Dt 6:5) possiamo trarre anche che la verità vada amata e ricercata.

   Sebbene la Verità sia una e assoluta come la Divinità, la nostra conoscenza di entrambe è imperfetta. “Ora vediamo come in uno specchio, in modo oscuro; ma allora vedremo faccia a faccia; ora conosco in parte; ma allora conoscerò pienamente” (1Cor 13:12). Il Comandamento è diretto al nostro cuore e alla nostra mente (Eb 8:10) perché cerchiamo il più possibile di avvicinarci a una conoscenza sempre più perfetta senza appagarci mai di quella raggiunta.

   Il concetto di sincerità è parallelo al concetto dell’amore per Dio. Quindi, come quest’amore può essere grandissimo anche con una conoscenza imperfetta, così la sincerità (intesa come amore di verità) può esserlo anche se della verità non si ha una conoscenza completa.

   Non è l’ignoranza della verità che è colpita dal nono Comandamento, ma la menzogna, la cosciente negazione della verità che conosciamo. In più, la menzogna reca con sé altri vizi, giacché raramente la menzogna è fine a se stessa. La menzogna è di solito conseguenza d’altri peccati o premessa per compierne. Anania e sua moglie Saffira volevano solo far bella figura con gli apostoli vendendo un loro possedimento per darne il ricavato ai fratelli in fede (sebbene nessuno l’avesse chiesto loro), e questo era già in sé un peccato di menzogna; ma per coprirlo mentirono dichiarando un importo inferiore e trattenendosi segretamente parte del ricavato (At 5:1-3). Amnon proferisce una serie di menzogne per attirare la sua sorellastra Tamar e avere un rapporto incestuoso con lei: si finge malato, chiede che Tamar allievi la sua finta indisposizione inventandosi il desiderio che cucini per lui, infine le mente per attirarla: “Portami il cibo in camera e lo prenderò dalle tue mani”, ma non vuole davvero il cibo; tutta questa serie di menzogne preparano il suo peccato: l’incesto e la violenza carnale ai danni della sorellastra (2Sam 13:6-14). I germi del male sono sterilizzati dalla sincerità: ecco il grande valore di questo Comandamento. La trasgressione genera trasgressione, ma l’osservanza genera osservanza. Ciò è particolarmente vero per questo Comandamento che ci chiede la sincerità. Esso è bello e puro.

   Se si comprende tutto ciò che di meraviglioso implica questo precetto, si comprende anche come sia difficile osservarlo. Dato che ci insegna a non fare false affermazioni, è evidente che esso condanna anche la vanagloria, la calunnia, l’adulazione e l’ipocrisia. È quindi richiesto da parte nostra un serio e frequente esame di coscienza per scoprire se i nostri atteggiamenti ci fanno pavoneggiare, se facciamo credere di avere qualità che non possediamo ancora, se sminuiamo gli altri per attirare su di noi l’attenzione, se in qualche modo mentiamo a noi stessi e agli altri. Questo Comandamento che ci chiama alla sincerità è davvero penetrante come tutta la parola di Dio: “La parola di Dio è vivente ed efficace, più affilata di qualunque spada a doppio taglio, e penetrante fino a dividere l’anima dallo spirito, le giunture dalle midolla; essa giudica i sentimenti e i pensieri del cuore”. – Eb 4:12.

   Sebbene sia spesso difficile aprirci alla verità, la sincerità è come aria fresca e nuova che entra quando apriamo la finestra della nostra mente. Nel nostro desiderio d’ubbidienza alla parola di Dio, ci conforta questa verità:

“Questi ordini, che oggi vi do, non sono incomprensibili per voi, e neppure irraggiungibili. Essi non stanno in cielo, così da dover dire: ‘Chi salirà in cielo e li porterà a noi, perché possiamo conoscerli e metterli in pratica?’. Essi non stanno neppure al di là del mare, così da dover dire: ‘Chi andrà al di là del mare e li porterà a noi, perché possiamo metterli in pratica?’. La parola del Signore è molto vicina a voi, l’avete imparata e la conoscete bene; vi è possibile metterla in pratica”. – Dt 30:11-14, PdS.

Ogni credente può, se vuole, camminare nella luminosa via del Signore.