Nota:

In questo studio, citando TNM sarà sostituita alla parola italiana quella originale ebraica; ciò sarà indicato così: TNM*.


 

Finora abbiamo visto molti casi biblici in cui si dice – alludendo ad aspetti diversi (bisogno, desiderio, sentimenti, sangue, vita) – che l’essere umano ha una nèfesh. Ma ci sono passi in cui la Bibbia dice che la persona è nèfesh.

   Questo nuovo significato di nèfesh e la differenza con gli altri significati che abbiamo esaminato, viene chiarito soprattutto dal rapporto esistente tra vita e nèfesh, rapporto che abbiamo visto nello studio precedente.

   Nelle espressioni in cui si dice che l’essere umano è nèfesh dobbiamo escludere che nèfesh assuma il valore di vita: è, infatti, proprio la vita che viene attribuita alla nèfesh. Quando la Bibbia dice che la persona è nèfesh non si indica ciò che uno ha, ma ciò che è, e a cui la vita viene attribuita.

   Testi biblici di carattere giuridico tratti dal codice di santità provano che le cose stanno così.

“In quanto a qualunque uomo della casa d’Israele o a qualche residente forestiero che risiede come forestiero in mezzo a voi il quale mangi qualsiasi sorta di sangue, certamente porrò la mia faccia contro la nèfesh che mangia il sangue, e in realtà la stroncherò di fra il suo popolo”. – Lv 17:10, TNM*.

   Qui è necessario tradurre nèfesh con “persona”, pur facendo attenzione al fatto che qui si parla di una nèfesh che mangia (cfr. v. 15). Comunque, spesso manca anche questa connessione. Lv 20:6 parla della nèfesh come della persona che si rivolge ai medium per avere rapporti sessuali. Lv 23:30 dice: “In quanto a ogni nèfesh che farà qualsiasi sorta di lavoro in questo stesso giorno [lo yòm kipùr, Giorno dell’Espiazione], devo distruggere quella nèfesh di fra il suo popolo” (TNM*). Esaminando bene quest’ultimo passo si vede che nèfesh indica la singola persona in contrapposizione al popolo (cfr. anche Lv 19:8;22:3; Nm 5:6;9:13). Non è un caso che gli ebrei abbiano usato la parola nèfesh sia per indicare – come abbiamo già visto – la gola, che attraverso la funzione del respirare e del mangiare sopperisce ai bisogni del singolo, che per indicare la singola persona.

   Pur indicando nèfesh la singola persona, è resa possibile anche l’immagine plurale di nefashòt. Questo avviene quando ci si riferisce ad un numero maggiore di individui. “Nel caso che qualcuno faccia una qualunque di tutte queste cose detestabili, le nefashòt [נְּפָשֹׁות] che le fanno devono essere stroncate di fra il loro popolo” (Lv 18:29, TNM*). Quando Ger 43:6 elenca i gruppi di persone che saranno portati in Egitto, il testo menziona in primo luogo “gli uomini robusti [“robusti” è qui un’aggiunta della traduzione, per giusta fuori luogo: il testo non fa menzione alla prestanza fisica degli uomini] e le mogli e i fanciulletti e le figlie del re”, poi prosegue: “E ogni nèfesh che Nebuzaradan capo della guardia del corpo aveva lasciato stare con Ghedalia . . ., e Geremia il profeta e Baruc” (TNM*). Qui nèfesh è usato in senso collettivo per indicare un gruppo di singole persone.

   Lo stesso avviene in Gn 12:5 dove si enumera tutto ciò che Abraamo prese con sé in Haran alla volta di Canaan: “Sarai sua moglie e Lot figlio di suo fratello e tutti i beni che avevano accumulato e le anime che avevano acquistato” (TNM). Qui abbiamo riportato la traduzione tal quale, perché occorre fare un’osservazione. Leggendo “le anime” il lettore potrebbe pensare che sia stato tradotto dall’ebraico il plurale di nèfesh, ovvero nefashòt. Non è così. La Bibbia dice: וְאֶת־הַנֶּפֶשׁ (veèt-hanèfesh), in cui ve è la congiungine “e”, et è il segno intraducibile dell’accusativo e ha è l’articolo determinativo di nèfesh. Letteralmente si ha: “E ogni bene di loro che acquistarono e la nèfesh che fecero”. Quest’ultima espressione indica nel passo tutto il personale che Abraamo prese con sé. Si tratta dell’uso di nèfesh (singolare) in senso collettivo.

   Quest’uso collettivo di nèfesh si dimostra molto significativo in quei passi in cui vengono riportati dati numerici. “Questi sono i figli di Lea, che essa partorì a Giacobbe in Paddan-Aram, insieme a sua figlia Dina. Tutte le anime [ebraico כָּל־נֶפֶשׁ (col-nèfesh), “ogni nèfesh”] dei suoi figli e delle sue figlie furono trentatré” (Gn 46:15, TNM); “Questi sono i figli di Zilpa, che Labano diede a sua figlia Lea. A suo tempo essa partorì a Giacobbe questi: sedici anime [ebraico נָפֶשׁ (nèfesh), al singolare]” (Ibidem v. 18); “Questi sono i figli di Bila, che Labano diede a sua figlia Rachele. A suo tempo essa partorì a Giacobbe questi; tutte le anime [ebraico כָּל־נֶפֶשׁ (col-nèfesh), “ogni nèfesh”] furono sette” (Ibidem v. 25). “Tutte le anime [ebraico נֶפֶשׁ (nèfesh), al singolare] furono sessantasei” (Ibidem v. 26). La LXX greca traduce i singolari nèfesh con il plurale ψυχαὶ (psüchài), “anime”; lo stesso fa la Vulgata con il latino animae. Ciò indica ulteriormente l’uso collettivo del singolare nèfesh. Con questa espressione vengono evidentemente indicati i singoli individui umani. In Nm 19:18 l’acqua della purificazione deve essere versata su tutte le nefashòt (qui al plurale), indicando naturalmente tutte le singole persone.

   Come abbiamo visto, in tutti questi passi il concetto di nèfesh è spostato dal significato di vita a quello di singola persona.

   In tal modo diventa comprensibile l’espressione nèfesh met che ricorre in Nm 6:6: “Non venga verso [= non si avvicini a] alcun’anima morta” (TNM). L’ebraico ha נֶפֶשׁ מֵת  (nèfesh met). È errata l’interpretazione di questa espressione ebraica che ne fa la nota in calce di TNM: “O, ‘anima di un morto’. Ebr. nèfesh meth”. L’ebraico nèfesh met non indica affatto un’anima morta né tanto meno l’anima di un morto! Non indica neppure una vita uccisa. Indica la persona deceduta. Traduce bene la LXX: ψυχῇ τετελευτηκυίᾳ (psüchè teteleuteküìa), “psüchè deceduta”. Traduce bene anche la Vulgata: mortuum. E anche CEI: “cadavere”. Il passo dice che un nazireo non deve accostarsi ad un cadavere per tutto il tempo della sua consacrazione. È degno di attenzione il fatto che in singoli passi nèfesh (anche senza essere accompagnato da met) indica ugualmente il cadavere di una persona morta. – Nm 5:2;6:11.

   Quest’uso particolare di nèfesh, riferito ad un cadavere, ci chiarisce un fatto importante: l’espressione nèfesh chayàh (nèfesh vivente) non contiene un aggettivo superfluo. Indica una realtà vivente. Così, in Gn 1:20 non tratta di cadaveri che galleggiano nell’acqua, ma di “nèfesh viventi” che brulicano nelle acque:נֶפֶשׁ חַיָּה  (nèfesh chayàh); ψυχῶν ζωσῶν (psüchòn zosòn). –  LXX.

   L’uomo stesso, in Gn 2:7, viene definito “nèfesh vivente”: נֶפֶשׁ חַיָּה (nèfesh chayàh). Il primo uomo non è tale semplicemente per la sua formazione “dalla polvere della terra”, ma lo diventa soltanto allorché Dio gli immette nella narici “l’alito vitale”: “E l’uomo divenne un’anima vivente [נֶפֶשׁ חַיָּה (nèfesh chayàh), “nèfesh vivente”]”.

   L’espressione nèfesh chayàh applicata ad Adamo (Gn 2:7) non introduce alcuna differenza tra l’uomo e gli animali che pure, prima di lui, erano stati chiamati nèfesh chayàh (Gn 1:20,24). La differenza umana sta nel fatto che l’essere umano è creato a immagine e somiglianza degli esseri divini: “Dio disse: ‘Facciamo l’uomo a nostra immagine, conforme alla nostra somiglianza’”. – Gn 1:26.