Come bisogna intendere il passo di Es 6:2,3? Qui Dio dice a Mosè: “Io sono Geova. E apparivo ad Abraamo, Isacco e Giacobbe come Dio Onnipotente, ma rispetto al mio nome Geova non mi feci conoscere da loro”. È facile per il moderno lettore occidentale applicare i propri schemi mentali e intendere qui che il nome “Geova” (in verità Yhvh) non fosse stato rivelato ai tre patriarchi. Smentiamo subito questa interpretazione, poi cercheremo di capire il passo.

   Abraamo. “Geova gli apparve [ad Abraamo] poi fra i grossi alberi di Mamre, mentre sedeva all’ingresso della tenda verso il caldo del giorno. Quando alzò gli occhi, allora guardò ed ecco, tre uomini stavano in piedi a una certa distanza da lui. Quando li scorse, correva loro incontro dall’ingresso della tenda, e si inchinava a terra. Quindi disse: ‘Geova, se, ora, ho trovato favore ai tuoi occhi, ti prego di non passare senza fermarti dal tuo servitore’” (Gn 18:1-3). Come si vede, Abraamo non solo conosceva il “nome”, ma lo usava.

   Isacco. “[Isacco] disse: ‘Perché ora Geova ci ha dato ampio spazio e ci ha resi fecondi sulla terra’” (Gn 26:22). Come si nota, anche Isacco conosceva il “nome” e lo usava.

   Giacobbe. In Gn 28:13 Dio dice a Giacobbe: “Io sono Geova l’Iddio di Abraamo tuo padre e l’Iddio di Isacco”.

   È più che evidente che quando Dio dice a Mosè che ‘non si fece conoscere da loro rispetto al suo nome Yhvh’, intende tutt’altro che far conoscere il “nome” in se stesso.

   Abraamo, Isacco e Giacobbe usavano di continuo quel nome. Ma esso stava per essere rivelato sotto un aspetto nuovo e meraviglioso. Non che Dio volesse cambiarsi nome, no davvero. Si trattava di altro.

Conoscere il Nome: cosa significa?

   Dobbiamo ricordare che nella Bibbia il nome indica l’essenza stessa della persona. Dio stava per rivelare se stesso – nel linguaggio biblico, il suo “nome” – in tutta la sua potenza e il suo amore. Gli ebrei avrebbero conosciuto il suo nome, ovvero lui stesso, quando avrebbero visto fino a che punto sarebbe arrivato per far sì che la sua cura per Israele si dispiegasse fino in fondo.

   Gli israeliti stavano per divenire testimoni delle spaventose Dieci Piaghe. Il popolo di Dio stava per essere salvato attraverso il Mar Rosso. Avrebbero poi ricevuto la meravigliosa Legge (toràh, “insegnamento”) divina al monte Sinày, in circostanze tali da farli tremare terrorizzati. In seguito sarebbero stati protetti attraverso il deserto, per essere infine introdotti nella Terra Promessa. – Dt 1:19; Es 6:7,8;14:21-25;19:16-19.

   “Quelli che conoscono il tuo nome confideranno in te, poiché certamente non lascerai quelli che ti cercano”. – Sl 9:10.

   Di certo Ez 39:7 non si riferisce alla conoscenza del nome in sé quando Dio vi afferma: “Farò conoscere il mio santo nome in mezzo al mio popolo Israele”; infatti, quel nome – inteso come anagrafico, per capirci – lo conoscevano già da secoli. Allo stesso modo, Yeshùa non si riferiva di certo alla conoscenza delle lettere che compongono il nome di Dio quando disse: “Io ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere”. Interpretare così, all’occidentale, sarebbe oltremodo banale, perché Yeshùa non andava in giro a insegnare il nome divino in se stesso. Di certo questa interpretazione non sarebbe biblica. Il senso della sua dichiarazione Yeshùa lo spiega lui stesso aggiungendo: “Affinché l’amore col quale mi hai amato sia in loro e io unito a loro”. – Gv 17:26.

La non risposta di Dio a Mosè

   “‘Qual è il suo nome?’ Che dirò loro?” (Es 3:13). Mosè vuol sapere il nome di Dio. Ma non lo sapeva già? Tutti gli ebrei si erano sempre riferiti a Dio come a Yhvh. Evidentemente Mosè era consapevole che quella formula non era proprio un nome, ma era il modo misterioso con cui ci si doveva riferire a Dio. Ma il suo nome, quello vero? Vista la confidenza con Dio – di cui Mosè godeva fino al punto che Dio parlava “a Mosè faccia a faccia, proprio come un uomo parlerebbe col suo prossimo” (Es 33:1) – egli osa la domanda. Certo con prudenza, usando un giro di parole e attribuendo la domanda ad altri: “Supponiamo che . . . ed essi realmente mi dicano: ‘Qual è il suo nome?’ Che dirò loro?”. – Es 3:13.

   Gli angeli furono riottosi nel rivelare il proprio nome e, di fatto, non lo rivelarono. Come avrebbe risposto Dio?

   “A ciò Dio disse a Mosè:” (v. 13). Si noti molto attentamente, ma davvero molto attentamente. “A ciò”, cioè alla richiesta di Mosè, Dio “disse”. La Bibbia dice che in realtà Dio non rispose alla richiesta di Mosè. Ma “disse” qualcosa. Per tutta risposta, Dio “disse”: “IO MOSTRERÒ D’ESSERE CIÒ CHE MOSTRERÒ D’ESSERE”. – V 14, il maiuscoletto è di TNM.

   Qui occorre fare bene attenzione. Dobbiamo esaminare la frase di Dio nell’originale per comprenderla dovutamente.

 

אהיה אשר אהיה

ehyèh ashèr ehyèh

sono/sarò colui che sono/sarò

 

Interessante è la nota in calce di TNM a Es 3:14:

 

“IO MOSTRERÒ D’ESSERE CIÒ CHE MOSTRERÒ D’ESSERE”. Ebr. אהיה אשר אהיה (’Ehyèh ’Ashèr ’Ehyèh), l’espressione con cui Dio chiama se stesso; Leeser: “IO SARÒ QUEL CHE SARÒ”; Rotherham: “Io diverrò qualunque cosa mi piaccia”. Gr. Egò eimi ho on, “Io sono L’Essere”, o “Io sono Colui che esiste”; lat. ego sum qui sum, “Io sono colui che sono”. ’Ehyèh deriva dal verbo ebr. hayàh, “divenire; mostrar d’essere”. Qui ’Ehyèh è all’imperfetto, prima persona sing., e significa “Io diverrò”, o “Io mostrerò d’essere”. Qui non si fa riferimento all’autoesistenza di Dio, ma a ciò che egli ha in mente di divenire nei confronti di altri. Cfr. nt. a Ge 2:4, “Geova”, dove un verbo ebr. affine, ma diverso, hawàh, compare nel nome divino.

 

   Secondo questa nota, la locuzione divina sarebbe “l’espressione con cui Dio chiama se stesso”. In verità, Dio qui non sta chiamando se stesso: se così fosse i Testimoni di Geova userebbero questo “nome” e non “Geova”. Dio sta invece rispondendo alla domanda di Mosè, ma non per dare il suo nome. Come tutta risposta a Mosè che vuol sapere il suo nome, Dio dice: “Sono chi sono” (traduzione letterale dall’ebraico). Coglie nel segno Rotherham traducendo “Io diverrò qualunque cosa mi piaccia”. In pratica, Dio sta dicendo a Mosè: Domandi il mio nome? Io sarò quel che vorrò. Modo elegante e istruttivo per dire che il suo nome non lo farà sapere. Di fatto – lo si noti – Dio non risponde a Mosè soddisfacendo la sua domanda. Il suo nome non lo dice. Per tutta risposta dice che sarà chi gli pare.

   Secondo la nota, Dio si riferisce “a ciò che egli ha in mente di divenire nei confronti di altri”. Noi crediamo invece che Dio risponda così a Mosè per dirgli che il suo nome non lo dirà. Il contesto, se lo si legge bene, indica proprio questo. Comunque, la frase della nota contiene suo malgrado una verità: nei confronti degli altri Dio sarà semplicemente quel che sarà. (In quanto a ciò che la nota dice su Gn 2:4, lo tratteremo più avanti; ora ci preme finire l’esame del passo di Es).

   Fin qui, quindi, abbiamo che:

   1. Mosè, prendendola alla larga, domanda a Dio il suo nome.

   2. Dio non glielo rivela, ma per tutta risposta gli dice che sarà chi sarà.

   Si noti bene ora come prosegue il racconto. Dopo aver detto a Mosè che sarà chi vorrà, Dio aggiunge: “Devi dire questo ai figli d’Israele:” (v. 14). Qui Dio sta per dare una risposta alla preoccupazione di Mosè, che aveva ipotizzato: “Supponiamo che . . . essi realmente mi dicano: ‘Qual è il suo nome?’ Che dirò loro? (v. 13). Dio ora dice a Mosè ciò che deve dire a chi glielo domandasse: “Devi dire questo ai figli d’Israele: IO MOSTRERÒ D’ESSERE mi ha mandato a voi”. V. 14, il maiuscoletto è di TNM.

   In pratica, Dio vuole che Mosè dia al popolo la stessa risposta che lui stesso aveva appena ricevuto da Dio. Ma qui c’è una variante. La prima espressione di Dio (“Io sono chi sono”) qui viene abbreviata: אהיה (ehyèh), “Io sono”.

   È ora il caso di vedere più da vicino questo verbo. La nota di TNM riferisce: “’Ehyèh deriva dal verbo ebr. hayàh, ‘divenire; mostrar d’essere’”. È vero? Sì, ma in parte. E non in questo caso.

   Ci spiace dover ricordare che la Watchtower ha ricevuto nel corso dei decenni molte diffide da parte di editori per citazioni fatte in modo non corretto. Questi editori di opere di consultazione (enciclopedie, vocabolari, dizionari, studi e simili) citati dalla società americana hanno diffidato la Watchtower dal citare estratti “aggiustati” dalle loro opere. Alcuni hanno perfino vietato tassativamente di essere citati dalla Watchtower. Non sono forse corrette le citazioni della Watchtower? Sì che lo sono: le parole vengono riportate parola per parola, alla lettera, tra virgolette. Ma sono citate con furbizia. Sono parziali, isolate dal contesto, traendo solo quelle parole o frasi che avvalorano la tesi presentata dalla Watchtower (questo ovviamente nei casi contestati dagli editori).

   Ora, nella citazione fatta dalla nota (di cui non è riportata neppure la fonte, lo si noti), siamo di fronte ad uno di questi casi. Il semplice lettore che legge la citazione non può che arrivare alla conclusione che il verbo ebraico hayàh significhi quello che è detto: “’Ehyèh deriva dal verbo ebr. hayàh, ‘divenire; mostrar d’essere’” (TNM, nota in calce a Es 3:14). Non è proprio così. Il significato riferito è molto secondario. Il significato principale di hayàh è “essere”. Perché non ci siano dubbi rimandiamo al Dizionario di ebraico e aramaico biblici a cura di J. A. Soggin, uno dei massimi esperti mondiali di ebraico biblico, relativo al verbo ebraico היה (hayàh). Come si nota in tale autorevole dizionario, il significato “divenire” appare solo al quinto posto. Spacciarlo come significato principale non è corretto. In quanto al tempo, la nota ci informa che la forma verbale heyèh (אהיה) “è all’imperfetto, prima persona sing.”. Vero. Ma la conclusione tratta – ovvero che significherebbe “‘Io diverrò’, o ‘Io mostrerò d’essere’” – non è esatta.

   Il significato di “divenire” lo abbiamo già messo in dubbio. Ora mettiamo in dubbio il tempo. L’espressione heyè, e quindi l’intera locuzione ehyèh ashèr ehyèh, può essere tradotta non solo “io sarò”, ma anche “io sono”. Si vedano le seguenti versioni:

 

CEI

“Io sono colui che sono!”

Did

“IO SON COLUI CHE SONO”

ND

“IO SON COLUI CHE SONO”

Lu

“’Io sono quegli che sono‘”

NR

“Io sono colui che sono”

   Questa traduzione è più conforme al contesto. Alla domanda di Mosè su quale sia il nome di Dio, tutto ciò che egli ottiene in risposta da Dio è: “Io sono chi sono”. Dio è chi vuole essere. Così, anche la successiva abbreviazione – heyèh (אהיה) – va intesa: “Io sono”.

   Il racconto biblico prosegue con Dio che ribadisce la risposta che Mosè deve dare al popolo: “Quindi Dio disse ancora una volta a Mosè: ‘Devi dire questo ai figli d’Israele:’” (v. 15). Ora qui c’è tutto il nocciolo della questione, quindi esamineremo molto attentamente il testo biblico.

   Partiamo dalla traduzione che ne fa TNM: “Devi dire questo ai figli d’Israele: ‘Geova l’Iddio dei vostri antenati, l’Iddio di Abraamo, l’Iddio di Isacco e l’Iddio di Giacobbe, mi ha mandato a voi’. Questo è il mio nome a tempo indefinito, e questo è il memoriale di me di generazione in generazione” (v. 15). Qui, in questa traduzione, appare che “Geova” sarebbe il “nome” di Dio. Non dice forse Dio stesso, subito dopo, “questo è il mio nome”?

   Come studiosi, vogliamo sempre andare a fondo. Di enorme importanza, come sempre, è il contesto. E il contesto finora ci ha detto che, alla richiesta di Mosè, Dio dà una risposta che non è la risposta attesa da Mosè. Anziché rivelare il suo nome, Dio dice: “Io sono chi sono”. Non solo. Dio dà anche ordine a Mosè di riferirsi a lui, parlando al popolo ebraico, con l’espressione “Io sono”, che è esattamente la forma precedente abbreviata. Per la seconda volta, Dio dice a Mosè quali sono le parole che deve usare con gli ebrei. Rileggiamolo, ma questa volta riferendosi direttamente anche alla Scrittura, non solo ad una traduzione.

   Riportiamo il testo di TNM, ma sostituendo a “Geova” la parola ebraica presente nella Scrittura:

 

“Dio disse ancora una volta a Mosè: ‘Devi dire questo ai figli d’Israele: יהוה [yhvh] l’Iddio dei vostri antenati, l’Iddio di Abraamo, l’Iddio di Isacco e l’Iddio di Giacobbe, mi ha mandato a voi’”.

   Si noti che, all’inizio del versetto, la frase che introduce le parole di Dio è: “Dio disse ancora una volta a Mosè”. Ciò indica in modo molto chiaro che il concetto era già stato presentato a Mosè. Se vogliamo capire il senso di quel יהוה  (yhvh) dobbiamo paragonare la prima espressione alla seconda.

 

1a

“Devi dire questo ai figli d’Israele: אהיה [ehyèh] mi ha mandato a voi’”.

2a

Dio disse ancora una volta a Mosè: ‘Devi dire questo ai figli d’Israele: יהוה [yhvh] l’Iddio dei vostri antenati, l’Iddio di Abraamo, l’Iddio di Isacco e l’Iddio di Giacobbe, mi ha mandato a voi’”.

 

Dio ripete due volte a Mosè ciò che egli deve dire agli ebrei. La seconda volta si notano però due cambiamenti nell’espressione divina. Uno s’individua subito: viene aggiunta la specificazione “l’Iddio dei vostri antenati, l’Iddio di Abraamo, l’Iddio di Isacco e l’Iddio di Giacobbe”. Gli israeliti non devono avere dubbi sull’identità del Dio che incarica Mosè: è il Dio dei loro antenati, il Dio che già conoscono; è sempre lui. La seconda variante sta nella formula “io sono”. Seguiamone l’evoluzione.

1. Alla domanda di Mosè la risposta di Dio era stata: “Io sono chi sono”.

2. È di questo “io sono” che Mosè deve poi riferire al popolo: “L’‘io sono’ mi ha mandato a voi”.

3. Rivolgendosi al popolo Mosè avrebbe poi logicamente dovuto dire “Colui che è”. Ecco la formula finale. Dio rimane per il suo popolo “Colui che è”.

Rivediamolo in italiano:

 

1a “Devi dire questo ai figli d’Israele: ‘Io sono [אהיה (ehyèh)] mi ha mandato a voi’”.
2a “Dio disse ancora una volta a Mosè: ‘Devi dire questo ai figli d’Israele: Colui che è [יהוה (yhvh)], l’Iddio dei vostri antenati, l’Iddio di Abraamo, l’Iddio di Isacco e l’Iddio di Giacobbe, mi ha mandato a voi’”.

   Da notare anche che questa espressione non è un nome proprio. Se lo fosse non potrebbe esserci variazione: si dovrebbe cioè usare sempre la stessa formula. Invece, quando Dio parla di sé dice “io sono”, ma quando sono gli altri a riferirsi a lui devono dire “colui che è”.

   Qual è la pronuncia di יהוה (Yhvh)? La questione che porta a “Geova” sta tutta qui. La esamineremo. La forma יהוה (Yhvh) divenne poi nota come “tetragramma”, una parola greca che significa “quattro lettere”.

   Mosè deve aver certo appreso la lezione. Dio può dirgli ora: “Questo è il mio nome a tempo indefinito, e questo è il memoriale di me di generazione in generazione” (v. 15). Mosè voleva sapere il nome di Dio? Si accontenti di questo: Dio è chi vuole essere, egli rimane “Colui che è”.

   Con questo “nome”, che più che un nome è un epiteto, Dio era stato conosciuto per secoli presso il suo popolo: Così doveva rimanere. Suo malgrado, la Watchtower dice una grande verità quando afferma: “È il nome col quale EGLI ha deciso di essere chiamato” (La Torre di Guardia del 1° giugno 1984, pag. 4; il maiuscoletto è della Watchtower). Anche qui si impone la logica: quel “nome” (“Colui che è”) era sempre stato usato dagli ebrei prima di allora. L’espressione stessa “colui che è” indica che si doveva ricorrere a questo giro di parole proprio perché non si conosceva il nome di Dio. Il fatto poi che Mosè domandi a Dio il suo nome, dimostra a maggior ragione che “Colui che è” (YHVH) non era il nome. Cosa cambia dopo che Mosè ha domandato a Dio il suo nome? In pratica nulla. Dio ribadisce che devono continuare a chiamarlo “Colui che è” (YHVH, יהוה).

   Dato il forte significato che gli ebrei attribuivano al nome di una persona, trattandosi qui del suo stesso nome, Dio lo protegge. Così, a Mosè che vorrebbe conoscerlo, Dio non fa altro che ribadire il modo con cui era già conosciuto: Yhvh, “Colui che è”. In Es 3:15, nell’attuale testo (il Testo Masoretico) si legge: “Questo è il mio nome a tempo indefinito”, “in eterno” (NR). Abbiamo specificato che si tratta del testo attuale perché la traduzione sopra riportata è stata fatta dal Testo Masoretico, ovvero dal testo vocalizzato dai masoreti alcuni secoli dopo Yeshùa. La parola tradotta con il senso di “per sempre” è nell’ebraico, secondo la vocalizzazione dei masoreti, לעלם (leolàm). Ma nella Bibbia originale tale parola è senza vocali: לעלם (llm). Anziché leolàm è possibile anche vocalizzare in lealèm. Con questa vocalizzazione la frase significa: “Questo è il mio nome perché sia nascosto”. Questo significato appare in perfetta armonia con il contesto. A Mosè che vuole scoprire il nome divino (il più importante che possa esistere nell’universo visibile e invisibile), Dio ribadisce che il suo nome deve rimanere quello con cui Israele lo ha sempre conosciuto: Yhvh, “Colui che è”. E aggiunge che quello è il suo nome, “perché sia nascosto”. Così, quello nascosto, che Mosè avrebbe voluto conoscere, rimane nascosto.