La parola “vangelo” è molto familiare. Il cosiddetto Nuovo Testamento (più propriamente: le Scritture Greche) inizia con quattro “Vangeli”. “Vangelo” è una derivazione più moderna del termine “evangelo”, che meglio corrisponde al vocabolo greco da cui è traslitterato in italiano. Ecco la struttura e il senso della parola:

 

εὐαγγέλιον

 euanghèlion

 

   In greco, quando in una parola si presentano due γ (lettera gamma = g dura, trascritta gh) consecutive (γγ) la prima γ si legge n, per cui le due γγ diventano ngh nella pronuncia. Il vocabolo – che si legge euanghèlion – è di genere neutro. Nella LXX greca non ricorre mai il termine al singolare, ma solo nella sua forma plurale εὐαγγέλια (euanghèlia), assumendo ovviamente l’articolo neutro plurale τά (ta), “i”. Tuttavia, nel corso del tempo questo plurale neutro assunse il senso di un femminile singolare; la forma greca è la stessa, cambia solo l’articolo: ἡ εὐαγγέλια (e euanghèlia), “la buona notizia”.

   La parola greca εὐαγγέλιον (euanghèlion) è a sua volta composta da due termini: εὐ (eu) che significa “buono, lieto” e αγγέλιον (anghèlion) che significa “annuncio, notizia”. Il significato è quindi, etimologicamente: “buona notizia” o “lieto annuncio”. Corrisponde perciò all’ebraico בשורה (besoràh). Anghèlion è della stessa radice di ànghelos (ἄγγελος) che significa “messaggero”. Euanghèlion è una parola neutra (in greco, oltre al maschile e al femminile, esiste il genere neutro), per cui assume l’articolo neutro: τὸ (to), tradotto il o la a seconda del vocabolo italiano usato (annuncio, notizia).

   Cicerone, lo scrittore latino, inizia una delle sue lettere con questa espressione greca: “Euangèlia! Valerius absolutus est”, “Buone notizie! Valerio è stato assolto”. Da questo esempio si comprende la freschezza dell’espressione così come doveva essere usata e percepita ai giorni di Cicerone, morto circa quarant’anni prima che Yeshùa nascesse. Oggi, “evangelo” o “vangelo” pare parola antica, così come la sua traduzione “buona novella”. Al tempo di Yeshùa era parola fresca e attuale. Ne possiamo cogliere un po’ l’immediatezza quando qualcuno ci dice: “Ho una buona notizia da darti”. Se poi vogliamo spingere gli esempi oltre, possiamo immaginare l’emozione suscitata da espressioni giovanili odierne come: “Che notizia bestiale!”, “Fico!”. O, se si preferisce stare più sul popolare contemporaneo: “Notizia sensazionale!”, “Scoop!”.

   Anche se nella LXX il termine non assume il senso che noi gli diano, tale senso è invece presente nel derivato “evangelizzare” (εὐαγγελίζεσθαι, euanghelìsesthai):

“Le donne che annunciano la buona notizia [εὐαγγελιζομένοις (euanghelizomènois), “evangelizzatrici”, LXX; nella LXX corrisponde a Sl 67:12] sono un grande esercito”. – Sl 68:11, TNM.

   “Evangelizzare” si riferisce alla vittoria sui nemici, specialmente se è vittoria di Dio, e alla proclamazione della futura salvezza che Dio avrebbe attuato per Gerusalemme: “Anche i re degli eserciti fuggono, essi fuggono. In quanto a colei che dimora a casa, partecipa alle spoglie” (v. 12). Il contesto stesso del passo citato indica questo senso di “evangelizzare” inteso come portare la buona notizia della salvezza di Israele e la liberazione dai nemici. Questo senso è confermato in 2Sam 18:19: “Ahimaaz figlio di Zadoc, egli disse: “Fammi correre, ti prego, a portare la notizia [εὐαγγελιῶ, euangheliò, “evangelizzo”, LXX] al re, perché Geova lo ha giudicato [per liberarlo] dalla mano dei suoi nemici” (TNM). Questo concetto è chiaro anche nei seguenti altri passi:

“Sali pure su un alto monte, donna che porti buone notizie [εὐαγγελιζόμενος (euanghelizòmenos), “evangelizzatrice”, LXX] per Sion. Alza la tua voce pure con potenza, donna che porti buone notizie per Gerusalemme. Alza[la]. Non aver timore. Di’ alle città di Giuda: ‘Ecco il vostro Dio’”. – Is 40:9, TNM.

   Ancora una volta si tratta della vittoria di Dio sui nemici: “Ecco, lo stesso Sovrano Signore Geova verrà pure come un forte, e il suo braccio dominerà per lui”. – V. 10.

“Come sono piacevoli sui monti i piedi di chi porta buone notizie [εὐαγγελιζομένου (euanghelizomènu), “evangelizzatore”, LXX], di chi proclama la pace, di chi porta buone notizie di qualcosa di migliore, di chi proclama la salvezza, di chi dice a Sion: “Il tuo Dio è divenuto re!”. – Is 52:7, TNM.

   Qui l’“evangelizzatore” è un corriere di Babilonia che si staglia sulle alture circondanti Gerusalemme e grida il messaggio di liberazione. L’esilio di Israele è finito, si possono preparare già le carovane per il rientro a Gerusalemme, è tempo di uscire dalla prigionia dei babilonesi: “Allontanatevi, allontanatevi, uscite di là, non toccate nulla d’impuro; uscite di mezzo ad essa, mantenetevi puri, voi che portate gli utensili di Geova. Poiché uscirete senza panico, e non ve ne andrete in fuga. Poiché Geova andrà pure davanti a voi, e l’Iddio d’Israele sarà la vostra retroguardia” (vv. 11,12, TNM). Nello stesso contesto di liberazione dai nemici si esprime Na 1:13-15: “Ora romperò la sua sbarra da trasporto di dosso a te, e strapperò i legami sopra di te. E riguardo a te Geova ha comandato: ‘Nulla del tuo nome sarà più seminato. Dalla casa dei tuoi dèi stroncherò l’immagine scolpita e la statua di metallo fuso. Farò per te un luogo di sepoltura, perché non sei stato di nessun conto’. ‘Ecco, sui monti i piedi di chi porta buone notizie [εὐαγγελιζομένου, euanghelizomènu, “evangelizzatore”, LXX; nella LXX corrisponde a 2:1], di chi proclama la pace’”. – TNM.

“Lo spirito del Sovrano Signore Geova è su di me, per la ragione che Geova mi ha unto per annunciare la buona notizia [εὐαγγελίσασθαι (euanghelìsasthai), “evangelizzare”, LXX] ai mansueti. Mi ha mandato a fasciare quelli che hanno il cuore rotto, a proclamare la libertà a quelli che sono in schiavitù e la completa apertura anche ai prigionieri”. – Is 61:1, TNM.

   Anche questo passo si situa nel contesto esilico: un profeta è inviato da Dio per recare la buona notizia “a quelli che sono in schiavitù” e “ai prigionieri”.

   Yeshùa si è rivendicata la missione del profeta descritto nel passo appena citato, tanto è vero che dopo averlo letto dice chiaramente: “Oggi, si è adempiuta questa Scrittura, che voi udite”. – Lc 4:21.

   Anche nelle Scritture Greche appare il vocabolo “evangelo”, che però non è più usato al plurale ma al neutro singolare: εὐαγγέλιον (euanghèlion). Chi più ne usa è Paolo. Presso di lui appare ben 60 volte; solo 16 volte in tutte le restanti Scritture Greche (Lc e Gv non lo usano mai).

   Nelle Scritture Greche il vocabolo assume un significato più spirituale. Da una parte può indicare la “lieta notizia” recata da Yeshùa (“Gesù si recò in Galilea, predicando il vangelo di Dio […] ravvedetevi e credete al vangelo” (Mr 1:14,15); dall’altra, può indicare la “lieta notizia” riguardante Yeshùa stesso (“In tutto il mondo, dovunque sarà predicato il vangelo” – Mr 14:9, cfr. 16:15).

   Gli elementi essenziali di questa “buona notizia” sono così sintetizzati da Paolo:

 

(1) “Colui che è stato manifestato in carne,

(2) è stato giustificato nello Spirito,

(3) è apparso agli angeli,

(4) è stato predicato fra le nazioni,

(5) è stato creduto nel mondo,

(6) è stato elevato in gloria”.

1Tm 3:16.

 

   È a tutto ciò che Paolo pensa quando, parlando di Yeshùa, scrive ai galati: “Egli diede se stesso per i nostri peccati, per liberarci dal presente sistema di cose malvagio secondo la volontà del nostro Dio e Padre” (1:4, TNM) e poi aggiunge: “Mi meraviglio che così presto siate distolti da Colui che vi chiamò con l’immeritata benignità di Cristo [per passare] a un’altra sorta di buona notizia” (v 7, TNM); è questa relativa a Yeshùa l’unica vera buona notizia o vangelo. – Vv. 8 e 9.

   Questo “vangelo” o buona notizia è pure chiamato “vangelo di Dio” perché ha in Dio la sua prima origine: “Il sacro servizio del vangelo di Dio […] il vangelo di Cristo” (Rm 15:16,19). È anche “vangelo di Cristo” sia perché è stato proclamato da lui, sia perché ha nel contenuto la persona di Yeshùa. Si tratta sempre del “vangelo di Dio” che ha come oggetto Yeshùa:

“Il vangelo di Dio, che egli aveva già promesso per mezzo dei suoi profeti nelle sante Scritture riguardo al Figlio suo, nato dalla stirpe di Davide secondo la carne, dichiarato Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santità mediante la risurrezione dai morti; cioè Gesù Cristo, nostro Signore”. – Rm 1:1-4.

   Una volta salito al Padre, Yeshùa affida la sua missione ai discepoli: “Andate per tutto il mondo, predicate il vangelo a ogni creatura”. – Mr 16:15.

   Paolo, ‘ministro del vangelo’ (Col 1:23), fu in modo particolare “messo a parte per il vangelo di Dio” (Rm 1:1), vale a dire per annunciare Yeshùa e Yeshùa risorto (vv. 1-4), per diffondere tra i gentili (i non ebrei) “la luce del vangelo della gloria di Cristo, che è l’immagine di Dio” (2Cor 4:4). Quando Paolo parla del “mio vangelo” (Rm 2:16;16:25; 2Tm 2:8; 2Cor 4:3; 1Ts 1:5; 2Ts 2:14; Gal 1:8,11;2:2) non si riferisce al contenuto dottrinale: “Vi ho prima di tutto trasmesso, come l’ho ricevuto anch’io, che Cristo morì per i nostri peccati, secondo le Scritture; che fu seppellito; che è stato risuscitato il terzo giorno, secondo le Scritture” (1Cor 15:3,4); non intende neppure parlare di una sua personale interpretazione, dato che lo spirito santo lavora ugualmente in ogni credente: “Nessuno può dire: ‘Gesù è il Signore!’ se non per lo Spirito Santo” (1Cor 12:3); vuole solo sottolineare che egli fu specialmente inviato a predicare la buona notizia ai non ebrei o stranieri: “Per voi stranieri […] grazia di Dio affidatami per voi […] la conoscenza che io ho del mistero di Cristo […] Nelle altre epoche non fu concesso ai figli degli uomini di conoscere questo mistero […] vale a dire che gli stranieri sono eredi con noi, membra con noi di un medesimo corpo e con noi partecipi della promessa fatta in Cristo Gesù mediante il vangelo, di cui io sono diventato servitore […] A me […] è stata data questa grazia di annunziare agli stranieri le insondabili ricchezze di Cristo”. – Ef 3:1-12, passim.

   Questo “mistero” o sacro segreto di Dio fu comunicato a Paolo da Dio stesso tramite Yeshùa quale speciale rivelazione divina personale. La buona notizia o vangelo, infatti, “è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede; del Giudeo [ebrei] prima e poi del Greco [non ebrei]” (Rm 1:16). Tale vangelo, predicato ai tessalonicesi, non fu da loro ricevuto “come parola di uomini, ma, quale essa è veramente, come parola di Dio, la quale opera efficacemente” nei credenti. – 1Ts 2:13.

   Accettare la “buona notizia” non vuol dire affatto ricevere una dottrina; si tratta infatti di un aprirsi all’azione permanente di Dio: “quale essa è veramente, come parola di Dio, la quale opera efficacemente” in chi crede.

   Oggi le religioni “cristiane” (ognuna delle quali pretende di essere quella vera) hanno dimenticato quest’azione viva e decisiva che Dio attua tramite Yeshùa nella vera chiesa o congregazione dei credenti da lui chiamati. Per le Scritture Greche non è la congregazione che forma il credente, ma Yeshùa vivente che costruisce la sua congregazione con la potenza della sua parola: “Questa potente efficacia della sua forza egli l’ha mostrata in Cristo […]. Ogni cosa egli ha posta sotto i suoi piedi e lo ha dato per capo supremo alla chiesa, che è il corpo di lui, il compimento di colui che porta a compimento ogni cosa in tutti”. – Ef 1:20-23, passim.

   Il vangelo non è un corpo dottrinale cui conformarsi mentalmente, se pure adottando una buona etica di vita conforme ad esso. Il vangelo è potenza di Dio per la salvezza, è forza creatrice, è evento salvifico. Il vangelo o buona notizia, “quale essa è veramente, come parola di Dio, la quale opera efficacemente” (1Ts 2:13) è volontà irrevocabile di Dio:

“Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza aver annaffiato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, affinché dia seme al seminatore e pane da mangiare, così è della mia parola, uscita dalla mia bocca: essa non torna a me a vuoto, senza aver compiuto ciò che io voglio e condotto a buon fine ciò per cui l’ho mandata”. – Is 55:10,11.

L’evangelo

   Ci si potrebbe domandare da dove mai gli autori delle Scritture Greche abbiano tratto il nuovo uso della parola “evangelo” (εὐαγγέλιον, euanghèlion) applicandolo a Yeshùa e al conseguente regno di Dio. È noto che la primitiva congregazione dei discepoli di Yeshùa usava come Bibbia la versione greca dei LXX  (è da essa che sono infatti tratte tutte le citazioni dalle Scritture Ebraiche che vengono fatte nelle Scritture Greche). Ma una diretta dipendenza dalla LXX per quando riguarda il termine euanghèlion è esclusa: in essa infatti non appare mai questo vocabolo al singolare, ma solo nella sua forma plurale di euanghèlia. Per di più – come abbiamo attentamente esaminato – il termine ha nelle Scritture Ebraiche un significato legato alla vittoria sui nemici di Israele. La novità nelle Scritture Greche è non solo l’uso di una nuova parola al singolare, ma anche il senso spirituale che le viene sempre dato.

   La risposta sta nell’uso di questa parola da parte di scrittori contemporanei agli autori delle Scritture Greche. La parola euanghèlion è stata presa, insomma, dalla koinè (lingua greca comune) parlata dal popolo al tempo apostolico. Nel parlare comune di quel tempo troviamo quindi la parola “evangelo”, sia al singolare che al plurale. E per cosa veniva usata quella parola? Per i contemporanei degli apostoli l’“evangelo” era la lieta notizia dell’elezione dell’imperatore.

   Giuseppe Flavio applica tale vocabolo a varie liete notizie, come ad esempio la morte di Tiberio. Mentre Agrippa era in carcere si parse a Roma la voce che Tiberio era morto, ma si aveva timore a proclamarlo pubblicamente. Marsia, un liberto di Agrippa, corse coraggiosamente e gli annunciò in ebraico: “Il leone è morto”; a cui seguì la risposta: “Ti siano rese mille grazie non solo per tutto il resto, ma particolarmente per questa buona nuova [euanghèlia]”. Il centurione romano volle sapere ciò che dicevano e Agrippa alla fine lo mise al corrente dell’accaduto. Gioì anche il centurione con loro, ma seguì poi la paura: altre voci davano Tiberio ancora in vita. Solo al mattino la notizia fu confermata in modo certo. – Giuseppe Flavio, Antichità giudaiche, 18,6,10 n. 228 e sgg..

   Un uso simile si riscontra anche in Luciano (As. 2G) e in Appiano. – Civit. 3,13;4,20.

   In altri passi di Giuseppe Flavio e di Filone i termini euanghèlia e euanghèlion si riferiscono però alla elezione di un imperatore. Filone usa il verbo “evangelizzare” per riferirsi all’intronizzazione di Caio: “La lieta notizia è stata annunciata [euanghelionmène] nella nostra città e da qui si è diffusa nelle altre” (Legazione a Caio, n. 231). Giuseppe Flavio usa sia il verbo che il vocabolo e li applica all’intronizzazione di Vespasiano: “Più rapidamente del pensiero si sparsero le liete notizie [euanghèlia] che Vespasiano aveva preso il potere in oriente”. – Guerra giudaica, 4,10,6; cfr. 4,37 e 4,618.

   Molto importante è il fatto che anche in alcune iscrizioni greche appare il termine euanghèlion in riferimento alla elezione imperiale. In un’iscrizione ellenistica datata al 9 E. V. che parla del genetliaco di Augusto vi si legge: “La nascita del dio [= imperatore] è stata per il mondo l’inizio di liete notizie [euanghèlia]” (Dittenberger, Sylloge Orientis Graeci Inscriptiones Selectae, II, n. 458,40). Un’altra iscrizione recita: “La lieta notizia [euanghèlion] che il figlio del nostro signore beneamato dagli dèi era stato proclamato Cesare [= imperatore]”. – Pap. Berol, P. Oxy VIII, 150.

   Nel linguaggio comune riferito al culto dell’imperatore il vocabolo “evangelo” o “buona notizia” riguardava dunque l’imperatore e la sua attività. Le Scritture Greche, alle liete notizie imperiali oppongono la “lieta notizia” del vero salvatore giunto nel mondo per volere e bontà di Dio. Questo vocabolo – “evangelo” – oppone quindi Yeshùa ai vari miti che esaltavano gli imperatori facendone degli dèi.

   “Tutto il mondo giace sotto il potere del maligno [= satana]” (1Gv 5:19) e, “sebbene vi siano cosiddetti dèi, sia in cielo sia in terra” (1Cor 8:5), nel mondo irrompe “la buona notizia di una grande gioia” (Lc 2:10) che viene proclamata anche dai cieli, “il vangelo eterno per annunziarlo a quelli che abitano sulla terra, a ogni nazione, tribù, lingua e popolo. […] ‘Temete Dio e dategli gloria, perché è giunta l’ora del suo giudizio. Adorate colui che ha fatto il cielo, la terra, il mare e le fonti delle acque’” (Ap 14:6,7): “la luce del vangelo della gloria di Cristo”. – 2Cor 4:4.

Il vangelo scritto

   Nelle Scritture Greche la parola “vangelo” non designa mai uno scritto. Questo senso non appare che nel 2° secolo nell’Apologia di Giustino.

   Ireneo indica così il legame tra il testo scritto e il suo contenuto: “Questo vangelo gli apostoli lo hanno prima predicato e poi, per volontà di Dio, ce lo hanno trasmesso nelle Scritture perché divenisse la base e la colonna della nostra fede” (Adv. Haer. 3,1,1 EP 208). Egli indica pure chiaramente il passaggio dalla predicazione allo scritto: “Luca, discepolo di Paolo, pose in un libro il vangelo da lui annunciato”. – Adv. Haer. 3,11,8 EP 215.

   Giustino dice che “le memorie” di Yeshùa si chiamano “evangeli”. – Prima apologia 66 EP 128.

   Il senso di annuncio (vangelo al singolare) fu comunque mantenuto per riferirsi anche ai quattro “Vangeli” scritti presi nel loro insieme (Eusebio, Hist. Eccl. 5,24,6 PG 20,496), così come nell’espressione di “vangelo [la singolare] quadriforme” (Ireneo, Adv. Haer. 3,II,8 EP 215) e nella frase “vangelo secondo Matteo”. – Canone Muratoriano 1,2 EP 268.

   Occorre quindi essere consapevoli che, biblicamente, con “vangelo” o “evangelo” s’intende la “buona notizia” relativa all’annuncio, quindi orale. Dire ‘Vangelo secondo Matteo’, ‘secondo Marco’, ‘secondo Luca’ e ‘secondo Giovanni’ è un modo di dire non conforme alla Scrittura; esattamente come non sono conformi alla Bibbia le espressioni ‘Vecchio Testamento’, ‘Nuovo Testamento’, “cristiano”, ‘Gesù’ e altre. Certo possono essere usate per intendersi, ma non sono conformi. Come si dovrebbero allora chiamare i “Vangeli”? Semplicemente con i nomi dei loro autori: Matteo (Mt), Marco (Mr), Luca (Lc) e Giovanni (Gv).

   I titoli di “Vangelo secondo Matteo”, ‘secondo Marco’, ‘secondo Luca’ e ‘secondo Giovanni’ appaiono con certezza solo all’inizio del 3° secolo, nel papiro Bodmer XIX-XV per Lc e Gv. Erano però già usati nel 2° secolo, come risulta da Ireneo e dal frammento Muratoriano.

   Perché quattro “Vangeli”? Nel 2° secolo erano già diffusi molti scritti oggi denominati “Vangeli”. Oltre ai quattro che appaiono nella nostra Bibbia odierna, circolavano (per citarne solo alcuni): il Vangelo di Tommaso, il Vangelo di Filippo, il Vangelo dei Dodici Apostoli, il Vangelo di Bartolomeo, il Vangelo degli Ebrei, il Vangelo degli Ebioniti. Senza entrare qui nel merito della storia che tra critica testuale e formazione del canone portò all’accettazione dei soli quattro che conosciamo come autentici, possiamo riassumere dicendo che tutti gli altri furono ritenuti pure finzioni letterarie create in epoca più tardiva; vennero quindi respinti e chiamati apocrifi. I quattro scritti canonici furono nel corso degli anni disposti diversamente prima che assumessero l’attuale successione: Mt, Mr, Lc e Gv. Questa attuale successione che si è imposta fu ritenuta, senza nessun fondamento, un elenco evangelico. Non sappiamo chi sia stato a raggruppare così i quattro scritti, né sappiamo dove ciò sia accaduto.

   Diverse sono le testimonianze degli antichi sull’accettazione da parte delle prime congregazioni di fedeli dei quattro scritti evangelici. Basti qui citare, come esempio, Origène: “Solo quattro vangeli sono approvati e tra essi occorre stabilire i dogmi di nostro Signore […] in tutte queste cose noi approviamo solo ciò che approva la chiesa, vale a dire i nostri quattro vangeli” (Comm. in Lucam). In tutte le testimonianze antiche vi è il massimo accordo circa l’esistenza di questi quattro scritti. Anche oggi tutte le confessioni religiose “cristiane” accettano e riconoscono questi quattro scritti che noi possediamo nelle nostre Bibbie.