La parola “Bibbia” deriva dal greco τὰ βιβλία (ta biblìa), che è il plurale di βιβλίον (biblìon), “libretto”. Ta biblìa (τὰ βιβλα) significa quindi “i libretti”. Bìblos era anche il nome greco della città fenicia di Ghebal, famosa per la produzione di carta di papiro (pianta dal cui interno si ricavava una specie di carta). “Bibbia” è quindi una raccolta di “libretti”. Perché questo plurale? Per il fatto che la Bibbia non era all’origine un libro unico. Sebbene oggi la Bibbia costituisca un libro unico, in realtà essa è composta da più libri (libretti, appunto): 66, per l’esattezza. Il nome greco ta biblìa (i libretti) era già in uso nel 2° secolo della nostra èra. Ne troviamo anche traccia nella stessa Sacra Scrittura: “Io, Daniele, meditando sui libri” (Dn 9:2). Questo passo è reso così nella traduzione greca: ἐν ταῖς βίβλοις  (en tàis bìblois, “nei libri”; LXX). Nel 1° secolo della nostra èra Paolo scriveva a Timoteo: “Quando verrai porta . . .  i libri, specialmente le pergamene” (2Tm 4:13); nel testo greco originale: τὰ βιβλία (ta biblìa, “i libretti”). Sebbene spesso siano tradotte con “rotolo/i”, le parole βιβλίον (biblìon, “libretto”) e βίβλος (bìblos, “libro”) compaiono più di 40 volte nelle Scritture Greche. La parola greca τὰ βιβλία (ta biblìa), che è un plurale, fu poi usata in latino come singolare: bìblia. Da questa parola latina (traslitterata dal greco) deriva parola italiana “Bibbia”.

 

 

Due Testamenti?

 

Comunemente la Bibbia viene suddivisa in due sezioni: “Vecchio Testamento” e “Nuovo Testamento”. Sebbene d’uso comune perfino tra studiosi, teologi ed esegeti, queste espressioni sono del tutto errate.

L’errore è sorto dalla non comprensione della traduzione in latino che la Vulgata fece del passo di 2Cor 3:14. In NR suona così: “Sino al giorno d’oggi, quando leggono l’antico patto, lo stesso velo rimane, senza essere rimosso”. Nella Vulgata è: “Obtusi sunt sensus eorum usque in hodiernum enim diem id ipsum velamen in lectione veteris testamenti manet”. L’espressione latina veteris testamenti è al genitivo (del); il nominativo è testamentum. “Per ignoranza della filologia del latino più tardo e volgare, una volta si supponeva che testamentum, con cui la parola è resa sia nelle prime versioni latine che nella Vulgata, significasse ‘testamento’, mentre in realtà significa anche, se non esclusivamente, ‘patto’” (cfr. Edwin Hatch, Essays in Biblical Greek, Oxford, 1889, pag. 48). Giovanni Diodati, un traduttore della Bibbia del 17° secolo, cadde nell’errore e tradusse così il passo: “Le lor menti son divenute stupide; poiché sino ad oggi, nella lettura del vecchio testamento, lo stesso velo dimora senza esser rimosso”. Martini fece lo stesso errore. In latino testamentum significa “patto”, ma in italiano è tutt’altro. La lezione (con “lezione” si intende la lettura di una parola o frase in un manoscritto così come è scritta in originale) dei manoscritti qual è? Nel testo greco la parola usata è διαθήκη (diathèke) che – come in tutti i 32 casi in cui ricorre nel testo greco – significa “patto”. Si noti Sl 83:5: “[I nemici] stringono un patto contro di te [Dio]”. La traduzione greca della LXX usa per “patto” il proprio il vocabolo diathèke (διαθήκη) (nella LXX il passo è in 82:6). Ora, qui nessuno si sognerebbe di dire che i nemici hanno fatto testamento contro Dio.

Si noti ora cosa afferma un’enciclopedia biblica: “Avendo la LXX reso ברית [berìt] (che non significa mai testamento, ma sempre patto o accordo) con διαθήκη tutte le volte che ricorre nel V. T., si può naturalmente supporre che gli scrittori del N. T., nell’adottare tale parola, intendessero trasmettere la stessa idea ai loro lettori, la maggioranza dei quali conoscevano bene il V. T. in greco. . . . Nel passo, indubbiamente difficile, di Eb ix, 16, 17, la parola διαθήκη secondo molti commentatori deve assolutamente significare testamento. D’altra parte, però, si può far notare che, oltre a ciò che è stato appena detto circa il consueto significato della parola nel N. T., la parola ricorre due volte nel contesto, in casi in cui il suo significato deve necessariamente essere uguale alla traduzione di ברית [berìt], e nell’incontestabile senso di patto. – Cfr. “διαθήκη καινή”. – John McClintock e James Strong. Cyclopedia of Biblical, Theological, and Ecclesiastical Literature, Grand Rapids, Michigan, ristampa del 1981, vol. II, pag. 544.

In ogni caso il contesto stesso del passo fa escludere che la parola diathèke (διαθήκη), “patto”, possa riferirsi a tutta la Bibbia ebraica, perché – dopo aver detto che “quando leggono” rimane un “velo” – il versetto successivo (v. 15) dice: “Fino a oggi, quando si legge Mosè, un velo rimane steso sul loro cuore”. Con “Mosè” si fa riferimento ai soli primi cinque libri della Bibbia, quelli appunto che contengono “l’antico patto”.

Dato che “Vecchio Testamento” è un’espressione errata, ne consegue che pure quella derivata di “Nuovo Testamento” è errata.

Le Scritture si possono quindi dividere più correttamente in Scritture Ebraiche e Scritture Greche, facendo riferimento alle lingue in cui queste due parti furono scritte.

La prima sezione della Sacra Scrittura (erroneamente detta Vecchio Testamento) è composta da 39 libri, scritti in ebraico con alcune piccole parti in aramaico. Per gli ebrei la Bibbia è solo questa. Diversi studiosi la chiamano “Bibbia ebraica”. Noi ci riferiremo ad essa con il nome di Scritture Ebraiche. Non accettando Yeshùa (Gesù) come loro messia, gli ebrei non accettano ovviamente i Vangeli e tutto l’erroneamente detto Nuovo Testamento.

La seconda sezione della Bibbia (il cosiddetto Nuovo Testamento) è composta da 27 libri, scritti in greco. Questa è la parte cosiddetta cristiana, che include i quattro Vangeli. Sebbene i semplici credano che Vangelo e Bibbia siano cose diverse, il Vangelo (o meglio i Vangeli, dato che sono quattro) fa parte del cosiddetto Nuovo Testamento. Noi ci riferiremo a questa parte della Bibbia col nome di Scritture Greche.

 

 

I nomi che gli ebrei davano alla Bibbia

 

Sebbene il nome Bibbia sia comunemente usato, tale espressione è moderna. Come era chiamata anticamente quella che noi oggi chiamiamo “Bibbia”? Mt 21:42 riferisce una frase di Yeshùa (Gesù) in cui egli si riferisce alla Bibbia chiamandola “Scritture”. Il greco è γραφαί (grafài). – Cfr. anche Mt 21:42; Mr 14:49; Lc 24:32; Gv 5:39; At 18:24, Rm 15:4.

In Rm 1:2 Paolo le chiama “sacre Scritture” e in 2Tm 3:15,16 prima le chiama “sacri scritti” (ἱερὰ γράμματα, ierà gràmmata) e poi “Scrittura”, al singolare (γραφή, grafè). Il termine compare sia al singolare che al plurale. Il plurale è appropriato, dato che si tratta – come abbiamo visto – di un insieme di singoli libretti. Il singolare è pure appropriato, dato che quei libretti consituiscono alla fine un testo unico. L’aggiunta dell’aggettivo “sacra” o “sacre” è del tutto biblico.

Sulla base di questi passi biblici riteniamo che le espressioni “Scrittura”, “Sacra Scrittura”, “Scritture” e “Sacre Scritture” siano del detto appropriate.