Yeshùa è Dio? Rispondere a questa domanda è assolutamente necessario e improrogabile per quattro ragioni:

  1. Necessità apologetiche. La professione di fede nicena (quarto secolo) recita: “Vero Dio dal vero Dio, generato non fatto, di un’unica sostanza con il Padre, vero Dio e vero uomo”. Tuttavia, è un fatto che tale dottrina lascia perplesso l’uomo d’oggi. A ragione D. M. Baillie confessa che “gran parte della gente riflessiva che si accosta al Vangelo ai giorni nostri è completamente turbata dalla dottrina dell’incarnazione, più di quanto i teologi usualmente pensino”.
  2. Se si mette nel giusto rilievo il fatto che Yeshùa fu un vero uomo – come oggi si tende a dimostrare attraverso lo studio dei Vangeli -, allora come si può dire che questo vero uomo fu anche contemporaneamente “vero Dio dal Dio vero”? Molti teologi sostengono che la teologia ortodossa, pur affermando che egli sia vero Dio, non intende asserire che egli sia Dio in modo assoluto, senza qualificazione. E noi domandiamo: Ma che specie di Dio sarebbe quello che non è tale in modo assoluto, ma con una certa qualificazione?
  3. Se leggiamo le Scritture Greche vediamo che Yeshùa, più che nella sua natura è visto nella sua funzione di salvatore escatologico, di redentore. Ha ragione O. Cullman che ha scritto nella sua cristologia: “Quando il Nuovo Testamento si domanda: Chi è il Cristo?, non intende in modo primario che cosa sia la sua natura, ma quale sia la sua funzione” (Christology of the New Testament, pag. 3). Nonostante ciò, ben presto la speculazione dei discepoli di Yeshùa dell’epoca post-apostolica, ormai avviati all’apostasia, si rivolse a esaminare la natura spostando il punto focale dell’attenzione. Per questo, non cogliendo più il senso vero di passi come Flp 2:5-11, Col 1:15-20, Eb 1:1,2 e Gv 1:1, si giunse alle asserzioni dei Concili di Nicea e di Calcedonia, fino ad affermare che Yeshùa ha “la stessa sostanza del Padre” e che è “vero Dio e vero uomo”. Ma la domanda cruciale è: si tratta davvero della teologia delle Scritture Greche oppure di una deformazione introdottasi nel pensiero di una chiesa ormai alla deriva? Interessante notare ciò che scrive M. Werner; secondo questo studioso il dogma della divinità di Yeshùa ne ha fatto un altro dio-redentore ellenistico, dietro il cui mito si è oscurata la reale umanità del Cristo. Si è fatto così di Yeshùa un essere che tutto sa, un uomo che non poteva peccare e nemmeno essere tentato come noi. E ciò si afferma nonostante le affermazioni bibliche che asseriscono la sua ignoranza del giorno finale e la sua peccaminosità perché tentato come tutti.
  4. Yeshùa si è mai chiamato Dio? Finalmente gli studiosi hanno raggiunto la conclusione che mai Yeshùa si è personalmente proclamato uguale a Dio. Basti pensare al passo marciano: “Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, tranne uno solo, cioè Dio” (Mr 10:18). In questo passo Yeshùa si distingue da Dio e non vuole, assolutamente, perfino che gli siano attribuiti dei titoli propri del Padre, che è l’unico e vero Dio.

   Ogni serio studioso delle Scritture non può non riconoscere che sono molto rari i casi in cui nelle Scritture Greche Yeshùa sembra essere chiamato Dio. E questi rari passi (che sono davvero pochi) sono oggetto di discussione riguardo alla critica testuale e alla loro interpretazione. Vediamoli, questi passi, e discutiamoli.

   “Nel principio era la Parola, la Parola era con Dio, e la Parola era Dio”, “Nessuno ha mai visto Dio; l’unigenito Dio, che è nel seno del Padre, è quello che l’ha fatto conoscere”. – Gv 1:1,18.

   Che con “parola” s’intenda Yeshùa è una forzatura creata dai trinitari che perfino degli unitari come i Testimoni di Geova si portano dietro. Il testo non dice per niente che la “parola” sia Yeshùa. La “parola” è la parola di Dio, quella usata nella creazione. Questa “parola” che è divina perché appartiene a Dio, è ovviamente con lui. Questa parola divina, con tutta la sua sapienza, è entrata in Yeshùa. Il Cristo aveva quindi dimorante in sé la parola di Dio. Ma non è detto che egli fosse Dio.

    Il v. 18 è criticamente discutibile: anziché “unigenito Dio”, altri codici hanno “unigenito figlio” oppure “unigenito di Dio”. È davvero curioso che TNM (la Bibbia dei Testimoni di Geova, che sono unitari) traduca: “unigenito dio”, quando la cattolica CEI (testo ufficiale della Chiesa Cattolica, trinitaria) traduce: “Figlio unigenito”! Il fatto che il v. 18 dichiari che Yeshùa “è nel seno [petto] del Padre” denota l’intimità con il Padre, ma non l’identità. Si tratta solo d’intimità, sebbene maggiore di quella che Giovanni aveva con Yeshùa riposando solo “sul petto di Gesù”. – Gv 13:23.

   In Gv 20:28 troviamo l’affermazione di Tommaso che si rivolge a Yeshùa resuscitato: “Signor mio e Dio mio!”. Ma è, appunto, solo un’esclamazione. Non vorremmo essere troppo profani, ma per fare un esempio, assomiglia all’esclamazione di una ragazza che si trova improvvisamente di fronte un bellissimo ragazzo e che spontaneamente si lascia scappare: “Mio Dio!”. Con la differenza, però, che l’incredulo Tommaso, caparbio nel dichiarare che mai avrebbe creduto se non toccando con mano le ferite di Yeshùa, si trova improvvisamente davanti proprio Yeshùa che gli dice: “Porgi qua il dito e vedi le mie mani; porgi la mano e mettila nel mio costato” (v. 27). C’era davvero di che lasciarsi andare alle esclamazioni.

   Un altro passo è: “La chiesa di Dio, che egli ha acquistata con il proprio sangue” (At 20:28), in cui attribuendo in maniera blasfema a Dio il “sangue” si pensa che Paolo intendesse parlare di Yeshùa chiamandolo Dio. Ma il testo è molto discutibile. I manoscritti migliori hanno διὰ τοῦ αἵματος τοῦ ἰδίου (dià tu àimatos tu idìu), “con il sangue del suo proprio [figlio]”. Dunque, nessuna affermazione della divinità di Yeshùa. Si tratta di un’espressione tipica della terminologia paolina.

   “Il Cristo, che è sopra tutte le cose Dio benedetto in eterno. Amen!” (Rm 9:5). Ma qui si gioca sulla punteggiatura che – non dimentichiamolo – è aggiunta dai traduttori poiché il testo greco è scritto con le parole tutte di seguito senza punteggiatura. La frase può essere benissimo tradotta così: “Gli israeliti, ai quali appartengono l’adozione, la gloria, i patti, la legislazione, il servizio sacro e le promesse; ai quali appartengono i padri e dai quali proviene, secondo la carne, il Cristo. Dio, che è sopra tutte le cose, sia benedetto in eterno. Amen!” (vv. 4 e 5). L’amèn finale avvalora questa traduzione. Dopo aver detto che Yeshùa proviene dagli ebrei, Paolo esulta in una benedizione: “Sia benedetto in eterno Dio, che è al di sopra di tutto. Amèn!”. Ma la frase potrebbe anche essere tradotta così: “Dai quali è venuto secondo la carne il Cristo, che è sopra tutte le cose. Dio sia benedetto [per questo] in eterno. Amèn!”. In ogni caso, Paolo sta ringraziando Dio perché ha provveduto Yeshùa.

   2Ts 1:12: “Secondo la grazia del nostro Dio e Signore Gesù Cristo”. Qui si vorrebbe considerare Dio e Yeshùa una sola unica persona, giacché la frase “secondo la grazia” regge tanto Dio quanto Yeshùa. Questo versetto, però, non può essere assolutamente utilizzato dai trinitari perché si dovrebbe identificare il Padre e il figlio con un’unica persona, cosa inammissibile per la trinità che ammette un solo Dio ma tre persone distinte. Non può essere neppure utilizzato dai binitari, che ammettono addirittura due Dii e due persone. Qual è allora il senso del versetto? Paolo qui dice che “la grazia” proviene da Dio tramite Yeshùa, nel senso che la loro azione congiunta ci dona la grazia. L’espressione paolina è simile a quella usata in Flp 1:2: “Grazia a voi e pace da Dio nostro Padre e dal Signore Gesù Cristo”.

   In 1Tm 3:16 si legge: “Colui che è stato manifestato in carne”. Alcuni codici (Sinaitico, Alessandrino, Eframitico), al posto di ὅς (os), “colui che”, hanno qui θεὸς  (theòs), “Dio”. Il che dovrebbe portare alla traduzione blasfema: “Dio è stato manifestato in carne”. Tuttavia, la lezione più sicura è quella che ha os (“colui che”), la quale non ha alcun accenno alla divinità.

   Tito 2:13 dice che il credente deve vivere spiritualmente “aspettando la beata speranza e l’apparizione della gloria del nostro grande Dio e Salvatore, Cristo Gesù”. Stando alla traduzione, sembrerebbe trattarsi di un essere unico chiamato ‘Dio salvatore’. Ma qui siamo di fronte allo stesso senso che abbiamo già visto in 2Ts 1:12. Ci si riferisce a due persone insieme. L’apparizione di Yeshùa è accompagnata anche dalla manifestazione di Dio. L’apparizione di Yeshùa è in funzione a quella di Dio: “Nella città vi sarà il trono di Dio e dell’Agnello”. – Ap 22:3.

   In Eb 1:8 del figlio il Padre dice: “Il tuo trono, o Dio, dura di secolo in secolo”. La citazione è tratta da Sl 45:6: “Il tuo trono, o Dio, dura in eterno”, dove il titolo “dio” si riferisce al re di Israele (v. 1) e dove, del resto, dopo aver chiamato “Dio” il re lo si distingue dal Dio unico in quando vi si aggiunge: “Perciò Dio, il tuo Dio, ti ha unto d’olio di letizia; ti ha preferito ai tuoi compagni” (v. 7). Questo passo dei Salmi, citato da Eb, è importante per la valutazione che la parola “Dio” ha nel contesto.

   In 2Pt 1:1 l’apostolo saluta coloro che hanno ottenuto una fede preziosa “nella giustizia del nostro Dio e Salvatore Gesù Cristo”. Anche qui la mancante ripetizione dell’articolo prima di “Salvatore Gesù Cristo” ha indotto alcuni a pensare che si parli di Yeshùa come dello stesso Dio prima considerato. Tuttavia, per esaltare l’unità di azione tra Dio e Yeshùa si poteva benissimo eliminare l’articolo pur distinguendo le due persone.

   1Gv 5:20: “Il Figlio di Dio è venuto e ci ha dato intelligenza per conoscere colui che è il Vero; e noi siamo in colui che è il Vero, cioè, nel suo Figlio Gesù Cristo. Egli è il vero Dio e la vita eterna”. Ah, le traduzioni! Ecco quella giusta, in armonia con tutta la Bibbia: “Sappiamo che il figlio di Dio venne e ci diede discernimento per conoscere il vero. E noi siano nel vero per mezzo di suo figlio Yeshùa il consacrato. Il vero è questo: Dio e la vita eterna”. Quasi bene traduce TNM: “Ma sappiamo che il Figlio di Dio è venuto e ci ha dato la capacità intellettuale di acquistare conoscenza del Vero. E noi siamo uniti al Vero, per mezzo del Figlio suo Gesù Cristo. Questi è il vero Dio e la vita eterna”.

   Dobbiamo trarre una conclusione. Sembra strano – nel caso che la confessione nella divinità di Yeshùa fosse essenziale nella fede – che vi si faccia riferimento in così pochi passi, per di più discutibili e incerti. Come mai manca ogni chiara confessione di fede nelle Scritture Greche in Yeshùa come Dio, mentre se ne trovano molte che lo identificano come “Signore”? Non è forse per il fatto che l’identificazione trinitaria posteriore non corrisponde in nulla al messaggio biblico primitivo? Crediamo proprio di sì.

   Qual è il valore del titolo “Dio”? Talvolta le Scritture Greche sembrano chiamare Yeshùa Dio (theòs), ma mai il termine è usato in modo da identificare Yeshùa con Colui che nelle Scritture Greche è chiamato “il Dio” (o theòs), vale a dire il Dio unico e supremo.

   Dobbiamo stare bene attenti a non identificare il linguaggio dei semiti e delle Scritture Greche con il linguaggio occidentale e moderno. È vero che per i primi discepoli Yeshùa era il riflesso di Dio, il fulgore della gloria divina, il primogenito delle creature, la sapienza di Dio, la parola di Dio, elevato al di sopra degli angeli. Per indicare tutto questo i suoi discepoli lo hanno chiamato Cristo, figlio dell’uomo, figlio di Dio, Signore e, in certe circostanze, … Dio. Ora, è un fatto che il linguaggio greco non faceva grande distinzione tra l’umano e il divino, per cui i filosofi di valore, i re e i soldati eroici potevano essere chiamati “figli di Dio”, “Signori” e anche “Dio”. Il re seleucida Antioco IV fece coniare delle monete su cui era chiamato “Signore e Dio”. Le affermazioni che riguardano Yeshùa come “Dio” vanno valutate nel contesto delle Scritture Ebraiche, dove – pur asserendo il monoteismo in modo molto forte – esseri particolari sono chiamati “figli di Dio”, “Signori” e anche “Dio”. Questo è stato confermato anche dai manoscritti di Qumràn. Ed è inutile giocare sul maiuscolo e sul minuscolo (“dio” e “Dio”) come fa TNM; l’ebraico non ha lettere maiuscole (proprio non esistono) e il greco dei manoscritti non le distingue (pur avendo il greco le maiuscole).

   Filone poteva così parlare del lògos come di un “secondo Dio” e chiamare certi uomini virtuosi “divini” (thèioi) o “figli di Dio”. Mosè una volta è perfino chiamato “Dio”: “Egli [Aaronne] ti servirà come bocca, e tu [Mosè] gli servirai come Dio” (Es 4:16, TNM). La traduzione greca dei LXX è ancora più diretta: “Tu sarai τὸν θεόν, ton theòn, “il Dio”. Nelle Scritture Ebraiche il re d’Israele era chiamato “figlio di Dio”, anzi – come abbiamo già visto in Sl 45 – in un passo è chiamato “Dio” accanto al supremo e unico “Dio”. E ciò viene ribadito e applicato a Yeshùa in Eb 1:8. Non ci si deve scandalizzare di ciò. Se ciò accade, è solo perché non si comprende il senso che la Scrittura dà alla parola “Dio”, è solo perché si rimane ancorati alla propria convinzione religiosa occidentale che nulla ha a che fare con quella semitica della Bibbia. Non è necessario fare violenza al testo biblico e modificarlo come fa TNM in Eb 1:8: “Dio è il tuo trono per i secoli dei secoli”. Ma chi siamo noi per modificare la Bibbia? Il testo greco originale ha qui:

θρόνος σου θες

o thrònos su o theòs

il trono di te, o Dio

   Come si vede, manca del tutto il verbo “è”, che TNM aggiunge. Né si può dire che sia sottinteso, perché in tal caso come dovremmo considerare il vocativo o theòs? Né dobbiamo essere tratti in inganno dalla somiglianza dei due o. Il primo è un articolo (“il”), riferito a “trono”, il secondo o sostiene il vocativo theòs. Nel greco popolare delle Scritture Greche o indica tutti e due, come confermato dal Vocabolario del Nuovo Testamento: “: nom. sing. masc., voc. sing. masc.”. D’altra parte, la forzatura di TNM la porta a dover modificare anche Sl 45:6, il passo originale citato da Eb, per cui essa traduce anche qui: “Dio è il tuo trono”, contro l’ebraico כִּסְאֲךָ אֱלֹהִים  (kischà, Elohìm, “il trono di te, o Dio”; nel Testo Masoretico è al v. 7). Che la traduzione greca dei LXX  (qui in 44:7) traduce ὁ θρόνος σου, ὁ θεός (o thrònos su, o theòs), esattamente come lo ritroviamo in Eb. Gli ebrei non temevano di usare la parola Elohìm (“Dio”) applicata al di fuori del Dio uno e unico. Lo stesso Baal è chiamo Elohìm nella Scrittura; falso e pagano quanto si vuole, senza il minimo dubbio, ma pur sempre chiamato Elohìm. D’altra parte questo è riconosciuto anche dagli editori della TNM che ammettono che il termine “ricorre riferito a Geova, ad altri dèi e a uomini” (Perspicacia nello studio delle Scritture Vol. 1, pag. 697, § 2, alla voce “Dio”). Quando Yeshùa fu rimproverato di bestemmiare perché si faceva simile a Dio pur essendo uomo, egli chiarisce il suo concetto riportando un brano di Sl 82: 6 dove si legge: “Io [Dio] ho detto: ‘Voi siete dèi, siete figli dell’Altissimo’”, applicando a se stesso un titolo (“Dio”) che Sl riferisce ai giudici. – Gv 10:34.

   Nelle Scritture Greche anche Pietro avverte i suoi lettori che essi, come discepoli di Yeshùa, sono “partecipi della natura divina” (2Pt 1:4). La deificazione dei credenti è conseguenza logica della salvezza.

   La domanda seria, da studiosi, è: si accorda la giusta considerazione a questi fenomeni linguistici di tutta la Bibbia quando si studia la cristologia delle Scritture Greche? Se il re e il giudice potevano essere chiamati “Dio” in quanto rappresentavano Dio, il Dio, a maggior ragione lo poteva – anzi, lo doveva – essere Yeshùa, il consacrato per eccellenza.

   Il sospetto è che – ancora una volta, anche qui – la Bibbia sia stata letta applicando la concezione occidentale del significato della parola “Dio” anziché preoccuparsi di capire quello semitico. Questo ha portato anche gli unitari a provare un imbarazzo tutto occidentale tale da dover modificare certi passi o da ricorrere a maiuscole e minuscole (Dio, dio) assenti nel testo biblico. La Bibbia va coraggiosamente capita, non giustificata.

   Le Scritture Greche sono ricche di espressioni di subordinazione riferire a Yeshùa. Va sottolineato che la cristologia biblica, tutta impregnata di subordinazione, poggia sulla resurrezione di Yeshùa. È con la resurrezione che Yeshùa è diventato il “Signore”: “Sappia dunque con certezza tutta la casa d’Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso” (At 2:36). I titoli sono applicati a Yeshùa come conseguenza di questo fatto. Yeshùa è divenuto il Signore con la resurrezione.

   Ma anche dopo la sua resurrezione egli è presentato come distinto e separato da Dio, come un altro membro della corte celeste, come gli angeli, sebbene in una situazione a essi superiore. Egli si trova alla destra di Dio (At 7:56) e le persone lo vedranno tornare dal cielo come una persona distinta da Dio. Ma se noi lo identificassimo con Dio, gli si darebbe ancora la stessa posizione che egli godeva presso la prima congregazione? Data questa distinzione da Dio, il ritenere Yeshùa come vero Dio non ci condurrebbe necessariamente a una specie di diteismo? È questa l’eresia dei binitari.

   Yeshùa non solo è separato da Dio, ma è anche subordinato a Dio. È Yeshùa che confessa o sconfessa le persone davanti a Dio (Mt 10:22,23), che intercede presso Dio a nostro favore (Rm 8:34; Eb 7:25; 1Gv 2:1), che è mediatore tra Dio e l’essere umano (1Tm 2:5). Yeshùa è il sommo sacerdote fedele a Dio che ha appreso a ubbidire a colui che lo ha mandato e che offre preghiere e suppliche a Dio e può chiamare il Padre suo Dio: “Nei giorni della sua carne, con alte grida e con lacrime egli offrì preghiere e suppliche a colui che poteva salvarlo dalla morte ed è stato esaudito per la sua pietà. Benché fosse Figlio, imparò l’ubbidienza dalle cose che soffrì”, “Allora ho detto: ‘Ecco, vengo’ (nel rotolo del libro è scritto di me) ‘per fare, o Dio, la tua volontà’”. –  Eb 5:7,8;10:7.     

   In più, Paolo sostiene la subordinazione del Figlio a Dio Padre anche dopo che Yeshùa avrà adempiuto la sua funzione salvifica e avrà abbattuto tutti gli avversari, morte compresa.

Quando ogni cosa gli sarà stata sottoposta, allora anche il Figlio stesso sarà sottoposto a colui che gli ha sottoposto ogni cosa, affinché Dio sia tutto in tutti”. – 1Cor 15:28.

   Si devono quindi intendere i singoli passi secondo il contesto generale di tutta la Sacra Scrittura. Ad esempio, le attestazioni più forti della presunta divinità del Cristo si rinvengono proprio nel Vangelo di Giovanni, dove più che altrove si mette in risalto la subordinazione del Figlio al Padre: “Il Padre è maggiore di me” (14:28); “Io non posso far nulla da me stesso; come odo, giudico; e il mio giudizio è giusto, perché cerco non la mia propria volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato”. – 5:30.

   È proprio nel Vangelo di Giovanni che all’accusa di farsi uguale a Dio, Yeshùa – anziché confermare – lo spiega nel modo della subordinazione: se possono essere chiamati “Dio” coloro a quali la parola di Dio è rivolta, tanto più può essere chiamato “Dio” lui che dona tale parola. – Gv 10:34.

   Anche il cap. 8 di Gv va inteso in armonia con il cap. 1. Abraamo aspirava a vedere i giorni messianici. Pietro dice: “Intorno a questa salvezza indagarono e fecero ricerche i profeti, che profetizzarono sulla grazia a voi destinata. Essi cercavano di sapere l’epoca e le circostanze cui faceva riferimento lo Spirito di Cristo che era in loro, quando anticipatamente testimoniava delle sofferenze di Cristo e delle glorie che dovevano seguirle. E fu loro rivelato che non per sé stessi, ma per voi, amministravano quelle cose che ora vi sono state annunziate da coloro che vi hanno predicato il vangelo, mediante lo Spirito Santo inviato dal cielo: cose nelle quali gli angeli bramano penetrare con i loro sguardi” (1Pt 1:10-12). Secondo l’esegesi dei maestri rabbinici, Dio rivelò ad Abraamo i giorni felici del messia. È su questa esegesi ebraica che dovrebbero riflettere coloro che – non comprendendo la Scrittura perché la leggono all’occidentale – ipotizzano una preesistenza di Yeshùa. “Abraamo, vostro padre, ha gioito nell’attesa di vedere il mio giorno; e l’ha visto, e se n’è rallegrato” (Gv 8:56). Inoltre, poiché in Yeshùa dimorava la parola eterna di Dio (1:14), egli, pur essendo nato da una donna non molti anni prima (meno di cinquanta, 8:57), poteva ben dire di esistere già al tempo di Abraamo (8:58). Concetti semitici difficili per l’occidentale che come legge capisce, senza preoccuparsi del fatto che sta leggendo espressioni di una cultura molto diversa dalla sua.

   Ogni passo che tratta della “divinità” di Yeshùa va letto alla luce della subordinazione di Yeshùa a Dio, la quale è molto pronunciata in tutte le Scritture Greche. La stessa cosa vale ovviamente per i passi paolini. Così, Col 1:15-20 va inteso alla luce di 1Cor 15:28, ricordando la sintesi di Paolo in 1Cor 11:3.

“Egli è l’immagine del Dio invisibile, il primogenito di ogni creatura; poiché in lui sono state create tutte le cose che sono nei cieli e sulla terra, le visibili e le invisibili: troni, signorie, principati, potenze; tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui. Egli è prima di ogni cosa e tutte le cose sussistono in lui. Egli è il capo del corpo, cioè della chiesa; è lui il principio, il primogenito dai morti, affinché in ogni cosa abbia il primato. Poiché al Padre piacque di far abitare in lui tutta la pienezza e di riconciliare con sé tutte le cose per mezzo di lui, avendo fatto la pace mediante il sangue della sua croce; per mezzo di lui, dico, tanto le cose che sono sulla terra, quanto quelle che sono nei cieli”. – Col 1:15-20. “Quando ogni cosa gli sarà stata sottoposta, allora anche il Figlio stesso sarà sottoposto a colui che gli ha sottoposto ogni cosa, affinché Dio sia tutto in tutti”. – 1Cor 15:28.
“Il capo di ogni uomo è Cristo, che il capo della donna è l’uomo, e che il capo di Cristo è Dio”. – 1Cor 11:3.

   A tutto questo s’aggiunga il fatto che l’inno cristologico in Flp 2 – come abbiamo visto nella sua esegesi – non parla di una preesistenza di Yeshùa.

   Che tutto ciò sia conforme al vero intendimento delle Scritture Greche appare evidente anche da una considerazione relativa all’ambiente giudaico del primo secolo. Gli ebrei, che erano rigidissimi nel loro monoteismo, mai accusarono i discepoli di Yeshùa di fare del loro messia un altro Dio. Gli ebrei accusarono la prima congregazione di tanti misfatti e di tanti errori (abbiamo visto quante ne diceva e ne faceva già da solo il fariseo Paolo), fecero anche l’accusa di aver reso messia quello che loro avevano fatto uccidere, ma mai fecero accuse di diteismo. Per quegli ebrei era evidente che tutte le frasi e tutti gli epiteti attribuiti a Yeshùa rientravano in una delle categorie che nella Bibbia erano già riferite ai re, ai profeti e ai giudici. Essi non contestarono mai i titoli divini attribuiti a Yeshùa in se stessi, ma contestarono che Yeshùa fosse un profeta o il messia.

   Questa stessa considerazione ci deve portare oltre. Infatti, fu proprio più tardi, nel quarto secolo (con le conclusioni del Concilio di Nicea), che gli ebrei iniziarono ad accusare i “cristiani” di politeismo. La stessa identica accusa avvenne alcuni secoli dopo da parte dei musulmani, che accusarono i “cristiani” di aver messo una triplice divinità al posto del Dio unico.

   Se poi, volendo ragionare per assurdo, volessimo ipotizzare per puro amore di ragionamento, che Yeshùa avesse la natura umana insieme a quella divina e che quindi avesse prerogative tanto umane quanto divine, andrebbe detto che Yeshùa non fece mai questa distinzione. La sua personalità era unica, era solo umana. Ed è appunto tutta la sua persona intera, con la sua natura umana, che ignora il giorno della fine del mondo ma sa cosa c’è nel cuore degli uomini, che da una parte è come Dio perché fa solo ciò che Dio vuole ma dall’altra è a lui sottomesso. Questa sua posizione di “uguaglianza” (meglio sarebbe dire di equivalenza) con Dio, data la sua funzione di rappresentate di Dio, consacrato da Dio, deve poi durare solo fino al compimento della sua missione, dopo di che egli sarà definitivamente sottoposto a Dio.

   La parusìa non sarà dunque l’estremo atto di glorificazione di Yeshùa, ma il momento dell’abdicazione della sua dignità:

“Difatti, Dio ha posto ogni cosa sotto i suoi piedi; ma quando dice che ogni cosa gli è sottoposta, è chiaro che colui che gli ha sottoposto ogni cosa, ne è eccettuato. Quando ogni cosa gli sarà stata sottoposta, allora anche il Figlio stesso sarà sottoposto a colui che gli ha sottoposto ogni cosa, affinché Dio sia tutto in tutti”. – 1Cor 15:27,28.

   Si potrebbe sintetizzare così: anziché dire che Yeshùa è Dio, si dovrebbe dire che in lui abita in modo tutto particolare la Divinità. In lui è Dio che parla, Dio che compie miracoli, Dio che salva. Dio è in Yeshùa in modo tutto speciale. Anche quando parlava un profeta, in quell’attimo era Dio che parlava. Attraverso il profeta si udiva la parola di Dio, ma quel momento durava per breve tempo, poi il profeta tornava ad essere una persona normale come tutti gli altri. Ma in Yeshùa, almeno dopo l’inizio della sua missione pubblica (dopo il suo battesimo, quindi), Dio era vivente in lui di continuo. La sua parola era sempre parola di Dio, la sua azione era sempre azione di Dio. Yeshùa era profeta, ma non solo per un breve momento: era profeta di continuo.

   Dio si manifestava in Yeshùa attraverso la sua parola e i suoi gesti sempre. In Yeshùa era Dio a compiere miracoli e prodigi, costantemente e non solo in certi momenti (come nei casi di Elia ed Eliseo). Yeshùa ne è consapevole e dice: “Padre, ti ringrazio perché mi hai esaudito. Io sapevo bene che tu mi esaudisci sempre”. – Gv 11:41,42.

   Dopo il suo battesimo, lo spirito santo di Dio è in Yeshùa. Non temporaneamente e in certi momenti, ma sempre. È per questo che la potenza di Dio è la sua potenza. Fu questa potenza divina a trasformare Yeshùa in spirito con la sua resurrezione. – 2Cor 3:17.

   Yeshùa, quindi, pur essendo stato persona umana del tutto simile a noi, è l’unico mezzo con cui ci è possibile su questa terra conoscere Dio: “C’è un solo Dio e anche un solo mediatore fra Dio e gli uomini, Cristo Gesù uomo” (1Tm 2:5). Non abbiamo altri modi, non ce ne sono. Proprio come esiste un solo e unico Dio, così non esiste altro mezzo per entrare in relazione con Dio. Il Dio della Bibbia è l’unico Dio. Ebbene, Yeshùa è l’unica possibilità che abbiamo per conoscere il Dio unico. In quest’ottica, che è l’ottica biblica, non dobbiamo avere ritrosie o timori nel dire che in questo senso Yeshùa per noi è Dio. Vedere Yeshùa è vedere Dio, non c’è altra via: “Chi ha visto me, ha visto il Padre” (Gv 14:9). Per noi credenti, relativamente a noi, Dio e Yeshùa sono uguali, perché la volontà dell’uno è volontà dell’altro, l’amore dell’uno è amore dell’altro, la parola dell’uno è parola dell’altro. La salvezza di Dio è provveduta tramite Yeshùa e solo tramite Yeshùa: “Chi mi respinge e non riceve le mie parole, ha chi lo giudica; la parola che ho annunciata è quella che lo giudicherà nell’ultimo giorno. Perché io non ho parlato di mio; ma il Padre, che mi ha mandato, mi ha comandato lui quello che devo dire e di cui devo parlare”. – Gv 12:48,49.

   Sarebbe però un errore basarsi su questi passi per asserire l’identità di natura tra Dio e Yeshùa, poiché le identiche parole che servono a denotare l’unione tra loro sono anche quelle che servono a denotare l’unione tra Yeshùa e i suoi discepoli e tra i discepoli tra loro, benché ognuno conservi la propria personalità naturale: “Che siano tutti uno; e come tu, o Padre, sei in me e io sono in te, anch’essi siano in noi: affinché il mondo creda che tu mi hai mandato. Io ho dato loro la gloria che tu hai data a me, affinché siano uno come noi siamo uno; io in loro e tu in me; affinché siano perfetti nell’unità” (Gv 17:21-23). La Scrittura non dice: ‘Tu sei me’, ma “Tu sei in me”; non ‘io sono te’, ma “io sono in te”. Si tratta di abitazione spirituale, di unione, del vivere uno dell’altro (come tra Yeshùa e i suoi discepoli), non d’identificazione di natura o di essenza. Per noi Yeshùa fa le funzioni del Padre, in lui è l’amore di Dio che si dispiega per noi, è la salvezza di Dio che ci proviene. Tutto ciò anche se essi sono distinti tra loro e l’uno è subordinato all’altro.

   Arriverà poi il momento in cui questa funzione di Yeshùa terminerà. E qui c’è qualcosa che – se ben lo comprendiamo – ci fa venire i brividi per la percezione dell’infinita grandezza di Dio che avvertiamo. Noi siamo talmente piccoli, indegni e distanti da Dio che solo tramite la mediazione di Yeshùa possiamo intrattenere una relazione con l’eterno Essere al di sopra e di là da tutto l’universo visibile e invisibile. Per la nostra meschina piccolezza e indegnità non ci è concesso di accedere direttamente a Lui. Yeshùa ci mette nella condizione di poterlo fare. Ma la nostra redenzione deve completarsi. Quando i nostri corpi peccaminosi e mortali saranno redenti, quando saremo nuove creature purificate e liberate, allora la missione di Yeshùa avrà fine. Sarà quello il momento in cui Yeshùa si sottoporrà definitivamente a Dio. Allora Dio sarà tutto in tutti. – 1Cor 15:28.

   Anche se con un po’ di tristezza, occorre fare alcune considerazioni. Parliamo qui di certi unitari, dei binitari e dei trinitari. I binitari e i trinitari, oltre ad offendere profondamente Dio applicando di fatto il politeismo alla Bibbia, perdono la comprensione di tutta la bellezza e la grandezza del piano divino di redimere l’umanità tramite un uomo proprio come a causa di un uomo l’umanità si autocondannò. Certi unitari, poi, fanno l’errore opposto. Costoro sono talmente ansiosi di combattere la dottrina pagana della trinità che abbassano Yeshùa più del dovuto e, di fatto, lo relegano a una pura funzione.

   Oggi ci sono persone, tante, che sinceramente sono credenti. Hanno la loro religione. Non parliamo qui di coloro che si dicono nominalmente “cristiani” e che accettano solo questa definizione come un’etichetta, vivendo poi come piace a loro. Parliamo di persone che sinceramente si sforzano di vivere in armonia con la loro comprensione della Bibbia, persone che pregano, persone che credono. A loro si può riconoscere quello che Paolo riconobbe agli ebrei del suo tempo: “Hanno zelo per Dio, ma zelo senza conoscenza” (Rm 10:2). D’altra parte, questo “zelo” testimonia in qualche modo che non sono indifferenti alla chiamata di Dio. Tuttavia, “molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti” (Mt 22:14). È Dio che chiama ed è Dio che elegge. Non spetta a noi giudicare, mai. Se una persona ritiene di aderire all’interpretazione trinitaria o a quella unitaria, se una persona ritiene che Yeshùa abbia avuto una preesistenza umana, lo faccia pure. Di certo troverà non poche difficoltà da affrontare leggendo la Bibbia. Ma è Dio che giudica il cuore delle persone. Non spetta a noi. Oggi possiamo avere una comprensione della Scrittura che ieri non avevamo. Oggi sappiamo, in quanto a conoscenza (intesa qui in senso occidentale, ovvero intellettuale) tante di quelle cose che Abraamo se le sognava. Ma questo non ci pone proprio per niente in una posizione migliore. Abraamo rimane l’unico che nella Bibbia Dio chiama “l’amico mio” (Is 41:8). La nostra conoscenza (in senso occidentale) è un nulla, uno zero assoluto, in confronto alla conoscenza (in senso semitico) che Abraamo aveva di Dio. Una persona può essere del tutto ignara di dottrine bibliche ed essere accetta a Dio più di un erudito esegeta. “La conoscenza gonfia, ma l’amore edifica” (1Cor 8:1). “In qualunque nazione chi lo teme e opera giustamente gli è gradito”. – At 10:35.

   Quel che conta, alla fine, non è tanto discutere la persona o la natura di Yeshùa, quanto affidarci a lui come unica “immagine” vera di Dio, come l’unico mediatore in cui Dio ci salva. Sarà nella gioia del cielo che per sua intercessione i credenti otterranno che sarà possibile vedere a faccia a faccia la realtà unica del Cristo.