Il concetto biblico del segno

 

   Nel battesimo si attua misticamente e sacramentalmente la morte e la resurrezione di Yeshùa cui il credente partecipa per mezzo del rito battesimale. Per comprendere appieno questo concetto occorre rifarsi alle categorie mentali del pensiero biblico. È sul concetto di segno che dobbiamo soffermarci.

   Il segno biblico, pur non presentando che un’analogia con la realtà significata (con la quale non s’identifica essenzialmente), di fatto, è intimamente legato con tale realtà che in esso viene in un certo modo resa presente (rappresentata: resa presente). Segno e realtà, nel pensiero biblico, formano un tutto unico inscindibile. Ciò costituisce una categoria a parte che non si può ridurre alle nostre categorie mentali (occidentali) di semplice raffigurazione o d’identità essenziale. Nella Bibbia il segno sta di mezzo tra la rappresentazione simbolica pura e semplice e l’identità essenziale. Il segno biblico entra in una categoria di relazione che spesso è stata trasferita nella categoria occidentale dell’essenza oppure nella categoria occidentale della semplice raffigurazione.

   Classico è il caso della Cena del Signore. Sono ambedue occidentali (e non bibliche) le categorie in cui si fa ricadere il segno del pane e del vino della Cena del Signore. Da una parte c’è la categoria occidentale dell’essenza, adottata dai cattolici: “Questo è il mio corpo”, “Questo è il mio sangue” (Mt 26:26,28, CEI), in cui pane e vino diventano vero corpo e vero sangue; non dice forse la Bibbia: “è”? E l’occidentale legge alla lettera. Dall’altra parte c’è la categoria, sempre occidentale, della semplice raffigurazione: “Questo significa il mio corpo”, “Questo significa il mio sangue“ (Mt 26:26,28, TNM), in cui si vede una semplice commemorazione intellettuale; non dice forse la Bibbia: “significa”? Queste due categorie (occidentali) sono ben lontane dalla categoria mediorientale e semitica della Scrittura.

   Il nome è nella Bibbia “segno” dell’essere con cui il nome in un certo senso s’identifica, per cui nella Scrittura conoscere il nome significa conoscere e partecipare alla potenza dell’essere evocato da tale segno. Il battesimo acquista il suo valore proprio perché è attuato nel “nome di Yeshùa”: “Ciascuno di voi sia battezzato nel nome di Gesù Cristo” (At 2:38). È nel nome di Yeshùa che gli apostoli compiono prodigi e miracoli: “Questo è stato fatto nel nome di Gesù Cristo” (At 4:10). È nel suo nome che si ha la salvezza: “In nessun altro è la salvezza; perché non vi è sotto il cielo nessun altro nome che sia stato dato agli uomini, per mezzo del quale noi dobbiamo essere salvati”. – At 4:12.

   Il nome divino era – ed è – impronunciabile per ogni ebreo, poiché l’essenza divina trascende ogni capacità umana e non può essere racchiusa in un nome. Nella Scrittura il nome è identico alla natura di un essere, alla sua persona, è come l’intima anima di un individuo. Conoscere il nome è conoscere la sostanza di un individuo, è avere parte alla sua personalità e potenza. È al nome di YHVH che Salomone consacra il suo Tempio: “Fino a quei giorni non era stata costruita una casa al nome del Signore” (1Re 3:2). Quando Dio prende possesso del Tempio vi pone il suo nome: “Luogo che il Signore, il vostro Dio, avrà scelto fra tutte le vostre tribù, per mettervi il suo nome”, “Scelto per porvi il suo nome”, “Luogo che il Signore, il tuo Dio, avrà scelto per stabilirvi il suo nome” (Dt 12:5,21;14:24); “Questa casa, sul luogo di cui dicesti: Qui sarà il mio nome!” (1Re 8:29). La Scrittura dice che Dio fa abitare il suo nome nel Tempio: “Luogo che egli avrà scelto come dimora del suo nome” (Dt 14:23). Nel mondo a venire “Gerusalemme sarà chiamata: Il trono del Signore; e tutte le genti si accoglieranno a lei, al Nome del Signore in Gerusalemme” (Ger 3:17, Did; cfr. TNM; “al nome”, e non “nel nome” come in CEI e NR). È nel nome di YHVH che Israele confidava; Israele bramava il nome di Dio, vale a dire Dio stesso:

“Abbiamo confidato nel suo santo nome

Sl 33:21

“Abbiamo sperato in te

Is 26:8

(TNM)

   Dato che, secondo il concetto biblico, il nome è sinonimo della persona stessa, è il nome di Dio che agisce potentemente. È il suo nome che sostiene il re: “Ti protegga il nome dell’Iddio di Giacobbe” (Sl 20:1, TNM). È il nome di Dio che opera miracoli in Israele: “Loderete il nome del Signore, vostro Dio, che avrà operato per voi meraviglie”. – Gle 2:26.

   Lo stesso concetto ebraico lo troviamo ovviamente anche nelle Scritture Greche. Dio delega il suo potere all’uomo Yeshùa il cui nome è possente e unico tra gli esseri umani: “Non c’è sotto il cielo nessun altro nome dato fra gli uomini” (At 4:12, TNM), “Dio lo ha sovranamente innalzato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni nome” (Flp 2:9). Questo potere divino insito nel nome sarà ripreso da Dio stesso dopo che Yeshùa avrà sbaragliato tutti i nemici: “Poi verrà la fine, quando consegnerà il regno nelle mani di Dio Padre […]. Poiché bisogna ch’egli regni finché abbia messo tutti i suoi nemici sotto i suoi piedi. […] Quando ogni cosa gli sarà stata sottoposta, allora anche il Figlio stesso sarà sottoposto a colui che gli ha sottoposto ogni cosa, affinché Dio sia tutto in tutti”. – 1Cor 15:24-28; cfr. Ap 3:12.

   Anche le azioni simboliche dei profeti racchiudono in sé la realtà profetizzata. Le frecce, scagliate da Ioas in direzione di Aman, racchiudevano in loro stesse (e, in un certo senso s’identificavano) con le vittorie israelitiche sugli aramei. Da qui l’ira di Eliseo nel vedere che Ioas alla terza freccia si ferma: compiuto tale segno diverrà ineluttabile che solo tre saranno le vittorie del re d’Israele sulla potenza nemica che non potrà più essere debellata del tutto. “Avresti dovuto percuoterlo” – continua Eliseo – “cinque o sei volte; allora tu avresti sconfitto i Siri fino a sterminarli; mentre adesso non li sconfiggerai che tre volte”. – 2Re 13:14-19.

   Quando gli ebrei celebrano ancora oggi la Cena Pasquale riproducono l’azione compiuta dagli ebrei quando furono liberati dalla schiavitù egizia dalla mano potente del loro Dio. Ma tale “segno” ha in sé la stessa carica salvifica di quel primo gesto attuato dagli israeliti prima della loro liberazione. Tale segno rende partecipi tutti gli ebrei ai benefici effetti di quella liberazione miracolosa. Il padre di famiglia è invitato a spiegare al figlio che ciò si faceva “A motivo di quello che il Signore fece per me quando uscii dall’Egitto” (Es 13:8). Si noti attentamente – e ci si commuova, se si riesce a comprendere l’efficacia del segno biblico – cosa dice ogni ebreo anche oggi, a distanza di millenni: “Per me”, “quello che il Signore fece per me quando uscii dall’Egitto”. Rabbi Gamaliele aggiungeva: “Ogni generazione deve considerarsi come una generazione uscita dall’Egitto, ogni persona di Israele deve conoscere che è stata liberata dalla schiavitù”. – Pesachìm X, 5b.

   Non era e non è in virtù di un’identificazione collettiva che l’ebreo si sentiva liberato dalla schiavitù egiziana, ma per il fatto che nel momento liturgico della Cena Pasquale egli sentiva dispiegarsi e riprodursi la potenza divina della prima celebrazione pasquale. L’ebreo si ricorda di quell’evento: “Ricordate questo giorno” (Es 13:3). Il ricordarsi non è un semplice andare con la mente al fatto, ma un riviverlo.

   Lo stesso concetto ebraico si applica alla Cena del Signore: “In ricordo di me” (1Cor 11:25, TNM). Non si tratta semplicemente di commemorare, secondo la mentalità occidentale. Il greco dice εἰς τὴν ἐμὴν ἀνάμνησιν (èis ten emèn anàmnesin). Vi compare quell’èis (εἰς) che significa “verso”, “per”. E vi compare quell’anàmnesin composto da anà (ἀνά), “in mezzo” (“fra”), e da una parola derivata dal verbo μιμνῄσκομαι (mimnèskomai), “essere un ricordo”. Il senso letterale è: “Verso l’essere il mio ricordo in mezzo”. “Fate questo, ogni volta che ne berrete, per [rendere presente] il mio ricordo in mezzo [a voi]” (1Cor 11:25, traduzione dal greco). “Poiché ogni volta che mangiate questo pane e bevete da questo calice, voi annunciate la morte del Signore” (v. 26): καταγγέλλετε (katanghèllete): “rendete noto”. Si tratta di un rivivere, di un rendere presente. Il significato ebraico del rivivere è ben diverso da una semplice cerimonia occidentale in cui le persone stanno lì a sentire un discorso in una commemorazione. Questo rivivere la morte di Yeshùa non è per nulla un ripetere la sua morte avvenuta una volta sola nel passato: “Non è per offrire se stesso spesso […]. Altrimenti, egli avrebbe dovuto soffrire spesso dalla fondazione del mondo. Ma ora si è manifestato una volta per sempre” (Eb 9:25,26, TNM). Non si tratta ripetere, ma si tratta piuttosto di rendere presente e attuale quell’evento del passato facendolo rivivere oggi.

   Anche il battesimo è un “segno” perché esteriormente raffigura la morte e la resurrezione di Yeshùa mediante il rito dell’immersione-emersione, cui il credente viene innestato. La sepoltura vi prende il posto della morte perché era più facile attuarla così e anche perché è un morto che si seppellisce, non un vivente. Mediante questa rappresentazione esteriore il battesimo rende presente e attuale la morte e la resurrezione di Yeshùa in cui ogni battezzando s’immedesima. Che questa suggestione sia esatta è insito nel termine ὁμοίωμα (omòioma) con cui il battesimo viene presentato da parte di Paolo. Il termine omòioma non indica solo “somiglianza”: “Siamo stati uniti a lui nella somiglianza della sua morte” (Rm 6:5, TNM). Omòioma indica un atto che in un certo senso s’identifica con la realtà, che nel caso presente è appunto la morte e la resurrezione di Yeshùa. Omòioma indica la riproduzione il più possibile vicina alla realtà rappresentata, dalla quale riceve efficacia e valore. L’immersione ed emersione battesimale sono l’aspetto esteriore assunto dalla morte e resurrezione di Yeshùa per agire sul credente che si fa battezzare. “Se per l’immagine siamo divenuti partecipi della sua morte, così saremo [partecipi] pure della sua resurrezione”. – Rm 6:5, traduzione dal greco.

   L’omòioma biblico, più che assumere il valore astratto di “somiglianza”, indica un atto esterno e concreto che riproduce in modo visibile la morte e la resurrezione del Cristo con le quali in maniera relazionale si identifica. Noi siamo stati piantati assieme a lui nella morte di Yeshùa non tramite la nostra morte fisica, ma tramite la riproduzione di essa che si ha nell’immersione battesimale.

   Mentre per l’occidentale la “raffigurazione” o “immagine” è sempre considerata come qualcosa di distinto e separato dalla realtà rappresentata, per l’orientale essa s’identifica in un certo senso con la realtà, è il modo con cui la realtà diviene visibile e operante sulla persona. Se ciò si attua in ogni “raffigurazione” anche umana, tanto più si avvera quando tale “raffigurazione” è stata voluta e stabilita da Dio.

   Nell’atto battesimale Paolo si rifà alla categoria semitica del “segno” che, per la sua relazione essenziale con la realtà, la riproduce e in un certo senso la rende presente. Per Paolo il battesimo non è una realtà distinta dalla morte e dalla resurrezione di Yeshùa, ma è il mezzo con cui l’identica, e l’irripetibile realtà della morte e della resurrezione di Yeshùa è resa presente perché possa operare nelle singole persone che rinascono in Cristo.

   Non è che i battezzandi siano misteriosamente riportati indietro nel passato in modo da essere associati alla morte e alla resurrezione storiche di Yeshùa, ma sono la morte e la resurrezione del Cristo che vengono in un certo modo rese presenti e attuali nel segno e possono quindi operare nel battezzando che vi viene innestato.

   In quel momento il battezzando diviene solidale con la morte di Yeshùa, con lui muore alla vita terrena di Adamo, e con lui risorge alla vita ultraterrena e soprannaturale che è propria di Yeshùa e che si disgelerà nel giorno della resurrezione finale. Ma questa resurrezione finale non sarà altro che lo svelarsi di quei germi di vita che la persona battezzata ha ricevuto nel battesimo tramite il suo innesto alla resurrezione di Yeshùa.

   Questa comprensione del significato del segno battesimale spiega appieno tutti i passi biblici che non solo parlano del nostro innesto alla morte e alla resurrezione di Yeshùa, ma anche lo ricollegano al rito del battesimo.

   Si può parlare di morte fisica e di morte spirituale del credente? La morte spirituale al peccato non è altro che la conseguenza del nostro innesto alla morte fisica di Yeshùa, il quale trascina con sé l’eliminazione della pena di morte propria dell’essere umano decaduto. Il credente non si unisce alla riproduzione della morte di Yeshùa, ma tramite la riproduzione battesimale s’innesta e partecipa alla morte fisica e alla resurrezione fisica di Yeshùa avvenute circa duemila anni or sono e che vengono in un certo senso rese presenti nel segno dell’immersione ed emersione battesimali.

   Il segno non ha, infatti, valore in se stesso, ma solo nel suo rapporto con la realtà raffigurata da cui trae la sua efficacia. Perciò il credente che si battezza, tramite il segno si collega agli eventi fatidici di quel tragico pomeriggio in cui Yeshùa morì e di quel meraviglioso tardo pomeriggio di tre giorni dopo in cui fu resuscitato. Assieme al Cristo lui pure muore e assieme al Cristo lui pure risorge, per cui – annientati i vincoli che prima lo tenevano avvinto alla morte terrena – in lui fanno irruzione le forze vivificanti che hanno tratto Yeshùa dal sepolcro. Per il battezzato e per la battezzata valgono le parole di Yeshùa: “Chi crede in me, anche se muore, vivrà; e chiunque vive e crede in me, non morirà mai” (Gv 11:25,26). “Chi crede”: tempo presente con il valore continuativo proprio dell’indicativo presente: “Chi continua a credere”. Chi continua a credere. Fino alla fine.