La parola “Madonna” non ha a che fare con la Bibbia. Questa parola deriva dall’italiano antico. Letteralmente significa: mia donna. Oggi diremmo: signora. Si trattava di un appellativo di riverenza rivolto alle donne in generale, particolarmente se sposate. È di dante il verso Madonna è disiata in sommo cielo. L’appellativo di “Madonna” è oggi rimasto ad indicare la madre di Yeshùa, il cui vero nome era Miryàm.

   La madre di Yeshùa fu “sempre vergine”, come sostengono i cattolici?

   La Bibbia, una volta affermato il concepimento verginale di Yeshùa da parte di Miryàm (si veda al riguardo lo studio precedente, La madre di Yeshùa), non afferma altro. Noi pure, se vogliamo rimanere in armonia con il testo sacro, nulla più possiamo affermare per il periodo posteriore. Correremmo, se no, il rischio di sostenere dei fatti non documentali né con la Bibbia né con altri testi. Tanto più che i primi scritti “cristiani” attestano che Miryàm con il parto perse la verginità. Lo afferma chiaramente Tertulliano: “Virgo quantum a viro non virgo quantum a partu [vergine quanto all’uomo ma non vergine quanto al parto]”. – De carne Christi, 23.

   Fu solo più tardi – e precisamente nei testi apocrifi (come il cosiddetto Protovangelo di Giacomo (capitoli 19/20) – che si impose ai cattolici la credenza di Miryàm sempre vergine. Secondo questi scritti, due levatrici esaminano Miryàm e ne constatano stupite la persistente verginità anche dopo il parto. Questo episodio è pure ricordato da Clemente Alessandrino (Stromata VII, 16,93). Fu solo nel quinto secolo che si crearono le “similitudini” per spiegare l’asserita “sempre verginità” di Miryàm. Una di queste similitudini paragona la nascita di Yeshùa ad un raggio di sole che attraversa un cristallo senza spezzarlo. Paragone certo suggestivo, ma sta di fatto che il ventre di Miryàm non era un cristallo e che Yeshùa non era un raggio di luce. Un altro paragone richiama il fatto che Yeshùa entra nel cenacolo in cui erano gli apostoli nonostante le porte fossero ben chiuse per la paura dei giudei (Gv 20:26). Qui si trascura il fatto che il corpo glorioso di Yeshùa risuscitato possedeva delle proprietà che il suo corpo mortale prima della resurrezione non possedeva. Alcuni teologi cattolici pretendono poi di applicare al parto di Yeshùa una frase di Ezechiele: “Questa porta sarà chiusa; essa non si aprirà e nessuno entrerà per essa, poiché per essa è entrato il Signore, Dio d’Israele; perciò rimarrà chiusa” (44:2). Questo passo non ha però nulla a che vedere con il ventre di Miryàm, perché si riferisce ad una delle porte del ricostruito tempio di Gerusalemme; per di più, non si dovrebbe dimenticare che tale porta doveva riaprirsi ogni sabato ed ogni novilunio (Ez 46:1-3), per cui non può riferirsi alla nascita di Yeshùa neppure tipicamente.

   Dato, quindi, che la Bibbia attesta la verginità di Miryàm solo fino al parto, non possiamo che concludere che il parto avvenne secondo la normale legge della natura.

   È significativo che l’idea della perpetua verginità di Miryàm sia stata strenuamente difesa proprio dai cosiddetti “padri della Chiesa” che più si prodigavano per sostenere la vita cenobitica, e cioè Ambrogio e Girolamo. Dietro loro suggerimento un largo stuolo di ragazze vergini abbandonò la propria famiglia per consacrarsi a Dio nei monasteri da essi sostenuti. Miryàm, madre di Yeshùa, non poteva essere da meno di queste vergini, per cui si dovette abbinare al suo matrimonio con Giuseppe la sua perpetua verginità sia nel parto che dopo. Eppure, questa idea della verginità di Miryàm era stata respinta da Tertullinao (3° secolo); dal vescovo Bonoso di Sardica, da Elvidio, dal monaco Gioviniano di Roma, dal presbitero Vigilanzio (4° secolo). Divenne dogma di fede solo nel 7° secolo con la decisione del Concilio Lateranense tenuto nel 649 sotto la guida del vescovo romano Martino I.

   Per stabilire la perpetua verginità di Miryàm o la sua verginità riferita solo al concepimento di Yeshùa si gioca molto, da parte di studiosi di opposte fazioni, anche su una semplice parola: “finché”. Leggiamo in Matteo:

“Egli non la conobbe, finché ella ebbe partorito il suo figlio primogenito, al quale pose nome Gesù”. – Mt 1:25, ND.

   Va ricordato intanto che qui “conoscere” è un  eufemismo  biblico usato molte volte nella Scrittura per  designare l’unione  coniugale  tra marito e moglie (cfr. Gn 4:1; 1Sam 1:19). Infatti, la Nuova Riveduta traduce:

“[Giuseppe] non ebbe con lei rapporti coniugali finché ella non ebbe partorito un figlio”. – Mt 1:25.

   Molti studiosi, specialmente in ambito protestante, poggiando sulla congiunzione finché (greco ἕως, èos), ne deducono che è implicitamente supposto che Giuseppe abbia agito, dopo la nascita di Yeshùa, come un vero marito nei riguardi di Miryàm, dandole così la possibilità di partorire altri figli e figlie, che sarebbero appunto i fratelli e le sorelle di Yeshùa ricordati in Mt 13:56,56. Questi studiosi, a ragione, adducono il comando dell’angelo a Giuseppe: “Àlzati, prendi il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e restaci finché [greco ἕως, èos] io non te lo dico” (Mt 2:13). Qui è implicito che, dopo una successiva comunicazione divina, Giuseppe potrà lasciare – come in effetti lasciò – l’Egitto per tornare in patria.

   I cattolici, vincolati come sono al dogma della perpetua verginità di Miryàm, non sono però liberi di intendere così il passo mattaico. Devono infatti intendere quel “finché” in modo da escludere l’esistenza di qualsiasi rapporto sessuale tra i due coniugi dopo la nascita di Yeshùa. Questo sono riusciti a fare. O, meglio, hanno tentato di fare. O, meglio ancora, si sono illusi di aver fatto. Si tratta del tentativo di dare a quel “finché” un senso precisivo. Ne nacque così questa versione biblica: “E senza che egli la conoscesse, ella partorì un figlio a cui pose nome Gesù” (Mt 1:25, Sacra Bibbia tradotta dai testi originali, a cura del Pontificio Istituto Biblico di Roma, Firenze, Salani, 1961, pag. 1778). Così anche Robaldo e Tintori.

   Si noti intanto che in questa traduzione l’enfasi è posta su Miryàm, che diviene il soggetto della proposizione principale (“ella partorì”), mentre nel greco originale l’enfasi è posta su Giuseppe quale soggetto della proposizione principale (“egli non ebbe rapporti”), mentre Miryàm è il soggetto della proposizione dipendente. Osservato questo, esaminiamo ora questo “finché” alla luce della Bibbia. Prenderemo in considerazione quei passi biblici che gli studiosi cattolici vorrebbero usare a dimostrazione che quel “finché” non va inteso come la grammatica greca lo intende.

   “Mikal, figlia di Saul, non ebbe figli fino [greco ἕως, èos, LXX] al giorno della sua morte” (2Sam 6:23, CEI). È semplicemente ridicolo basarsi su questo “finché” (“non ebbe figli finché morì”) per dimostrare che un “finché” non significhi necessariamente un cambio di cose successivo. È infatti ovvio che questa donna non ebbe figli mai: ella morì!

   La stessa cosa vale per 2Sam 20:3: “Rimasero così recluse fino [greco ἕως, èos, LXX] al giorno della loro morte, in stato di vedovanza perenne” (CEI). Anche qui è ridicolo dire che l’uso di “finché” dimostra che non necessariamente le cose devono cambiare: come potevano mai cambiare se queste donne rimasero vedove fino alla morte? La morte, anche in questo caso, poneva fine ad ogni possibilità di cambiare le cose.

   Stessa cosa per 2Re 15:5: “Il Signore colpì con la lebbra il re, che rimase lebbroso fino [greco ἕως, èos, LXX]  al giorno della sua morte” (CEI). Stessa considerazione: come avrebbe mai potuto il re avere l’opportunità di guarire dalla lebbra se morì?

   E ancora: “Fino [greco ἕως, èos, LXX] alla morte non rinunzierò alla mia integrità” (Gb 27:5, CEI). E dopo la morte? C’è modo di saperlo? No, dato che Giobbe morì. Oltre che ridicolo, è assurdo sostenere questa specie di “logica grammaticale”.

   In tutti questi casi citati dai detti studiosi cattolici, ben diversa sarebbe la situazione se invece di mettere un termine al “finché” con la morte, si fosse stabilito un termine precedente. Se la Scrittura avesse detto, ad esempio, che Mikal non ebbe figli e il re rimase lebbroso finché non erano passati, mettiamo, dieci anni, sarebbe implicito che poi Mikal ebbe figli e il re guarì. La stessa cosa in Matteo: se fosse scritto che ‘Giuseppe non ebbe rapporti coniugali con Miryàm fino alla sua morte’, sapremmo che non li ebbe mai. Ma il testo dice: che “non ebbe con lei rapporti coniugali finché ella non ebbe partorito un figlio”. È implicito, ovvio e scontato che dopo li ebbe.

   Occorre riferirsi allora ad altre eventuali prove: quelle precedenti non reggono.

   Un altro tentativo viene fatto da questi studiosi cattolici usando l’argomento del “fino ad oggi”. Il “finché” usato con questo senso precisivo non prevedrebbe una variazione futura. Per fare un esempio: la città di Roma sussiste fino ad oggi. Da questo “finché” (fino a) non si può dedurre che Roma non sussisterà anche domani. Vero. Ma neppure si può dedurre che sussisterà. Vediamo comunque gli esempi biblici addotti.

   Mt 27:8: “Quel campo fu denominato ‘Campo di sangue’ fino [greco ἕως, èos] al giorno d’oggi” (CEI). Forse continuò a chiamarsi così per molti anni ancora, ma sta di fatto che oggi non si chiama più così. Matteo non poteva sapere quando quel nome sarebbe entrato in disuso, per cui si accontenta di indicare che era chiamato così ancora al suo tempo.

   Altro passo: “Questa diceria si è divulgata fra i Giudei fino [greco ἕως, èos] ad oggi” (Mt 28:15, CEI). Si tratta della diceria del trafugamento del cadavere di Yeshùa divulgata dalle guardie secondo le istruzioni avute dai loro superiori. Questa precisazione di tempo (“fino ad oggi”) esclude di proposito ciò che sarebbe avvenuto dopo di allora, infatti l’autore non lo poteva sapere. Diversa sarebbe stata la situazione se Matteo avesse detto che ‘tale diceria fu divulgata per dieci anni’: avrebbe significato che dopo i dieci anni non sarebbe più stata diffusa. Così, in Mt 1:25, se avessimo trovato: ‘E Giuseppe non ebbe rapporti coniugali con Miryàm fino al giorno d’oggi’, avremmo potuto concludere che il periodo successivo non era preso in considerazione. Ma sta scritto: “finché ella non ebbe partorito un figlio”.

   Anche questa classe di passi biblici, quindi, non ha nulla a che fare con il testo di Matteo considerato.

   Abbiamo, ora, una classe di passi paralleli a quello di Matteo che fissano un termine preciso e che sono addotti  da questi studiosi cattolici. Anche questa classe di passi alla fine va scartata: qui il “finché” indica, infatti, sempre un cambiamento di condizione. Vediamoli.

   “Piombano sopra di loro la paura e il terrore; per la potenza del tuo braccio restano immobili come pietra, finché sia passato il tuo popolo, Signore, finché sia passato questo tuo popolo che ti sei acquistato” (Es 15:16, CEI). Ragionamento cattolico: forse che gli egiziani non rimasero morti anche dopo che gli ebrei erano passati attraverso il Mar Rosso? Risposta basata sulla Scrittura: le persone rimaste “immobili come pietra” non sono affatto gli egiziani periti tra i flutti del Mar Rosso che si richiudeva, ma i popoli finitimi o confinanti: edomiti, moabiti, cananei (attraverso i cui territori il popolo di Israele doveva passare per prendere possesso della terra promessa – vv. 14,15); sono essi che per il terrore e lo spavento rimangono muti come pietre fino al passaggio del popolo eletto; dopo tale passaggio cambia la situazione: ormai gli ebrei sono passati e non torneranno, non c’è più nulla da temere e smettono di rimanere “immobili come pietra”.

   Altro passo: “Fino al mio arrivo, dèdicati alla lettura, all’esortazione e all’insegnamento” (1Tm 4:13, CEI). Ragionamento cattolico: forse che dopo l’arrivo di Paolo, Timoteo non doveva più dedicarsi alla lettura, all’esortazione e all’insegnamento? Risposta scritturale: la lettura, l’esortazione e l’insegnamento di Timoteo avveniva nelle riunioni pubbliche della comunità o congregazione (vv. 6,11,12,16); è in queste riunioni che – durante l’assenza dell’apostolo Paolo – doveva curare la lettura dei brani biblici e l’insegnamento; è ovvio che al ritorno di Paolo ci sia un cambiamento: la direzione della comunità e l’insegnamento sarebbero di nuovo passate in sua mano; Timoteo è qui solo un supplente che deve ritirarsi al ritorno di Paolo.

   Ancora: “I nostri occhi sono rivolti al Signore nostro Dio, finché abbia pietà di noi (Sl 122:2, CEI; Sl 123:3 in altre versioni). Argomentazione cattolica: forse che, dopo aver ottenuto misericordia, i nostri occhi si rivolgeranno altrove? Risposta biblica: alzare gli occhi è solo un modo poetico per indicare la richiesta di aiuto a Dio; lo dimostra il paragone: “Come gli occhi dei servi alla mano dei loro padroni; come gli occhi della schiava, alla mano della sua padrona, così i nostri occhi sono rivolti al Signore” (stesso versetto, CEI). È evidente che, ottenuto il favore, gli occhi del servo e della serva non continueranno a guardare alla mano dei loro padroni; così anche i fedeli: una volta ottenuto l’aiuto di Dio non continueranno a chiederlo, non continueranno a ‘rivolgere gli occhi a Dio’ per questo scopo. Anche qui, dunque, cambio di situazione dopo il “finché”.

   Altra citazione: “Il fanciullo cresceva e si fortificava nello spirito. Visse in regioni deserte fino al giorno della sua manifestazione a Israele” (Lc 1:80, CEI). Si tratta di Giovanni il battezzatore. Eppure – notano gli studiosi cattolici – anche dopo il periodo indicato egli continuò a vivere in regioni desertiche, tanto che Yeshùa poté dire, parlando di lui: “Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta dal vento?” (Mt 11:7, CEI). Questa volta, a prima vista, sembrerebbe che la citazione sia efficace. Ma per capire il passo occorre metterlo in parallelo con quanto riferito da Luca: “La parola di Dio scese su Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto. Ed egli percorse tutta la regione del Giordano, predicando un battesimo di conversione” (3:2,3, CEI). Secondo Luca, quindi, fu alla chiamata di Dio che Giovanni abbandonò il deserto per frequentare la zona abitata vicino al Giordano (“manifestazione a Israele”). Anche qui un cambiamento di situazione dopo il “finché”. Anche se la regione attorno al Giordano era desertica (di qui la domanda di Yeshùa), essa non era più il deserto originario in cui Giovanni si trovava isolato da ogni contatto col mondo esterno.

   Ci sono altri due passi che potrebbero apparire, a una prima lettura, sconcertanti.

   Il primo passo è tratto da Matteo. Vi si cita Sl 110:1 e vi si legge: “Ha detto il Signore al mio Signore: Siedi alla mia destra, finché io non abbia posto i tuoi nemici sotto i tuoi piedi” (22:44, CEI). Forse che – dicono gli studiosi cattolici – Yeshùa cesserà di regnare dopo la vittoria sui suoi nemici? Il “finché” non indicherebbe quindi un mutamento di situazione. Anche qui il fatto va esaminato non alla luce del nostro ragionamento, ma alla luce della Scrittura. Il fatto è che Yeshùa smetterà davvero di regnare dopo la vittoria finale sui nemici. Lo mostra bene un passo parallelo: “Ogni cosa ha posto sotto i suoi piedi. Però quando dice che ogni cosa è stata sottoposta, è chiaro che si deve eccettuare Colui che gli ha sottomesso ogni cosa. E quando tutto gli sarà stato sottomesso, anche lui, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti” (1Cor 15:27,28, CEI). Anche qui il “finché” conserva il suo valore e indica una situazione che verrà meno al termine del periodo indicato.

   L’altro passo è quello di Gn 8:7: “Il corvo non tornò più nell’arca finché l’acqua non si fu tutta prosciugata”. Si sta parlando del corvo che Noè fece uscire per controllare se le acque del diluvio si erano ritirate. L’argomentazione sarebbe: dato che il corvo non tornò più, a meno di cadere nel ridicolo, non si può affermare che dopo il “finché” avvenga un cambio di situazione e il corvo ritorni. Se “non tornò più”, vuol dire mai più, anche dopo che le acque si erano ritirate. Che dire? Che lo studioso ha preso un solenne granchio. Il passo citato è preso da una traduzione dalla Vulgata latina. Ma la traduzione è errata. Per dimostrarlo è sufficiente citare l’originale testo latino della Vulgata: “Qui egrediebatur et revertebatur donec siccarentur aquae super terram” (Gn 8:7, Vulgata), che tradotto letteralmente recita: “Esso [il corvo] uscì andando e tornando finché si prosciugarono le acque sulla terra” (CEI). Il senso è molto chiaro: il corvo, non trovando alcun posto dove posarsi (essendo la terra ancora ricoperta dalle acque), si allontanava per poi tornare all’arca (“andando e tornando”) e poggiarsi su di essa. Questo durò “finché si prosciugarono le acque sulla terra”. Ed ecco il mutamento di situazione: dopo il “finché” il corvo non fece più, ovviamente, avanti e indietro.

   Dobbiamo dire che non è stato trovato nemmeno un passo biblico a sostegno della perpetua verginità di Miryàm. Nella Bibbia il “finché” indica sempre un mutamento di situazione al termine del periodo indicato. Perché si dovrebbe fare un’eccezione (non provata) nel caso di Giuseppe? Le interpretazioni proposte dai cattolici sono una deformazione del senso biblico: le loro esegesi forzate sono imposte dal dogma cattolico. Dovrebbe essere invece, casomai, la corretta esegesi a imporre il dogma.

   Stando alla Scrittura, dobbiamo concludere che dopo il periodo di impurità legale Giuseppe ebbe normali rapporti coniugali con Miryàm. Nel periodo di impurità legale (sette giorni dopo il parto, in caso di nascita di un maschio) erano esclusi i rapporti sessuali (Lv 12:2,5;19:19). Perché mai dopo quel periodo Giuseppe e Miryàm non avrebbero dovuto averne? Erano sposati. Avevano la benedizione di Dio. Erano fedeli alla Legge divina e credevano nelle indicazioni di Dio per i coniugi: “Saranno una stessa carne”. – Gn 2:24.

   Con Yeshùa possiamo dire: “Quello dunque che Dio ha unito, l’uomo non lo separi”. – Mt 19:6.

Miryàm, “benedetta fra le donne”

   Miryàm fu di certo una ragazza giudea fedele al Dio di Israele e che ebbe da Dio riconoscimenti e benedizioni. Le parole che l’angelo Gabriele le riferisce lo attestano:

 

“Ti saluto, o favorita dalla grazia; il Signore è con te”.

Lc 1:28.

   “Il Signore è con te”: quale credente non vorrebbe sentirsi rivolgere queste parole? Miryàm le udì, riferite addirittura da un angelo, a lei.

   “Favorita dalla grazia”: per quanto la traduzione italiana cerchi di avvicinarsi, non coglierà mai del tutto il pieno significato di quella parola greca: κεχαριτωμένη (kecharitomène). “Egli [Dio] ti ha colmata di grazia” (PdS), “altamente favorita” (TNM). Quel participio passato (kecharitomène) indica l’azione, già compiuta da Dio, espressa dal verbo χαριτόω (charitòo), “empio di grazia”, “rendo affascinante, bello, piacevole”, “onoro con benedizione”.

   E Miryàm, “turbata a queste parole” (Lc 1:29), viene rassicurata dall’angelo: “Non temere”, “perché hai trovato grazia presso Dio” (Lc 1:30). “Grazia”: l’angelo che parla a nome di Dio usa questa stupenda parola da cui deriva il verbo charitòo: χάρις (chàris),  grazia, quello che dà gioia, piacere, delizia, dolcezza, fascino, bellezza, bontà, favore, gentilezza misericordiosa, affezione, che si deve onorare, la condizione spirituale di uno governato dal potere della grazia divina, il segno o prova della grazia (Numero Strong 5485).

   L’umana reazione protestante alla mariologia (meglio sarebbe definirla mariolatria) cattolica non deve farci cadere nell’errore opposto: passare cioè dall’eccessiva esaltazione di Miryàm alla sua squalificazione. Dire che Miryàm è una donna come tutte le altre significa non aver colto, insensibilmente, la particolare considerazione che Dio ebbe per lei.

   Davvero si deve riconoscere tutta la portata di quella gioiosa espressione, ispirata da Dio, in cui proruppe una parente di Miryàm: “Elisabetta fu piena di Spirito Santo, e ad alta voce esclamò: ‘Benedetta sei tu fra le donne!’”. – Lc 1:41,42.