Soltanto i libri canonici, vale a dire quelli contenuti nel canone biblico, sono accolti dai credenti quali libri ispirati: essi sono in tutto 66 libri, di cui 39 appartengono alle Scritture Ebraiche e 27 alle Scritture Greche. I cattolici accolgono sette libri in più (in tutto 73 libri) riguardanti il cosiddetto “Antico Testamento” e detti da loro deuterocanonici, vale a dire facenti parte del secondo canone, quello alessandrino. I protestanti li chiamano “apocrifi”. Tutto ciò è già stato trattato negli studi precedenti.

Perché non vanno ritenuti sacri i libri deuterocanonici

   Varie sono le ragioni. Eccole brevemente:

   • Questi libri – a differenza dei protocanonici – presentano una grande varietà di recensioni (lunghe e corte) e di varianti che mostrano che verso di essi si aveva una maggiore libertà di azione che non verso i libri sacri, ritenuti intangibili.

   • Non vi fu mai discussione fra gli ebrei di Palestina e quelli d’Egitto per il numero di libri sacri. Segno che le due correnti erano d’accordo a loro riguardo. I cattolici dicono che i palestinesi prima avevano pur essi i deuterocanonici, che vennero poi rimossi per pregiudizi. È vero che a Qumràn si sono rinvenuti allo stato frammentario i libri di Tobia e di Ben Sira (Siracide o Ecclesiastico). Di più, è anche vero che nella versione dei LXX i libri deuterocanonici si presentano frammisti a quelli protocanonici. Va però notato che i qumraniti possedevano molti altri scritti oltre ai deuterocanonici, come il Documento di Damasco, la Regola della Comunità, la Regola della guerra, i Giubilei e altri ancora. È vero che gli attuali codici della LXX presentano i deuterocanonici, tuttavia essi contengono anche altri scritti che non sono stati accolti dalla Chiesa Cattolica come sacri, quali le Odi di Salomone, il ed il di Esdra. Come mai si sono accolti i primi e non i secondi se entrambi esistevano nei medesimi codici frammisti con i canonici? Segno dunque che la pura presenza degli scritti in tali codici non basta per dichiararli sacri. Perché da parte cattolica si sono accolti solo i sette deuterocanonici sopra nominati, tralasciando gli altri che vi si trovano a pari titolo presso i qumraniti e i manoscritti della LXX? Che oltre a quelli ritenuti sacri e letti pubblicamente nelle sinagoghe, ve ne fossero molti altri tenuti nascosti, appare dalla seguente citazione di 4Esdra: “Allora io presi cinque uomini come mi era stato comandato. E il giorno dopo ecco che una voce mi chiamò dicendo: Esdra, apri la tua bocca e bevi ciò che ti do da bere. Io lo presi e bevvi e quando ebbi bevuto, il mio corpo produsse intendimento; la sapienza crebbe nel mio petto e il mio spirito ritenne la sua memoria. La mia bocca si aprì e non si chiuse più. L’Altissimo diede conoscenza ai cinque uomini ed essi scrissero quanto io dettavo loro in ordine e in caratteri ad essi sconosciuti. Ed essi sedettero per quaranta giorni, scrissero di giorno e di notte, mangiarono del pane. Ma in quanto a me, io parlai di giorno e di notte, non rimasi silente. Così in quaranta giorni furono scritti novantaquattro libri. E avvenne che quando i quaranta giorni furono compiuti, l’Altissimo mi parlò dicendo: Metti in pubblico i ventiquattro libri che hai scritto, in modo che tanto i degni quanto gli indegni li possano leggere; ma i settanta ultimi procura di consegnarli solo al saggio di tra il popolo, perché in essi vi è la sorgente dell’intendimento, la fontana della sapienza e il fiume della conoscenza. Io feci ciò il settimo anno, nella settima settimana dopo 5000 anni, tre mesi e 12 giorni dalla creazione del mondo”. – 4Esdra 14:37-48 in R. H. Charles, The Aprochripha and pseudepigrapha of the O.T. volume II, Oxford, 1964, pagg. 623 e sgg.; il libro 4° di Esdra fu scritto verso il 120 E. V..

   Si tratta evidentemente di una leggenda, che però documenta l’esistenza di soli 24 libri ritenuti sacri e letti a tutti nelle sinagoghe. Sono i libri delle Scritture Ebraiche che regolarmente nel Talmùd e nei Midràsh sono chiamati “i 24 libri”. Il racconto di “Esdra” ha uno scopo apologetico; vuole difendere la propria ispirazione e quella degli apocrifi che al suo tempo erano diffusi, ma che erano stati sconosciuti prima. Essi esistevano – scrive il libro – senza essere però noti perché erano stati volutamente tenuti nascosti per ordine divino. Anzi, questi libri sarebbero più importanti degli altri, perché mentre i primi si possono leggere a tutti, gli “apocrifi” (da apokrΰpto, “occultare”) sono invece riservati alle persone dotte e più intelligenti.

   Un’altra enumerazione, riferita da Giuseppe Flavio, parla di soli 22 libri, ma in realtà si accorda con il 24 precedente, e considera sacri solo i cosiddetti “protocanonici”. Ecco come ne parla: “Noi non possediamo una moltitudine di libri che sono in disarmonia e si contraddicono l’un l’altro (come avviene presso i greci), ma abbiamo solo ventidue libri che contengono il ricordo del passato, e giustamente vi prestiamo fede. Di essi cinque appartengono a Mosè, e contengono le sue leggi e le tradizioni dall’origine dell’umanità sino alla sua morte. Questo intervallo di tempo fu poco meno di 3000 anni; ma dalla morte di Mosè sino al regno di Artaserse, re di Persia, che regnò dopo Serse, i profeti che furono dopo Mosè, scrissero ciò che avvenne in tredici libri. Gli altri libri contengono inni a Dio e precetti di condotta della vita umana … Da Artaserse (sec. V) fino a noi, tutto fu scritto, però questi libri non hanno presso di noi la stessa autorità che i precedenti, perché non vi fu una sicura successione profetica“. – Contro Apione 1,8.

   Il numero 22, tratto dalle lettere dell’alfabeto ebraico, è raggiunto combinando Rut con Giudici e Lamentazioni con Geremia. Tale numero è pure ricordato da Origène, Epifanio e Girolamo. Segno quindi che agli altri libri apocrifi noti, usati e stimati anche in Palestina, non si attribuiva il medesimo valore degli altri libri ritenuti sacri.

   • Passando poi all’epoca apostolica va notato come le Scritture Greche, nelle loro 263 citazioni dei libri sacri, non presenti mai i deuterocanonici, anche quando ciò avrebbe potuto servire per i suoi ragionamenti. Sono citati nel libro di Giuda alcuni pseudoepigrafi (come il libro di Enoc e l’Apocalisse di Mosè), ma i deuterocanonici non sono mai citati. Anche le allusioni sono ridotte al minimo. È ben difficile che ciò sia dovuto al puro caso, specialmente se si pensa che il loro uso sarebbe stato utile anche per sostenere dottrine delle Scritture Greche. Si può quindi concludere che con grande probabilità ciò era dovuto al fatto che ad essi non si attribuiva il medesimo valore dei protocanonici. I pochissimi scritti protocanonici (come il Cantico dei Cantici) che non sono citati nelle Scritture Greche, si deve al fatto che essi non contenevano alcun riferimento alla dottrina lì trattata.

   • Circa l’uso dei deuterocanonici presso i primi “cristiani”, dobbiamo riconoscere che essi, utilizzando la Bibbia dei LXX, leggevano pure i libri deuterocanonici. Spesso anzi li presentavano come libri sacri in quanto usano espressioni come: “La Scrittura dice”; “La Sapienza dice”. Ippolito, Cipriano ed Ireneo introducono in tal modo brani della Sapienza di Salomone, di Baruc, di Tobia. Era difficile per loro agire diversamente. Tuttavia essi citano in tal modo anche il dei Maccabei, il e il di Esdra, i Salmi di Salomone, i libri Sibillini che in seguito non furono ritenuti sacri. Tuttavia, c’è da domandarsi: questi autori erano ancora discepoli di Yeshùa o erano già “cristiani”?

   Di più va ricordato che gli scrittori i quali fecero apposite ricerche sul canone biblico, eliminarono i libri deuterocanonici per accogliere solo i protocanonici, come appare dalle seguenti indicazioni:

   Nel 2° e 3° secolo: Melitone, vescovo di Sardi (circa 170), presenta come sacri e canonici solo i libri degli ebrei. Egli ne invia l’elenco al fratello Onesimo dopo essere stato in Oriente e averne ricercato l’elenco preciso. – Eusebio, Hist. Eccl. 4,26,14.

   Anche Origène (circa 240), pur citando anche gli altri libri, nel suo commento al Salmo 1 dà l’elenco degli scritti sacri che sono fatti equivalere alle 22 lettere dell’alfabeto ebraico e consistono solo nei protocanonici. – Eusebio, Hist. Eccl. 4,6,25.

   Anzi, Giulio Africano cercò di rimuovere dal testo greco di Daniele i brani che non si trovavano nell’originale ebraico e aramaico, brani deuterocanonici. – Epistula ad Origenum.

   Nel 4°secolo si segue la lista ebraica: Atanasio (nella sua Epistula festalis 39), Cirillo di Gerusalemme, Gregorio Nazianzeno, Epifanio e Anfilochio (l’autore dei Canones Apostolorum).

   Nel 5° secolo: Rufino, Girolamo e Pseudo-Atanasio. Li accoglie invece Agostino.

   • Dal fatto che anche coloro i quali negano l’autorità dei deuterocanonici ne facciano uso, si può dedurre che essi siano stati inconsistenti e riconoscano in pratica ciò che negano in teoria. Contro ciò milita l’affermazione di Girolamo il quale nella sua lettera ai vescovi Cromazio ed Eliodoro così scrive: “Noi abbiamo tre libri di Salomone: I Proverbi, l’Ecclesiaste (o Qoèlet) e il Cantico dei Cantici. Di fatto il libro intitolato l’Ecclesiastico (o Siracide) e l’altro che falsamente si chiama Sapienza di Salomone, sono nell’identica situazione del libro di Giuditta, di Tobia e dei Maccabei. La chiesa li legge, in verità; ma non li riconosce tra gli scritti canonici; li legge per edificazione del popolo, ma non per provare o autorizzare alcun articolo di fede”.

   Anche nel prologo galeato (protettivo) Girolamo scrive: “Questo prologo, che è come il principio galeato [= uno scudo, una difesa] delle S. Scritture, può convenire a tutti i libri che abbiamo tradotto in latino, affinché possiamo sapere che i libri che stanno al di fuori [dalla citazione precedentemente presentata], devono essere ritenuti apocrifi. Perciò la Sapienza che volgarmente si dice di Salomone, il libro di Gesù figlio di Sirac, Tobia e il Pastore non sono nel canone. Ho trovato in ebraico anche il primo libro dei Maccabei; il secondo invece è greco, come si può dedurre anche dallo stesso stile”. – Nelle edizioni antiche della Volgata latina.

   Ne deriva che il cosiddetto Decreto di Damaso, con il canone della Sacra Scrittura, pari al nostro, non può essere genuino (Denz Sch 179). Girolamo non poteva affermare una cosa in contraddizione così stridente con papa Damaso. Infatti, una citazione tratta da un’opera di Agostino (Spiritas enim sancts … intelligitar Spiritus, da Ev. Iv. Tract OX, 7 PL 35, 1461) scritta nel 414 impedisce che tale decreto possa aver avuto origine da Damaso anteriore ad Agostino (Damaso 366-384; Agostino morì nel 430).

   Questo è confermato anche dal fatto che nella comunità si leggevano altri scritti oltre a quelli sacri: a Corinto si leggevano le lettere speditevi da Clemente Romano e da Sotere (così Dionigi di Corinto in Eusebio – Hist. Eccl. IV, 23, 11). In Africa, in Asia e in Spagna si leggevano nell’anniversario della morte le passioni dei martiri senza per questo che divenissero ispirate. – Cfr. H. Delehaye, Santus, Bruxelles, 1927, pag. 192.

   • Dal 6° secolo in Oriente i dubbi contro i deuterocanonici svanirono quasi del tutto, pur essendo stati sostenuti ancora nel 6° secolo da Leonzio di Bisanzio e da Giunilio Africano; nell’8° secolo solo da Giovanni Damasceno e nel 9° secolo da Niceforo Costantinopolitano. In Occidente, forse per influsso di Girolamo, i dubbi persistettero più a lungo: circa quindici vescovi o studiosi si opposero ai deuterocanonici (o almeno ad alcuni di essi) nel corso di undici secoli. Tra costoro vanno segnalati: Gregorio Magno papa (morto nel 604), Ugo di San Vittore (12° secolo), Antonino di Firenze (15° secolo), il cardinale Gaetano (16° secolo), Nicola di Lira (14° secolo).

   Secondo il cardinale Pallavicini, al concilio di Trento si domandò se si dovessero distinguere i libri sacri in due classi: quelli su cui poggiano i dogmi e gli altri utili a promuovere la pietà. Il cardinale Seripando, in un erudito opuscolo, propose di distinguere i libri sacri in “canonici” ed “ecclesiastici”, ma non ebbe seguaci. Anche il cardinale Gaetano sostenne la distinzione in libri “protocanonici” e “deuterocanonici”. – Pallavicini, Storia del Concilio di Trento, 1.VI, c. 11, n. 4s.

   Tuttavia, il concilio di Trento non accolse tale idea e presentò l’elenco dei libri sacri, inclusi i deuterocanonici, concludendo con le seguenti parole: “Se qualcuno non riterrà per sacri e canonici gli stessi libri integri con tutte le loro parti, così come si usò leggere nella chiesa cattolica e si contengono nell’antica edizione della Volgata latina, spezzando consapevolmente e imprudentemente le predette tradizioni, sia scomunicato” (Concilio di Trento, Sessione IV, 8 aprile 1546 78p, Denz. sch 1502-1504). Secondo A. Loisy – in Histoire du canon de l’A.T., Paris 1890 pagg. 124-185,208,213,234-41 – il Concilio di Trento non avrebbe assimilato i deuterocanonici ai protocanonici, in quanto solo da questi si sarebbero dovuti dedurre i dogmi. Ma non pare di vedere tale idea nel testo definitivo.

   Talvolta si dice che il concilio di Trento fu il primo a stabilire il canone degli scritti sacri, ma in realtà esso non ha fatto altro che ripetere ciò che già prima avevano stabilito il concilio di Firenze nel Decreto per i Giacobiti del 1442 (Denz Sch 1334-1336), Innocenzo I (vescovo Roma) nella sua lettera al vescovo di Tolosa Esuperio nell’anno 405 (Denz Sch 212), il concilio III di Cartagine nel 397 (Denz Sch 186) e infine il cosiddetto decreto di Damaso del 381 a lui falsamente attribuito (Denz Sch 179s).

   Dopo il concilio di Trento, tra i cattolici solo Jahn e Touttée misero in dubbio l’autorità dei libri deuterocanonici, ma furono biasimati dal Vaticano I, secondo il quale tutti i libri contenuti nella Volgata “nella loro interezza e con tutte le loro parti devono essere ritenuti sacri e canonici”. – Denz Sch 3006.

Sono ispirati solo i libri originali della Bibbia

   Tutti i credenti riconoscono che le versioni bibliche non sono ispirate, in quanto l’ispirazione riguarda solo gli originali, quelli in ebraico per le Scritture Ebraiche (con qualche brano in aramaico) e quelli in greco per le Scritture Greche. Vi è però ora la tendenza da parte cattolica ad attribuire una certa ispirazione anche alla versione greca della LXX e alla Volgata. In questa mentalità rientrano anche i Testimoni di Geova per quanto riguarda la versione biblica editata da loro; essi non osano parlare, ovviamente, di traduzione ispirata, ma con un giro di parole parlano di traduzione guidata dalla spirito di Dio.

     1. Versione alessandrina o dei LXX. Il primo cenno all’origine di questa versione si ha nella Lettera di Aristea a Filocrate, scritta da un giudeo (anche se di fatto si presenta come un greco, adoratore di Zeus) nel 2° secolo a. E. V., certo prima del 96 a. E. V., perché in quest’anno la città di Gaza fu distrutta da Alessandro Ianneo. Questa lettera afferma che Tolomeo (Filadelfo, 285 – 247) fece fare una versione greca delle “Legge” (il Pentateuco) per la sua famosa biblioteca alessandrina. Per questo fece venire da Gerusalemme 72 traduttori, che sistemò in un magnifico soggiorno dell’isola di Faro, deve essi prepararono la loro versione. Si volle vedere la guida di Dio nel loro lavoro: “Avvenne che il lavoro della traduzione fu terminato in settantadue giorni, come se simile cosa fosse dovuta a qualche disegno premeditato”. – Lettera Aristea 12, n. 307, Ediz. A. Pellétoer, Sources Chrétiennes n. 89, pag. 233, Paris.

   Il racconto, che non afferma nulla di miracoloso, servì poi di base per le leggende posteriori.

   Filone vi aggiunse che il volere di Tolomeo non avvenne “senza una intenzione di Dio” e che i traduttori “sotto l’influsso di una ispirazione divina pronunciarono non questo o quello, ma tutti i medesimi nomi e le stesse parole, come se in ciascuno di essi si facesse sentire interiormente la voce di un ispiratore invisibile”, per cui costoro “non si chiamarono dei traduttori semplicemente, bensì ierofanti e profeti, in quanto tali uomini poterono presentare con espressioni trasparenti il pensiero così puro di Mosè”. – Vita di Mosè 2, 37.

   Dal giudaismo la leggenda passò al “cristianesimo” e si estese non solo alla Legge, bensì anche ai libri profetici. Il più completo al riguardo è il documento anonimo del 2° o del 3° secolo E. V., la cosiddetta Exhortatio ad Graecos, secondo cui l’autore, recatosi nel quartiere del Faro, poté vedere, ancora al suo tempo, le cellette preparate per i singoli traduttori.

“[Tolomeo] prescrisse di sistemarli, non nella città, ma a sette stadi di là, nel quartiere costruito al Faro, in cellette, con l’obbligo per ciascuno di fare da solo tutta intera la traduzione. Ordinò poi ai funzionari responsabili di dare ad essi ogni conforto, ma di impedire che si consultassero tra loro, affinché il loro accordo fosse un mezzo di più per conoscere l’esatta traduzione. Quando egli seppe che quei settantadue uomini non ebbero il minimo disaccordo sia nel pensiero, sia nelle espressioni, e che le loro redazioni erano identiche per gli stessi passi, stupefatto e convinto che la traduzione fosse stata scritta per un miracolo della potenza divina, riconobbe in loro degli uomini degni della massima considerazione essendo così tanto amati da Dio, e li rinviò al loro paese ricolmi di doni. I libri poi li mise là [nella Biblioteca] con un religioso rispetto”. – Exhortatio ad Graecos, PG 6,241-326.

    Da questo episodio leggendario proviene il nome attuale della versione greca alessandrina che si chiama appunto dei LXX o la Settanta, vale a dire preparata da settanta (o settantadue) autori.

   Questo racconto, accolto in buona parte da quasi tutti i cosiddetti padri della chiesa che ne hanno parlato, servì ad accrescere il valore della versione greca, ritenuta ispirata. Girolamo (morto nel 420), tornato all’originale presentazione di Aristea, eliminò tutti gli abbellimenti posteriori, come le famose cellette. Però lui ammise una speciale assistenza divina nella traduzione dei LXX che, ritenuta esente da errore, fu da lui utilizzata all’inizio per rivedere l’antica traduzione latina . – Cfr, Praef. in Pent, PL 28, 149.

   La critica recente ha mostrato l’infondatezza della leggenda suddetta ed ora gli studiosi per difendere l’ispirazione della LXX poggiano su altri argomenti:

   a) Citazioni della versione greca dei LXX nelle Scritture Greche. Tuttavia, questo non è argomento apodittico ovvero che non ha bisogno di dimostrazione; anziché curare una traduzione nuova, gli scrittori delle Scritture Greche, scrivendo in greco, usarono la versione già esistente. Anche noi adoperiamo le traduzioni italiane già correnti, senza pretendere di curarne personalmente una noi, pur sapendo che esse non sono ispirate e nemmeno esenti da errori.

   b) Talora gli scrittori delle Scritture Greche adottarono la versione dei LXX proprio là dove essa si diversifica dall’originale ebraico. È il caso di Mt 1:23 con la vergine (παρθένος, parthénos) che deve partorire; l’ebraico di Is 7:14 (citato da Matteo) ha עַלְמָה (almàh) e indica una giovane nubile atta al matrimonio, senza porre l’enfasi sulla verginità, come nel caso di parthénos greco. Perciò gli autori sacri delle Scritture Greche citano come Scrittura proprio la versione greca a differenza dell’originale; segno quindi – secondo l’interpretazione di certi teologi – che essa è ispirata. Non ne segue affatto, tuttavia, tale conclusione. È ispirato il ragionamento che Matteo fa su questo passo, così come uno scrittore sacro può citare anche un brano non biblico. È vera la deduzione che ne fa, ma non ne deriva la consacrazione critica del punto di partenza. Questo studio sarà approfondito nel trattare l’argomento delle citazioni dalle Scritture Ebraiche.

   2. Volgata. È questa un’altra traduzione privilegiata che Melchior Cano riteneva ispirata in quanto il suo traduttore, pur non essendo un profeta, “aveva uno spirito vicino e affine a quello profetico, il che era necessario perché la chiesa latina avesse una edizione della Sacra Scrittura, da seguire con piena sicurezza in materia di fede e di costumi”. – M. Cano, De locis theologias cap. 13.

   Questo era, si diceva, il pensiero del Concilio di Trento che la dichiarò “autentica”, da usarsi quindi “nelle pubbliche lezioni, nelle dispute, nelle prediche e nel commento biblico” in quanto essa “è stata approvata da un secolare uso nella chiesa [cattolica]”. – Concilio di Trento, sessione IV, 8 aprile 1546, Denz Sch 1506.

   Pio XII, nella sua enciclica Divino Afflante Spiritu (1943), spiegò che questa “autenticità” non riguarda la sua fedeltà assoluta al testo originale (critica testuale), ma al suo valore “giuridico” nella chiesa. Dato che dal suo uso plurisecolare da parte della Chiesa Cattolica, appare “che tale versione […] in questioni di fede e di morale è del tutto esente da errore, cosicché, come attesta e conferma la Chiesa, nelle discussioni, nelle lezioni, nelle prediche può essere citata senza pericolo di errare”. – Pio XII, Enciclica Divino Afflante Spiritu, 30 settembre 1943, Denz Sch 3825.

   Già da molti anni sono state pubblicate nuove versioni e nuove traduzioni dagli originali anche con la collaborazione di aderenti ad altre confessioni religiose, senza dover ricorrere come prima alla versione latina. Oggi si ritorna ad asserire il valore del testo originario, che solo è ispirato, mentre non lo è una versione qualsiasi. Si può quindi concludere che è ispirato solo l’originale, come uscì dalle mani dell’autore sacro, che per questo si chiama “agiografo”.