“Se non mangiate … non avete vita”

   Parlando agli ebrei che lo ascoltavano, Yeshùa usa un tono perentorio: “Io vi dichiaro una cosa: se non mangiate il corpo del figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita”. – Gv 6:53, PdS.

   Si noti l’uso del tempo dei verbi mangiare e bere: è al presente. Yeshùa non dice: se non mangerete, se non berrete; ma: se non mangiate, se non bevete. Si tratta quindi di un’azione possibile nel momento stesso in cui lui parla. I suoi uditori potevano – anzi, dovevano -, proprio in quel momento, mangiare la sua carne e bere il suo sangue per acquisire la vita.

   Questo atto non poteva certo riferirsi a una presunta eucaristia. Poteva solo riferirsi alla fede necessaria in quel momento come in tutti gli altri momenti.

   Le parole di Yeshùa affermano in modo categorico la necessità di mangiare la sua carne e di bere il suo sangue. Solo chi ne mangia e ne beve possiede la vita, mentre chi non ne mangia e non ne beve non la possiede. Ancora una volta Yeshùa intende parlare di fede: “Questa infatti è la volontà del Padre mio, che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; io lo risusciterò nell’ultimo giorno”. – Gv 6:40.

   Il dubbio e l’incertezza colsero parecchi credenti: “Molti discepoli, sentendo Gesù parlare così, dissero: ‘Adesso esagera! Chi può ascoltare cose simili?’” (Gv 6:60, PdS). Yeshùa spiega allora cosa intendeva con il suo discorso così sconcertante. Non voleva certo alludere alla sua carne materiale: essa non giova a nulla; alludeva alle sue parole che sono spirito e vita:

“È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che vi ho dette sono spirito e vita”. – V. 63.

   Ecco il punto cruciale contro cui molti urtano: non credono, non vogliono credere che Yeshùa sia il pane di vita e che abbia la possibilità di vivificare. È per questo che mai avranno la vita. “Da quel momento, molti discepoli di Gesù si ritirarono e non andavano più con lui. Allora Gesù domandò ai dodici: Forse volete andarvene anche voi?”. – Vv. 66,67, PdS.

   Ancora risuona la risposta pronta e spontanea che Pietro diede in quel lontano giorno di primavera sul lago di Galilea: “Signore, da chi andremo? Tu solo hai parole che danno la vita eterna. E ora noi crediamo e sappiamo che tu sei quello che Dio ha mandato”. – V. 68, PdS.

“Questo è il mio corpo”, “questo è il mio sangue”

   Yeshùa volle che del suo sacrificio, della sua morte, fosse fatta in futuro una commemorazione. Egli scelse le cose più comuni e quotidiane – il pane e il vino – quali simboli del suo corpo e del suo sangue.

   “Mentre mangiavano, Gesù prese del pane e, dopo aver detto la benedizione, lo ruppe e lo diede ai suoi discepoli dicendo: ‘Prendete, mangiate, questo è il mio corpo’. Poi, preso un calice e rese grazie, lo diede loro, dicendo: ‘Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue, il sangue del patto, il quale è sparso per molti per il perdono dei peccati’”. – Mt 26:26-28.

   “Questo è”. “È”, greco ἐστίν (estìn), copula; può significare sia “è” sia “rappresenta”. La Bibbia non ha alcun verbo per indicare “rappresenta” o “simboleggia”. Se Yeshùa, dunque, avesse voluto indicare che il pane e il sangue sono segno del suo corpo e del suo sangue, avrebbe dovuto necessariamente usare la copula “è”. D’altra parte, Yeshùa non parlò neppure in greco: parlò in ebraico o in aramaico. In queste lingue il verbo essere al tempo presente non esiste. Nessun teologo o esegeta o studioso potrà mai trovare nella Scrittura (sia nel testo ebraico sia il quello greco) un solo verbo che indichi “rappresentare” o “simboleggiare”. Questo concetto è sempre indicato con “è”, se in greco, sottinteso se in ebraico.

   Comunque, la frase di Yeshùa può essere intesa sia in senso letterale che metaforico. È solo il contesto che può stabilire l’intenzione di Yeshùa che l’ha pronunciata. È solo il contesto che può stabilire se Yeshùa intendeva dire: ‘Questo è realmente’ oppure ‘questo rappresenta’.

   Quando vediamo qualcuno che indicando una fotografia dice: “Questa è mia figlia”, comprendiamo che siamo in presenza solo di una rappresentazione di quella figlia. Così, quando qualcuno indica su una cartina geografica un puntino e dice: “Questa è Gerusalemme”, comprendiamo ancora che siamo di fronte solo a un simbolo. Qualche teologo obietta che in nessuna lingua e in nessun popolo il pane e il sangue sono mai stati simboli del corpo e del sangue, per cui sono da intendersi letteralmente. Questo non è del tutto vero. Sia in Babilonia sia in Palestina si vedeva la pigiatura dell’uva come la morte del grappolo che dava il vino, e questo vino era chiamato “sangue dell’uva”. La somiglianza stava nel fatto che aveva lo stesso colore e che era considerato la sorgente vitale della vite. Mosè dice alla discendenza di Giacobbe: “Tu hai bevuto il vino generoso, il sangue dell’uva” (Dt 32:14). In Isaia, al misterioso personaggio che impersona Dio viene domandato: “Perché questo rosso sul tuo mantello e perché le tue vesti sono come quelle di chi calca l’uva nel tino?”; e quello risponde: “Io sono stato solo a calcare l’uva nel tino, e nessun uomo di fra i popoli è stato con me; io li ho calcati nella mia ira, li ho calpestati nel mio furore; il loro sangue è spruzzato sulle mie vesti, ho macchiato tutti i miei abiti” (63:2,3). Nulla quindi di più naturale che usare il vino come simbolo del sangue. E nulla di più naturale per i discepoli comprendere che Yeshùa stava usando il vino come simbolo del “sangue, il sangue del patto, il quale è sparso per molti per il perdono dei peccati”. Meno naturale era, viceversa, capire il rapporto pane-corpo. Solo dalle circostanze i discepoli potevano conoscere il senso che Yeshùa voleva dare all’espressione: “Questo è il mio corpo”.

Le circostanze della Cena del Signore

   Sono proprio le circostanze in cui Yeshùa pronunciò quella frase che c’inducono ad annettere un valore puramente simbolico alle sue parole.

   Il clima era quello pasquale. Sebbene quella non fosse la sera di Pasqua, era comunque quella precedente e, mentre fervevano i preparativi, gli ebrei già s’immedesimavano. Ogni cosa era ricolma di atti simbolici: cercare una casa temporanea, celebrare di notte, vegliare, il pane non lievitato per la fretta, l’agnello il cui sangue tenne lontano l’angelo sterminatore, le erbe amare come la schiavitù. E ai bambini che domandavano il senso di quelle cose, gli ebrei dovevano rispondere. “In quel giorno tu spiegherai questo a tuo figlio, dicendo: ‘Si fa così a motivo di quello che il Signore fece per me quando uscii dall’Egitto’. Ciò sarà per te come un segno sulla tua mano, come un ricordo fra i tuoi occhi, affinché la legge del Signore sia nella tua bocca; poiché il Signore ti ha fatto uscire dall’Egitto con mano potente” (Es 13:8,9). In un ambiente così saturo di simbolismi era ben naturale per gli apostoli attribuire un valore simbolico anche agli elementi addotti da Yeshùa, cioè il pane e il vino.

   I discepoli compresero bene il senso della nuova istituzione che Yeshùa volle stabilire. Luca riferisce il valore o significato di quei gesti nella spiegazione di Yeshùa stesso: “Fate questo in memoria di me” (Lc 22:19). Anche Paolo si riferisce alla spiegazione di Yeshùa stesso: “Il Signore Gesù, nella notte in cui fu tradito, prese del pane, e dopo aver reso grazie, lo ruppe e disse: ‘Questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me’. Nello stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: ‘Questo calice è il nuovo patto nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne berrete, in memoria di me’” (1Cor 11:24,25). E Paolo, subito dopo dice: “Ogni volta che mangiate questo pane e bevete da questo calice” (v. 26) – non ‘ogni volta che mangiate il corpo e bevete il sangue’, il che sarebbe stato ripugnante, specialmente per un ebreo (in quanto cose contrarie alla Legge).

   Dunque, “in memoria”. Va notato che il ricordo o la commemorazione comporta l’assenza della persona ricordata. Quindi, quando si compie la Cena del Signore non siamo nel campo di un cambiamento sostanziale degli elementi, ma nell’ambito di un ricordo. Ciò che si attua mediante il ricordo non è transustanziazione, ma simbolo o segno. Questo ricordo in assenza della persona ricordata si fa finché quella persona è assente. Quando Yeshùa ritornerà, cesserà il ricordo: “Ogni volta che mangiate questo pane e bevete da questo calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga” (1Cor 11:26). Che cosa poteva dire di più Yeshùa per indicare che si trattava di simboli? Le sue parole vanno intese come voleva che fossero intese e come, di fatto, le intesero i discepoli: siamo di fronte a degli emblemi, a dei simboli.

   Nel modo di pensare di un ebreo (e quindi della Bibbia stessa) il senso più naturale di intendere il tutto è in ambito simbolico. Un parallelo lo abbiamo nel modo di esprimersi di Ezechiele: dopo essersi tagliato i capelli e la barba, ne brucia una parte, un’altra la percuote con la spada e una terza la disperde; poi dice (5:5): “Questa è Gerusalemme” (testo originale ebraico: זֹאת יְרוּשָׁלִַם  (zot yerushalàim). È lo stesso modo di parlare di Yeshùa: “Io sono la porta” (Gv 10:7). Perfino un occidentale capisce che è simbolico.