Il senso simbolico dato da Yeshùa alla commemorazione che i suoi discepoli avrebbero dovuto fare in futuro è evidente anche dalla trasmissione che essi fecero delle sue parole. Nella Bibbia abbiamo due forme equivalenti di questa trasmissione.

  1. In una forma si ha: “Preso un calice e rese grazie, lo diede loro, e tutti ne bevvero. Poi Gesù disse: ‘Questo è il mio sangue, il sangue del patto’” (Mr 14:23,24). Qui il “calice” è soggetto (sta per vino) e “il mio sangue” è il predicato. Nella simbologia: calice/vino = sangue.
  2. In un’altra forma si ha: “Questo calice è il nuovo patto” (1Cor 11:25). Qui il “calice” è soggetto (sta per vino) e “il nuovo patto” è il predicato. Nella simbologia: calice/vino = patto.

   Queste due forme equivalenti si possono spiegare solo in senso simbolico. Sarebbe assurdo pensare ad una transustanziazione tra vivo e patto: una sostanza materiale come si trasformerebbe in un qualcosa di astratto come un patto? E poi, diventerebbe sangue o patto? I discepoli non si posero di questi problemi: per loro erano simboli.

   Paolo dà una duplice spiegazione della Cena del Signore: essa è proclamazione o predicazione o annuncio della morte di Yeshùa, ed è anche una comunione con il suo corpo e il suo sangue. “Ogni volta che mangiate questo pane e bevete da questo calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga” (1Cor 11:26). L’azione del mangiare e del bere diviene così una rappresentazione mediante atti di ciò che è avvenuto per la nostra redenzione. Non solo. “Il calice della benedizione, che noi benediciamo, non è forse la comunione con il sangue di Cristo? Il pane che noi rompiamo, non è forse la comunione con il corpo di Cristo?” (1Cor 10:16). Qui Paolo non dice per nulla che il pane sia letteralmente il corpo e il vino il sangue di Yeshùa, ma afferma invece una comunione con Yeshùa. In altre parole, per il loro rapporto simbolico con il corpo di Yeshùa, il pane e il vino di cui i discepoli si nutrono li pongono in comunione con Yeshùa. Questo è il senso dato anche dal parallelismo che Paolo fa con i sacrifici ebraici offerti a Dio e quelli pagani offerti ai demòni: “Guardate l’Israele secondo la carne: quelli che mangiano i sacrifici non hanno forse comunione con l’altare [sinonimo di Dio]? […] Le carni che i pagani sacrificano, le sacrificano ai demòni e non a Dio” (1Cor 10:18,20). Come mangiando la carne offerta ai demòni si entrava in comunione con loro, così nutrendosi del pane e del vino in ricordo di Yeshùa si entra in comunione con lui.

   Infine, non si deve insistere troppo – da parte cattolica – sul fatto che Yeshùa abbia detto, parlando al presente, durante la cena: “Questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me”; “Questo calice è il nuovo patto nel mio sangue, che è versato per voi” (Lc 22:19,20). Secondo certi biblisti cattolici questo sarebbe indicativo del fatto che il sacrificio (della messa) si attuava in quello stesso momento del banchetto; altrimenti, secondo loro, avrebbe dovuto dire: ‘Il mio corpo che sarà dato’ e ‘Il mio sangue che sarà versato’. Questo è un tentativo di obiezione fatto da classicisti e fuori luogo per quanto riguarda le Scritture Greche. Queste infatti non sono scritte in greco classico, ma in greco comune (κοινή, koinè), una mescolanza di diversi dialetti greci. Il participio futuro (‘sarà dato’, ‘sarà versato’) non è quasi più usato dagli scrittori delle Scritture Greche; esso viene sostituito dal presente, in particolare quando si tratta di un futuro prossimo o di un futuro certo. Volendo fare un esempio, sarebbe un po’ come dire in un italiano popolare ma non in un buon italiano: Viene domani, lo faccio la settimana prossima (anziché: Verrà domani, lo farò la settimana prossima). Così, nella koinè delle Scritture Greche abbiamo, ad esempio, ὁ ἐρχόμενος (o erchòmenos) che non è ‘colui che viene ora, attualmente’ (“che viene”, TNM), ma “colui che deve venire”; infatti si ha: “Colui che è [presente] e che era [passato]  e che verrà [futuro]” (Ap 1:4, Dia). Allo stesso modo, οἱ σωζόμενοι (òi sozòmenoi) non sono ‘coloro che sono salvati ora, attualmente’ (“quelli che sono salvati”, TNM), ma  “coloro che saranno salvati” (Lc 13:23); infatti, alla domanda: “Sono pochi quelli che saranno salvati?” (Dia), Yeshùa risponde al futuro: “Sforzatevi con vigore per entrare dalla porta stretta, perché molti, vi dico, cercheranno di entrare ma non potranno” (v. 24, TNM). Bene quindi la Vulgata latina che traduce la frase di Yeshùa al futuro: “Hoc est corpus meum quod pro vobis datur”; “hic est calix novum testamentum in sanguine meo quod pro vobis funditur” : “Questo è il mio corpo che sarà dato per voi”: “Questo è il calice del nuovo patto nel mio sangue che sarà versato per voi”.

   Il sacrificio cui Yeshùa allude non è quindi quello eucaristico, ma quello che nel pomeriggio seguente egli stesso avrebbe offerto sulla croce su cui morì.

   Non si tratta quindi di transustanziazione o trasmutazione di sostanze. Eppure si tratta di un cambiamento. Ma che sta nell’ordine del segno-ricordo o segno-memoria.